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VINCENZO VIVALDI, SULLE FONTI DELLA G L I VOLUME CATANZARO

Descrizione di Armida

Benchè però a me paia che il Tasso anche qui (nella descrizione di Armida) si sia ispirato nei poemi cavallereschi, non intendo di revocare in dubbio che qualche immagine e qualche pensiero abbia origine più remota, come hanno fatto osservare i critici fin qui. Il fondo della situazione per me il Tasso ricavò dai poemi cavallereschi: sempre che egli potette però rivestì quel fondo di colori, ricavati dalla tavolozza dei greci e dei latini e dei nostri poeti del 300. Come negare che qua e là la descrizione della bellezza di Armida non faccia andare col pensiero ad alcuni versi di Ovidio?

Armida come stella e Proserpina. Quando Armida giunge al campo cristiano, l’impressione che ne

sortisce è quella di una cometa e di una stella: cfr. IV 28 3-6: ‘A l’apparir de la beltà novella / nasce un bisbiglio e ’l guardo ognun v’intende / sì come là dove cometa o stella / non più vista di giorno, in ciel risplende’.

Inoltre, di Armida si dice ‘d’auro ha la chioma, ed or dal bianco velo / traluce involta, or discoperta appare. / Così, qualor si rasserena il cielo, / or da candida nube il sol traspare, / or da la nube uscendo i raggi intorno / più chiari spiega e ne raddoppia il giorno’ (IV 29 3-8). In altri termini, la chioma dorata ora è completamente scoperta ora è avvolta dal velo; la similitudine con la luce del sole, ora filtrata attraverso le nubi ora libera da impedimenti nel suo splendore, dice Tomasi (p. 250-251) è di ascendenza ovidiana: Met. V 570-571: vv. 564 sgg.: dopo la decisione di Giove di una vita tra terra e inferi di Proserpina: cfr vv. 568 sgg:

vestitura extemplo facies et mentis et oris;

nam, modo quae poterat Diti quoque maesta videri, laeta deae frons est, ut sol, qui tectus acquosis nubibus ante fuit, victis e nubibus exit.

Dopo questa decisione il suo umore e il suo aspetto sono cambiati. Quella fronte che prima poteva sembrare triste anche a Dite, è ridivenuta serena, come il sole che, dopo aver vinto le nubi gravide di pioggia che l’avevano oscurato, esce di nuovo trionfante.

La differenza rispetto al modello è che se in Ovidio i momenti presentati sono solo due: (1) pioggia e (2) sole che esce trionfante dalle nuvole, in Tasso i momenti sono tre, con due momenti che si alternano vicendevolmente e non si collocano sull’asse della linearità pura e semplice: (1) tempesta; (2) rasserenamento del cielo in cui il sole può o (2.1) soltanto trasparire dalle nubi o (2.2) uscire completamente dalle nuvole e raddoppiare la luminosità.

È molto interessante che la luminosità artefatta e maliziosa di Armida vada a recuperare tessere ovidiane di un episodio che apparentemente sembra essere molto distante da quello tassiano e che pure forse è ad esso legato dall’orizzonte degli Inferi che – non dimentichiamocelo – Proserpina è costretta a vivere per sei mesi all’anno (Armida è creatura infernale, degli inferi) .

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Armida-Narciso

Eustazio come farfalla: Armida come Narciso e come sole. Eustazio che si rivolge verso lo splendore

artefatto e nocivo di Armida è assimilato ad una farfalla che si avvicini alla luce tanto da trovare in essa la morte; la presenza della farfalla che si avvicina alla luce è una presenza di largo corso nella storia della tradizione letteraria italiana: si pensi a taluni componimenti di Girolamo Fontanella e di Antonio Basso; si pensi inoltre ad una delle bellissime poesie incipitarie delle Occasioni montaliane.

Mi sembra essere centrale, ma di una centralità segreta in cui sono confermati tratti che emergono in vari

loci del poema, l’ottava 34 del canto IV: ‘Come al lume farfalla, ei si rivolse / a lo splendor de la beltà divina, / e rimirar da presso i lumi volse / che dolcemente atto modesto inchina; / e ne trasse gran fiamma e la raccolse / come da fuoco suole esca vicina, / e disse verso lei, ch’audace e baldo / il fea de gli anni e de l’amore il caldo’.

Il riferimento ovidiano è Met. III 372-374: ‘quoque magis sequitur, flamma propiore calescit, / non aliter, quam cum summis circumlita taedis / admotas rapiunt vivacia sulphura flammas’: ‘Quanto più gli si avvicinava, tanto più si infiammava, proprio come lo zolfo vivo, spalmato sulla punta delle fiaccole, si incendia rapidamente se gli si accosta il fuoco’.

