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(…) un personaggio (…) simulatore per eccellenza ((è) Armida. Nel canto IV essa fa la sua comparsa in scena giungendo al campo cristiano con l’intento di apportarvi divisione e gelosia, con ciò rivestendo il tradizionale ruolo che gli epici antichi assegnavano solitamente alla Discordia, inviata dai Numi avversi, così come qui Armida è inviata da Satana. Per impietosire e sedurre, la donna racconta la storia fittizia di una persecuzione che la vede vittima innocente di uno zio avido di ricchezze e di potere. La vicenda, che nel suo schema generale conserva le tracce di analoghi episodi della tradizione romanzesca, rimanda dunque a questa

167 come a un linguaggio dell’inganno. (…) La strategia seduttiva di Armida è bilanciata (…) fra offerta e diniego, stimolo e freno, ostentazione e maschera, dato che la varietà proteiforme del suo “essere”, convertito in pura successione fenomenica di “apparenze”, si esplica secondo l’occasione e il destinatario:

“Usa ogn’arte la donna, onde sia colto ne la sua rete alcun novello amante; né con tutti, né sempre un stesso volto serba, ma cangia a tempo atti e sembiante. Or tiene pudica il guardo in sé raccolto, or lo rivolge cupido e vagante:

la sferza in quegli, il freno adopra in questi, come lor vede in amar lenti o presti. (IV 87).

(…) Ha rilevato (…) Antonio La Penna ((Tasso e Ovidio. Aspetti della presenza di Ovidio nella “Gerusalemme liberata”, in Semicerchio, IX, 1993, pp. 43-55)) che l’artificio di Armida di rivelare solo in parte, o solo temporaneamente, le sue bellezze, ricorre fra quelli che Ovidio consiglia alle puellae nell’Ars amatoria (III 307-310): scoprirsi con discrezione per tener desto il desiderio dell’amante e per iniziarlo ai segreti delle bellezze più intime. Ma questa tecnica seduttiva è qui finalizzata (…) a una strategia bellica, e nella Liberata proprio la dissimulazione entra a pieno titolo dentro ‘l’arte della guerra’ (famoso titolo machiavelliano). È perciò curioso, ma non sorprendente, riscontrare come di armi sostanzialmente non diverse si componga la strategia militare di Goffredo, che risponde alle tecniche codificate dalla poliorcetica, o arte dell’assedio; e soprattutto come nel celebre duello fra Tancredi e Argante la tecnica schermistica si impronti a un gioco di finte e di simulazioni che non differisce sostanzialmente dalla tecnica seduttiva di Armida. (…)

XVI CANTO?

CINTO DI ARMIDA: cfr. Cinto di Venere

Raffaele Ruggiero, Arte allusiva nel giardino di Armida

I due poli dell’allusività tassiana sono costituiti dall’antinomia tra guerra e amore, sul piano dei contenuti; e dal necessario contemperamento di utile/amaro ed elegante/dolce in poesia. un elemento chiave consente la decrittazione del sistema: si tratta del cinto di Armida, nell’ottava venticinquesima del canto.

“Teneri sdegni, e placide e tranquille repulse, e cari vezzi, e liete paci, sorrise parolette, e dolci stille

di pianto, e sospir tronchi, e molli baci: fuse tai cose tutte, e poscia unille ed al foco temprò di lente faci, e ne formò quel sì mirabil cinto di ch’ella aveva il bel fianco succinto”.

Contenuti fermentanti, dei quali Tasso ha voluto indicare sia la densità sia la frammentarietà. Scipione Gentili anche qui non manca di rilevare la fonte antica: “Questo è lo cinto di Venere, che da Greci si dimanda Cestos, et è descritto da Omero nel decimo quarto della Iliade”, e Giulio Guastavini, l’altro commentatore tassiano di fine Cinquecento, addirittura cita i vv. 214-17 del libro iliadico (…). E così Guastavini traduce: “Disse, e dal petto si sciolse il cinto ricamato / Di diversi colori; e quivi i vezzi tutti erano / Quivi l’amore, e il desiderio, i sussurri, / Le lusinghe che rubano la mente eziandio de’ più saggi”. Il rinvio è particolarmente significativo, se si considera che il contesto di provenienza è di nuovo quello dell’amore che determina una pausa forzata nei fatti di guerra: infatti la dea Era, persuadendo Afrodite a fornirle il cinto del desiderio, attira a sé Zeus, che della vetta del monte Ida dirigeva la battaglia. Dopo l’amplesso, il dio Sonno induce un sonno fraudolento nel padre degli dèi e lascia così campo libero ad Era

168 per determinare i destini umani. Uno fra i più acuti commentatori iliadici, Walter Leaf, annotava all’inizio del Novecento: “The most romantic scene in the Iliad”. A riprova dell’attenzione che l’immagine omerico- tassiana suscitò presso i contemporanei e gli artisti dei decenni immediatamente successivi, Ezio Raimondi, per il dialogo Il Messaggiero, ricorda le stampe cinquecentesche e secentesche che raffigurano il “gentile spirto” del dialogo abbigliato appunto con il “cinto di Armida”.

