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JO ANN CAVALLO, ARMIDA: LA FUNZIONE DELLA DONNA MAGA NELL’EPICA TASSIANA

Il primo ad offrire un ‘interpretazione di Armida è il Tasso stesso, che, nella sua Allegoria pubblicata insieme alla prima edizione ferrarese (1581), situa la maga in un contesto moralistico tradizionale. Secondo il senso letterale, sia Armida che Ismeno sono “ ministri del Diavolo che procurano di rimuovere i Christiani dal guerreggiare”: a livello allegorico sono “due diaboliche tentazioni” che insidiano a due potenze dell’anima nostra, dalle quali tutti i peccati procedono”. Armida è, più precisamente, “ la tentazione, che rende insidie alla potenza, che appetisce”. Ma ciò che il Tasso “non” dice è ancora più rivelatore. Il brano procede con una spiegazione dettagliata del significato allegorico della foresta di Ismeno, ma al punto in cui, per completare il discorso, il Tasso sarebbe dovuto ad Armids, egli lascia l’onere interpretativo al lettore:

Ma tanto basti haver detto de gli impedimenti, che trova l’huomo, così in se stesso, come fuori di se: peroche, se bene di alcune cose non si è espressa l’allegoria, con questi principii ciascun per se stesso potrà investigarla.

Seguendo tali indicazioni, il lettore della Gerusalemme Liberata si aspetta che la partenza di Rinaldo dal giardino di Armida nel canto XVI degnalerà una vittoria decisiva sia delle fede cristiana sulle forze del male sia della facoltà della ragione sulle tentazioni all’appetito.

Inoltre, i precedenti letterari portano il lettore a pensare che la storia d’amore fra Armida e Rinaldo finirà definitivamente con la partenza dell’eroe. Il prototipo viene riconosciuto nell’Odissea, in cui Ulisse lascia sia

176 Circe che Calipso per ritornare e riprendere il suo posto ad Itaca. Nella rielaborazione epica di Virgilio, che servirà poi come modello per il conflitto fra la passione privata e il dovere pubblico. Enea lascia Didone per fondare il futuro impero romano. E così via nelle molteplici versioni rinascimentali dell’episodio: Rinaldo lascia Carandina (Mambriano), Ruggiero lascia Alcina (Orlando Furioso), Corsamonte lascia Ligridonia (Italia liberata dai Goti), Alidoro lascia Lucilla (Amadigi), e Rinaldo lascia Floriana (Rinaldo).

Dato anche il clima moralistico della seconda metà del Cinquecento che si fa sentire nel genere del poema eroico, il lettore ha tutti i motivi per sperare in una rinuncia decisiva da parte dell’eroe Rinaldo ad una figura che rappresenta, secondo lo stesso autore, niente di meno che una tentazione del diavolo.

Il Tasso, però, capovolge in modo radicale le aspettative del lettore. Armida, forse la più apertamente diabolica delle seduttrici letterarie, è l’unica ad essere riunita all’eroe alla fine della storia. Tale conclusione, è così senza precedenti che alcuni critici non vi hanno neppure fatto caso, sostenendo che “l’odissea” di Rinaldo finisce quando egli ritorna sotto il comando di Goffredo. Altri, pur riconoscendo la riunione finale degli amanti, la trovano ambigua, confusa, non consistente, o non pertinente alla narrativa. I pochi che le hanno dedicato una considerazione più seria, l’hanno trattata da un singolo punto di vista. Fredi Chiappelli dimostra la persistenza di elementi sensuali ed erotici nella riunione finale di Rinaldo e Armida che richiamano il loro amore “illecito nel giardino delle Isole Fortunate, ma poi considera la scelta come “solo una storia d’amore” senza nessun legame con la narrativa principale. Walter Stephens, dall’altra parte, mostra come il Tasso segnali il futuro matrimonio della coppia, ma fa poco caso agli elementi sensuali, e sostiene, di contro, che la scena rivela “a nostalgic idealization of marriage and deep anxieties about the human body”. Si possono conciliare queste interpretazioni? Perché il Tasso rovescia la fine tradizionale delle versioni precedenti e smentisce la propria interpretazione allegorica? Che rapporto ha la riunione finale degli amanti con la struttura del poema? (…) nel canto XVI (…) Rinaldo fa la seguente promessa ad Armida:

Fra le care memorie ed onorate Mi sarai ne le gioie e ne gli affanni, Sarò tuo cavalier, quanto concede La guerra d’Asia e con l’onor la fede. (XVI, 54, vv. 5-8)

Nel momento stesso in cui parte dal giardino di Armida per ritornare alla guerra, Rinaldo riafferma i valori della cavalleria errante, facendo riferimento a se stesso addirittura come cavaliere d’Armida. Va notato che tutta la sua penitenza, sotto la tutela di Pietro l’Eremita, non interferirà con questa promessa. Quando la guerra d’Asia è finita, Tasso riunisce i giovani amanti, e l’altro impedimento (quello della fede diversa) viene risolto quando Armida acconsente a convertirsi alla fede cristiana.