In Tasso si parla di Eustazio e di Armida, in Ovidio di Eco e Narciso: Eco è l’esca, lo zolfo vivo, Narciso è il fuoco; Eustazio è l’esca infiammabile, Armida è il fuoco. Come si vede, i ruoli di genere sono perfettamente rovesciati. È incredibile come anche per questa via si possa confermare la natura narcisistica di Armida: Armida, come Narciso, è il fuoco che fa infiammare l’amante-esca.

Anche per questa via si conferma l’archetipo-Narciso, la funzione-Narciso per Armida (Armida non può amare gli altri se non in senso narcisistico: ama gli altri come figura di sé)

Inoltre il fatto che Eustazio sia assimilato ad una farfalla che si avvicina alla luce (Armida come luce) conferma la natura solare (ma di un sole terribile si tratta, del sole ovidiano dei miti di Fetonte e di Icaro: un sole che uccide) di Armida, non a caso assimilabile anche a Circe che è ‘filia Solis’ (Eneide).

Conversione finale (Ecce ancilla domini…)

Dante Della Terza, Armida dalla Liberata alla Conquistata: genesi ed evoluzione del personaggio, in Torquato Tasso quattrocento anni dopo. Atti del Convegno di Rende (24/25 maggio 1996), a cura di Antonio Daniele e F. Walter Lupi, Rubbettino, … 1997

C’è un punto di grande importanza che riguarda nel poema la formale convergenza dei destini di Armida e Rinaldo. Rinaldo che raggiunge a conclusione del poema Armida disperata e propensa al suicidio, le rivolge parole accorate. Egli non le fa esplicite promesse: promette sì di rimetterla sul trono dei suoi avi a Damasco, ma, quanto all’ipotesi di un loro avvenire comune, egli si augura che un intervento celeste squarci il velo delle credenze pagane della donna e l’avvicini a lui nella fede. La risposta di Armida contiene un criptico responso da donna innamorata.

Ecco l’ancilla tua: d’essa a tuo senno dispon, gli disse, e le fia legge il cenno. (GL XX 137 7-8)

L’obbedienza ancillare, quasi dissacrante per quel tanto di mirabilmente cristiano reperibile nella dichiarazione “ecce ancilla tua” ispirata ad influsso mariologico, non serve a dissipare nell’amplesso di una ritrovata passione i dubbi testuali che ancora esistono a proposito di codesta riconquistata solidarietà tra Rinaldo ed Armida ai margini del poema. Uno studioso del testo della Liberata, Luigi Poma (…) ha provato (…) che l’episodio della riconciliazione dei due amanti, espunto dal Tasso, e giudicato dal Poma in se stesso bello, fu fornito in modo surrettizio da Diomede Borghesi all’amico Febo Bonnà che, ‘nulla interposita mora’, lo inserì di sua spontanea iniziativa nella sua edizione della Liberata stampata nel giugno del 1581 (…). ((In una lettera del 29 luglio del ’75 indirizzata a Scipione Gonzaga)) il Tasso si mostra timoroso che il contesto dell’episodio di Armida assuma uno spessore autonomo e persa la sua funzionalità ancillare in forza

162 della quale il compito protervo della donna rimane quello, prevalente, di distornare i Cristiani dall’impresa e imprigionare l’indispensabile Rinaldo. (…)

Armida-Madonna: Armida già in precedenza identificata come ‘vergine’

Armida come vergine. Nelle parole di Eustazio, Armida è presentata come ‘vergine’: cfr. IV 37 5:

‘Vergine bella…’. Si crea così un reticolato di corrispondenze per cui Armida è figura rovesciata di Sofronia non solo perché, come si è detto, entrambe fanno uso di menzogne (l’una benefica, l’altra malefica), ma perché entrambe sono identificate come ‘vergini’, sebbene Sofronia lo sia nei fatti, mentre Armida lo è solo nella fictio narrativa che lei stessa ha creato per ingannare i cristiani.

Se ci rammentiamo poi che Sofronia è vergine come vergine è la Madonna il cui simulacro è al centro della vicenda in cui è coinvolta Sofronia, ben possiamo intendere come Armida si ponga in effetti solo antifrasticamente come vergine, lei che è un’anti-Vergine, così come il suo giardino descritto nel canto XVI è un anti-Eden e il pellegrinaggio compiuto da Carlo e Ubaldo è un anti-pellegrinaggio (su quest’ultimo aspetto mi permetto di rimandare al mio Il moto e la stasi. Movimenti, viaggi, pellegrinaggi e anti- pellegrinaggi nel canto decimosesto della Liberata, in corso di stampa su ‘Studi Tassiani’).

(NOTA al falso racconto di Armida) Visione della madre di Armida. La prospettiva che si assume

nella presente dissertazione permette di considerare ogni tipo di ‘visione’ che travalichi le capacità di ‘vista’ usuale dell’uomo, come una metamorfosi, perché metamorfosi è cambiamento da una forma ad un’altra, e la visione non è se non il passaggio dal nulla di una percezione usuale al pieno di un’immagine che travalica l’immagine usualmente percepita dall’occhio e in generale dal senso umano.