Si tratta evidentemente di una scena archetipica. I poeti latini prima e Tasso poi non si limitano a fare riferimento al modello omerico, riconoscibile e legittimante, ma ne colgono appieno la portata dirompente sia sul piano dei valori tradizionali sia sul piano della scelta artistica. Il poeta entra in campo in prima persona e, costruendo artificialmente una pausa nella trama principale, rompe l’unità narrativa e prende posizione nel dibattito sui generi e sul concetto stesso di “convenevole” in poesia.

L’inganno a Zeus è la rivincita del poeta sui suoi personaggi: un’infrazione del regime poetico dell’epica per la quale Eraclito chiedeva che Omero fosse frustato e cacciato dagli agoni. Questa tradizione, grazie anche ai sapienti artifici della Liberata, si assicura una sopravvivenza nella storia moderna dell’estetica europea.

Armida come Sirena: cfr. magica larva che assume l’aspetto di sirena seduttrice che rivolge le sue grazie all’arrivante Rinaldo (XVI 61). ((per articolo di Volterrani))

Armida-Circe: funzione archetipica del mito

Francesco Ferretti, «Naturae ludentis opus». Le Metamorfosi di Ovidio nella Gerusalemme liberata

Ferrara era una delle corti italiane dove la mitologia pagana aveva riscosso maggior successo, fin dal Quattrocento (…) in alcuni momenti la finzione del mito pagano viene invocata ((da Tasso)) per attribuire un determinato rilievo a situazioni narrative particolarmente intense. Tali vicende tornano allora all’origine, presso il loro archetipo favoloso (così come del resto accade spesso anche nel corpus delle Rime, costellato di innumerevoli filigrane mitologiche ovidiane). È soprattutto Armida a essere una Circe, una Medea, un Proteo durante la sua fase libertina (IV 86 e V 63) e che, innamorandosi, si rispecchia in Rinaldo come Narciso al fonte (XIV 66, 8); Solimano giace a terra simile ad Anteo (XX 108 2) e l’empio Argante pare Encelado a Flegra (VI 23 5); gli amori di Rinaldo languidamente coricato in grembo all’amata vengono preannunciati dai battenti intagliati del giardino di Armida (XVI 3), dove sono raffigurati Ercole e Iole (che è un errore per Onfale) sulla scia di Ov. Ars II 217-220; e naturalmente possono ricordare al lettore anche Venere e Adone, Venere e Marte, Amore e Psiche. Erano topoi mitologici ben riconoscibili, certo immuni da sospetti di inverosimiglianza.

Traformazione crociati in pesci

Francesco Ferretti, «Naturae ludentis opus». Le Metamorfosi di Ovidio nella Gerusalemme liberata C’è un (…) libro (…) che reclama prepotentemente di essere letto (…). È il libro di Armida, il libro che da della metamorfosi non già un principio morale ma un abisso di visioni e fantasie diaboliche.

Ce ne parla stupefatto il paladino Guglielmo (X 66), che affascinato dalla maga ha udito distintamente le parole di quelle pagine e che a quel suono ha visto disfarsi intorno a sé i contorni della realtà. È ritornato a un’essenza acquatica, primordiale:

Legge la maga, ed io pensiero e voglia sento mutare, mutar vita ed albergo.

169 (Strana virtù!) novo pensier m’invoglia:

salto ne l’acqua, e mi vi tuffo e immergo. Non so come ogni gamba entro s’accoglia, come l’un braccio a l’altro entri nel tergo m’accorcio e stringo, e su la pelle cresce

squamoso il cuoio; e d’uom sono fatto un pesce.

Anche all’interno di questo “libro magico” Ovidio è stato imitato e ben assimilato. Nel passo appena citato ad esempio viene ricalcata la metamorfosi inflitta da Dioniso ai marinai tirreni, trasformati in pesci per la loro empietà (Met. III 670-682). Oltretutto è narrata tramite una stupita prima persona come la trasformazione, essa pure ittica, di Glauco (Met. XIII 942-963) o quella in suino imposta dalla maga Circe al compagno di Ulisse Macareo (Met. XIV 276-284); ed è inoltre condotta con un indugio analitico e teatrale tipico di molte altre trasformazioni ovidiane (…). Ma probabilmente (…) non siamo al cospetto di una

alterazione oggettiva. La metamorfosi in pesce altro non è che “uno stolto / vano torbido sogno” avvolto dall’oblio (X 67 3-4). Non può dirsi reale (all’interno della realtà ficta, ovviamente) come quelle di Omero, Ovidio, Dante. Né esprime davvero significati morali (relativi alla degradazione

amorosa), se non superficialmente. Essa è allegorica sì, ma si una realtà visionaria, trasfigurata dalle immagini interiri, dal ricordo soggettivo dell’amante stregato dalla maga. (…) Le parole del “libro magico” iscritto nella Liberata sono dunque capaci di affondare il mondo e le sue apparenze nei fantasmi del ricordo. Il loro vero oggetto (e qui sarebbe forse opportuno affidarsi a Benjamin) è l’oblio. La loro forma è “il passato incompreso”, che si frantuma e si ricompone in corrispondenze fantastiche, che attraversano mondi irreali e suscitano orrore. In verità alcune di tali “corrispondenze” allegoriche sorgono anch’esse da spunti ovidiani ben riconoscibili, o quanto meno li aggregano a sé.