I critici si sono soffermati a lungo sulla frase di Armida che segnala la sua accettazione della fede di Rinaldo (“Ecco l’ancilla tua”) perché richiamale parole di Maria all’Angelo Gabriele nel Vangelo di Luca (I,38). La connotazione cristiana viene chiaramente a proposito, dato che la domanda di matrimonio di Rinaldo dipende dalla conversione di Armida. Ma ella non diventa per questo, come hanno sostenuto alcuni, una improvvisa figura della Beata Vergine. Armids non si dichiara la serva di Dio ( la frasedi Maria era “ Ecce ancilla Domini”), ma dell’uomo che ama (“Ecco l’ancilla tua”). Inoltre questa stessa remissività l’abbiamo già vista prima, quando Armida si è dichiarata disposta a essere la “ sprezzata ancilla” (XVI, 48 e ripetuto nell’ottava 49) e lo “scudiero o scudo” (XVI, 50) di Rinaldo.

Il Tasso, d’altra parte, aveva già trovato questa frase nell’Italia liberata dai Goti, senza nessuna connotazione religiosa. Nel VI canto del poema di Trissino, appare “una bellissima donzella” che racconta come il Capitano dei Goti voleva costringerla a sposare suo figlio. Quando il padre di lei respinse la domanda di matrimonio, il Capitano lo uccise. La madre morì poco dopo di dolore, lasciando da sola la donzella, Elpidia, a cercare aiuto presso il Capitano degli Italiani. In cambio del suo aiuto, Elpidia si offre in matrimonio a qualunque cavaliere scegliesse per lei il Capitano:

177 E prenderò colui per mio consorte,

che mi sia dato da la vostra altezza

(p.58)

Si dichiara disposta ad accettare l’autorità del Capitano italiano con queste parole: Signor mio caro, ecco la vostra ancella,

parata a far di fe quel, ch’a voi piace (p.59)

Armida, come Elpidia, adopera la frase per sottomettersi a un’autorità e per offrire la sua persona in matrimonio. Nel caso di Armida, però, la sottomissione non è a chi dovrà sceglierle un marito, ma all’uomo che aveva scelto lei stessa. D’altra parte, richiamare l’attenzione esclusivamente sulla sottomissione di Armida rischia di far perdere di vista la perfetta simmetria dell’episodio in cui i due amanti si sottomettono l’uno all’altro. Rinaldo, pochi versi prima, si era dichiarato campione e servo di Armida:

non a gli scherni,al regno io ti riservo; nemico no, ma tuo campione e servo

(XX, 134;)

Nell’usare il termine “campione”, Rinaldo anche ribadisce e valorizza il soprannome datogli come insulto dal crociato Ubaldo nel canto XVI:

egregio campion d’una fanciulla

(XVI, 32)

Se per la donna le parole di sottomissione vengono dalla tradizione cristiana, per l’uomo derivano dal codice cortese-cavalleresco.

Per quanto riguarda la conversione di Armida, a mio avviso sarebbe sbagliato pretendere una trasformazione interiore secondo uno schema agostiniano. Quello di Armida è invece un cambiamento di fede motivato dall’amore, un modello di conversione che trovava ampi precedenti entro il genere cavalleresco. Nell’Aspramonte, per esempio, la saracena Galaciella diventa cristiana per amore di Rugiero II e lo sposa. Questo matrimonio assumerà un’importanza maggiore quando il Boiardo designerà Gala ciella e Rugiero II come i genitori del nuovo eroe Rugiero III, destinato capostipite della Casa d’Este.E la storia del loro amore è certamente evocata quando Boiardo annuncia che il saraceno Rugiero si convertirà al Cristianesimo per more di Bradamantw. Quando il poema fu interrotto, pochi canti dopo il primo incontro di di Rugiero e Bradamante, Niccolò degli Agostini si mise a raccontare i “destinati eventi”. Nel IV libro dell’Orlando Innamorato (1506), co i giovani amanti soli in mezzo alla foresta, il continuatore descrissela conversione e il battesimo di Rugiero per mano di Bradamante, prima di celebrare il matrimonio e la realizzazione del loro amore.