Il falso racconto di Armida prevede al suo interno anche una visione: la visione della madre che le suggerisce di fuggire (IV 49): ‘Spesso l’ombra materna a me s’offria, / pallida imago e dolorosa in atto….’. Sogni e visioni sono usuali nelle Metamorfosi ovidiane.

(NOTA) Armida: la sortita notturna come Piramo e Tisbe: Sempre all’interno del falso racconto di

Armida, è nascosto un altro possibile riferimento ovidiano; Armida dice infatti di essere fuggita di notte dalla sua patria a causa delle macchinazioni di suo zio usurpatore del trono: cfr. IV 54: ‘Sorse la notte oltra l’usato oscura, / che sotto l’ombre amiche ne coperse, / onde con due donzelle uscii secura, / compagne elette a le fortune averse; / ma pure indietro a le mie patrie mura / le luci io rivolgea di pianto asperse, / né de la vista del natio terreno / potea, partendo, saziarle a pieno’. La situazione può ricordare quella di Tisbe che si allontana dalle mura della città per andare incontro al suo amore Piramo e invero tristemente alla propria morte.

ARMIDA

Armida-Circe: carro volante

Il viaggio ‘aereo’ di Armida sul carro (ottave 70-72). Armida dunque torna al palazzo: «torce il piè da la

deserta riva» (67, 5) e giunge «a gli alberghi suoi» (68, 1). Il palazzo scompare, ossia il luogo della Perdizione viene annullato da Armida stessa (Armida, com’è noto, fa sparire la dimora incantata, dissolve nel vento il palazzo magico), ma la maga si appresta a compiere il suo viaggio vendicativo: «Ella su ’l carro suo, che presto aveva, / s’assise, e come ha in uso al ciel si leva» (70, 7-8). Questo viaggio nel cielo sul carro ha una sua straordinaria potenza evocativo-descrittiva164: «Calca le nubi e tratta l’aure a volo, / cinta di nembi e turbini sonori, / passa i lidi soggetti a l’altro polo / e le terre d’ignoti abitatori; / passa d’Alcide i termini, né ’l suolo / appressa de gli Espèri o quel de’ Mori, / ma su i mari sospeso il corso tiene / insin che a i lidi di Soria perviene. // Quinci a Damasco non s’invia, ma schiva / il già sì caro de la patria aspetto, / e

164 Scrive Pool, op. cit., p. 132: «La fuga di Armida offesa e bramosa di vendetta attraverso i cieli, sopra “i lidi soggetti

a l’altro polo / e le terre d’ignoti abitatori”, chiude degnamente, con quelle ignote vastità di paesaggi visti di scorcio, il grande episodio di amore e di disperazione dell’Isola Fortunata».

163 drizza il carro a l’infeconda riva / ove è tra l’onde il suo castello eretto» (71 e 72, 1-4)165. Armida giunge dunque a seguito di questo straordinario viaggio aereo nel suo castello sul Mar Morto, dove replica la condizione del cerchio, questa volta solitaria, che aveva creato nel suo giardino: infatti «i servi e le donzelle priva / di sua presenza e sceglie ermo ricetto»166 (corsivo mio).

La metamorfosi originaria di Armida in donna vagante

Armida «donna vagante» definizione di se stessa, da parte di Armida, come «donna vagante»: «Non accusi

già me, biasmi se stesso / il mio custode e zio che così volse. / ei l’alma baldanzosa e ’l fragil sesso / a i non debiti uffici in prima volse; / esso mi fe’ donna vagante» (74). Armida si sta riferendo a Idraote suo zio e suo tutore: era stato Idraote re di Damasco – come si legge nel quarto canto – a spingere Armida a recarsi al cospetto di Goffredo e a implorare, fingendosi ingiustamente spodestata dallo zio e minacciata di morte, che le fosse concessa la scorta di dieci valorosi guerrieri perché la riaccompagnassero in patria e le restituissero il trono. Era stato insomma lo zio a introdurre, si direbbe, la legge del movimento, e di un movimento ingannatore e malefico, nella dimensione di Armida che forse originariamente è quella della stasi e dell’immobilità del cerchio magico. Per volontà non sua, dunque, Armida è divenuta «donna vagante», donna per definizione pellegrinante, in cammino.

Su Armida: cfr. cap. Armide ou le paysage au miroir, pp. 229-249, in La Jérusalem délivrée du Tasse. Poésie, peinture, musique, ballet, Klincksieck / Musée du Louvre, Paris 1999.

Per il topos delle donne abbandonate (cfr. Armida), cfr. Marzia Minutelli, Il lamento dell’eroina abbandonata nell’Orlando Furioso (X, XX-XXXIV), in Rivista di Letteratura Italiana, 1991, IX, 3.