Tasso, sulle orme di Boiardo e di Agostini, riprende il modello cavalleresco della conversione per amore nella propria storia delle origini degli Estensi. In questo contesto, il tema centrale non è tamto la conversione in quanto tale, ma l’amore fra Armida e Rinaldo. Come ha notato Fredi Chiappelli, la scena finale degli amanti è ricca di allusioni ai brani più sensuali dai canti XIV e XVI. In più, essa costituisce il rovescio del loro primo incontro, neel quale Armida s’innamorò guardando il viso di Rinaldo addormentato: ora è Rinaldo che guarda con amore la figura di Armida, mentre ella giace priva di sensi.

178 Questa scena richiama anche per antitesi il momento della partenza di Rinaldo. Quando Armida svenne, nel canto XVI, Rinaldo la lasciò sulla spiaggia per tornare a Goffredo. Nel canto XX, al contrario, Rinaldo sostiene Armida nell’atto di svenire. Tasso accentua così la carica sensuale del momento:

Ella cadea, quasi fior mezzo inciso, piegando il lento collo; ei la sostenne, le fé d’un braccio al bel fianco colonna e’ ntanto al sen le rallentò la gonna, e ‘l bel volto e ‘l bel seno a la meschina bagnò d’alcuna lagrima pietosa.

(XX, 128-129)

Mentre nella scena precedente Armida non aveva visto piangere Rinaldo, qui sono precisamente le lacrime di Rinaldo sul “bel volto” e sul “bel seno” di Armida che la risveglieranno. E ora è il braccio di Rinaldo piuttosto che la propria cintura magica che circonda il corpo di Armida:

E con la mano languidetta il forte braccio, ch’era sostegno suo, schiva respinse; tentò più volte e non uscì d’impaccio, ché via più stretta ei rilegolla e cinse. Al fin raccolta entro quel caro laccio

(XX, 130)

Tasso fa riferimento al desiderio degli amanti anche in maniera più diretta, quando descrive la reazione di Armida:

Così l’ira che ‘n lei parea sì salda, solvesi, e restan sol gli altri desiri

(XX, 136)

Alla fine, la donna perde i suoi connotati diabolici (come ministro del diavolo e come tentazione alla facoltà appetitiva), ma conserva in modo inequivoco la propria sensualità.

La foresta dove si trovano gli amanti viene chiamata “chiusa opaca chiostra” (XX, 122), definizione che, come nota Chiappelli, contiene l’immagine del giardino. Se prima il giardino di Armida e la foresta di Ismeno segnalavano valori negativi, contrari a quelli della città di Gerusalemme, questo nuovo spazio naturale è più vicino all’ambiente in cui, nel Rinaldo, Floriana e Rinaldo consumarono il loro amore. E in modo anche più esplicito di quella scena precedente (che era solo una breve parentesi per l’eroe), questa nuova Arcadia richiama l’età dell’oro descritta nell’Aminta, in cui la passione umana aveva un valore positivo di per sé.

La valorizzazione della sensualità in questa scena finale, va contro la tendenza dei poeti epici a identificare il sensuale con l’illecito. Infatti, il Tasso, nella sua Apologia, censura Ariosto per aver aderito a questa tendenza nella storia di Ruggiero. Egli obietta che Ruggiero non sembra amare la futura moglie Bradamante, “ma quasi pare che la disprezzi e ne faccia poca stima: il che non sarebbe peraventura tanto sconvenevole, se il poeta non fingesse che da questo amore e da questo matrimonio dovessero derivare i principi d’Este”.Il desiderio sessuale è presente, invece, a suo dire, nei suoi incontri illeciti con Alcina e Angelica:

179 solfo; nella qual cosa poteva forse aver parte l’incanto, benché egli nol dica espressamente; ma delibera di godersi l’Angelica ignuda.

Il Tasso non solo valorizza la sensualità entro il contesto epico-dinastico, ma, nel fare di Armida una figura che è sì di seduttrice, ma al tempo stesso anche dinastica, va contro la concezione polarizzata della donna, vista come o incantatrice si tratta più di scoprire che, sotto l’apparenza della bella donna, sta nascosta la figura della maga (come nei casi Angelica e Alcina), ma al contrario di capire che la tanto temuta maga non è altro che una semplice donna.

Riferendosi al ruolo della donna nella poesia epica, Bartlett Giamatti scrisse:

The epic is often concerned with exile and the way back, and woman is always at the center. She is often both the goal and the obstacle. She is the Penelope who waits and the Circe who delays. Sometimes she is both the reason we wander and the object we seek, because only where she is are we at home.

Il Tasso è l’unico poeta epico per cui la donna-ostacolo e la donna- mèta vengono fuse nella stessa persona. Armida non è solo Angelica, Dragontina ed Alcina, ma è allo stesso tempo anche Bradamante.

Piuttosto che offrire una gerarchia morale fra l’amore e il dovere, il Tasso ritorna all’idea, per questi due principi, della successione di tempi che aveva presentato per primo nel Rinaldo. Finché la liberazione di Gerusalemme, Armida può diventare lei stessa la nuova mèta per il singolo cavaliere Rinaldo. In questo modo, l’episodio che per i poeti precedenti segnava un intervallo nel percorso dell’eroe, viene trasformato da Tasso nella base per un racconto dinastico.

Armida come Medea. Circe è assimilabile a Medea (e Medea è uno dei personaggi delle Metamorfosi

ovidiane), ad esempio nel tratto della vendetta nei confronti di Rinaldo, nell’uso delle erbe magiche, etc.

A proposito di Armida, si registrano sia metamorfosi che conversioni (es. l’ultima definitiva vera,

anche se dubbia, conversione di Armida).

MENZOGNA (Armida) Monica Bisi

Cap. II, par. II: Circolarità del mondo magico nella Gerusalemme Liberata

Il testo ci offre elementi decisivi per inquadrare il personaggio di Armida sotto la rubrica della sterilità, della ripetizione e della metamorfosi. Fin dalla sua entrata in scena, infatti, essa viene presentata non tanto come malvagia, quanto come il rovescio della donna virtuosa ((il personaggio è costruito come una Sofronia al contrario, come appare dalle spie lessicali che rimandano da IV 27-33 a II 18-20; per un dettagliato confronto si veda G. Giampieri, Il battesimo di Clorinda. Eros e religiosità nel Tasso, Edizioni dell’Erba, Firenze 1995, pp. 62-68)) e, analogamente, le parole che ella rivolge a Goffredo non comunicano direttamente la verità, ma sono il travestimento ‘virtuoso’ di un progetto malvagio che la maga vuole nascondere. Nella sua circolarità, l’orazione si rivela inefficace al fine immediato che la donna si era prefissata, benché ottenga una temporanea vittoria sulla via dell’inganno, dell’incanto e della dissimulazione. Armida esordisce con una lode di Goffredo, i cui famosi meriti torneranno ad essere menzionati anche in chiusura della prima parte del discorso (…) (GL IV 39). Attraverso la magia delle proprie parole Armida trasforma poi la fede cristiana nella fiducia tutta umana che dice di riporre nella pietà di Goffredo, e, parallelamente, trasforma il nome del Dio cristiano in quello del Giove pagano, in una estrema relativizzazione della fede dei crociati come di quella dei loro nemici ((fede > fiducia; Dio > Giove)): Ma se la nostra fé varia ti move

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la fé, c’ho certa in tua pietà, mi giove,

né dritto par ch’ella delusa resti. Testimone è quel Dio ch’a tutti è Giove

ch’altrui più giusta aita unqua non désti. (IV, 42)

Il ‘travaso’, per così dire, dal vero alla menzogna, continua come in un incantesimo per tutto il tempo in cui la maga parla, finché chiude il cerchio dell’orazione nel modo in cui l’aveva iniziata, ripetendo la lode di Goffredo e insistendo (…) sulla pietà del capitano e sul giovamento che lei ne tratterebbe (…) (IV 61-62) Con tutti i suoi travestimenti del vero, il parlare di Armida non persuade Goffredo, come se l’autore volesse sancire l’impossibilità di ingannare un cuore la cui volontà si identifica con quella di Dio, ma che è ben consapevole di non essere lui stesso Dio. A sottolineare la posizione antitetica del Buglione rispetto ad Armida ritroviamo, nei pensieri del capitano, nuovamente sovrapposte fiducia e fede, ma in modo tale da negare il senso della sovrapposizione operata dalla maga (“Teme i barbari inganni, e ben comprende che non è fede in uom ch’a Dio la neghi” IV 65).

È come se il filo di Armida si fosse riavvolto su sé stesso (…) e la donna si trovasse a dover ricominciare da capo. E se tutti i cavalieri fossero come il Buglione, probabilmente il discorso potrebbe ricominciare all’infinito senza mai ottenere nulla, ma sappiamo che Goffredo è unico ed è proprio per le sue particolari caratteristiche che è stato scelto dal Cielo come duce dei crociati. Molti fra i suoi cavalieri, invece, si lasciano affascinare dalle parole e dai gesti della maga, tanto che fuggiranno di notte dall’accampamento per seguirla e combattere per lei.

Il discorso di Armida, che, al contrario di Goffredo, ha identificato la propria volontà col volere caotico di Plutone, nasce dalla dispersione e produce disordine, non senza essere tornato più volte su sé stesso nel tentativo di travestire la menzogna con il velo del vero. Armida è dunque ascritta contemporaneamente sotto la rubrica della circolarità e della ripetizione del discorso e sotto quella del disordine, del multiforme e del travestimento.

Armida-Circe trasforma in pesci

Monica Bisi, Cap. II, par. II: Circolarità del mondo magico nella Gerusalemme Liberata

La mossa successiva al travestimento ((in riferimento al racconto menzognero di Armida a Goffredo e ai crociati)) – in un crescendo ontologico nell’ordine del mutare – è la METAMORFOSI: come è

possibile travestire il falso da vero e trasformare i propri vizi in virtù, così per la maga è facile anche trasformare gli uomini in animali secondo lo schema classico della metamorfosi ((vizi > virtù; uomini > animali)): alterazione degli aspetti esteriori, del trasformato e mantenimento dell’intelligenza, aspetto essenziale, come accade nell’episodio della Circe omerica. Il lettore viene a conoscenza dell’avvenimento solo al canto X 65-67, attraverso il racconto dei cavalieri di Armida liberati dal suo incantesimo: la maga trasforma gli uomini in pesci per dimostrare quale e quanto grande sia il suo potere su di loro, tanto che, quando le piace, li restituisce alla forma originaria. La descrizione tassiana della metamorfosi è una sorta di sintesi fra i modelli omerico e ovidiano (passando attraverso l’Alcina di Ariosto) ((Omero + Ovidio + Ariosto)): il contesto rilegge quello del X libro dell’Odissea (un gruppo di compagni, la bevanda, la verga) mentre i particolati ricalcano le trasformazioni narrate nelle Metamorfosi (rimpicciolirsi del corpo, arti che rientrano nel tronco, crescere di squame sopra la pelle). ((Evidente anche il rimando al Dante delle trasformazioni dei ladri di Malebolge: Tasso così postilla, infatti, Inf. XXV 112-138: “mirabile nelle trasmutazioni sovra ogni poeta”. La riflessione sul ‘meraviglioso’ nell’epica porterà Tasso ad espungere l’episodio dalla Conquistata (M. T. Girardi, Tasso e la nuova “Gerusalemme”. Studio sulla “Conquistata” e sul “Giudicio”, ESI, Napoli 2002, p. 105)). A differenza di quelle ovidiane, però, la metamorfosi dei crociati – come quella dei compagni di Ulisse – è reversibile. Anzi, dalla facilità con cui Armida restituisce ai cavalieri l’aspetto umano e da quanto essa afferma poco dopo, è lecito pensare che la metamorfosi si possa perpetuare all’infinito, variando la forma esteriore per poi farla ritornare quella di partenza (…) (X 68). Nel

181 potere della maga, che crea disordine fra apparenza ed essere mutando le forme esteriori, ma non la forma vera e propria, sostanza aristotelica soggetto di tutti i possibili predicati, si ritrova la medesima logica che regge le Metamorfosi di Ovidio: quando pensiamo alle trasformazioni di Giove, ad esempio, diciamo che Giove si è fatto oro, pioggia, cigno e (…) di Giove predichiamo di volta in volta la ‘cignità’ o la ‘piovosità’, non il contrario. La stessa cosa vale anche per molte trasformazioni ovidiane: sotto la scorza dell’ente in cui un personaggio è stato trasformato c’è sempre la sub-stantia del personaggio, quell’aspetto particolare del suo agire o quel vizio per cui è stato punito. Quoad se è questo mantenersi del sostrato che rende possibile la reversibilità della metamorfosi, quoad nos è il ritorno alla forma originaria, quando avviene, che ci attesta una permanenza sostanziale nel mutare del fenomeno. In Tasso questo è ancora più evidente che in Ovidio