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II. Metamorfosi e memorie ovidiane nella Gerusalemme Liberata: caratteri generali 1 Questioni di intertestualità: l’intertestualità ovidiana, l’intertestualità tassiana

II.2. La metamorfosi, le metamorfosi nella Liberata 1 Metamorfosi e conversione nella Liberata

II.2.4. Metamorfosi e metafora nella Liberata

Analizzato il tema della connessione tra metamorfosi e ‘meravigioso’, tra metamorfosi e ‘meraviglia’,

possiamo ora indagare un altro carattere generale relativo alle fenomenologie della metamorfosi nella Liberata, e cioè la connessione tra metamorfosi e metafora.

In generale, il tema (antropologico e letterario) della metamorfosi si lega strettamente e intimimante, alla metafora. Da un punto di vista di ‘storia della cultura’ molti studiosi sostengono, come si accennava nell’Introduzione, che la metamorfosi abbia origine dalla metafora (ad esempio, semplificando, a partire da una struttura assimilativo-metaforica del tipo ‘gli alberi sono come uomini’ si è giunti alla fantasia metamorfica di alberi che si trasformano in uomini o viceversa); ma non va sottovalutata, mi sembra, anche la probabilità della situazione opposta, e cioè del fatto che racconti – consolidati nella tradizione – di metamorfosi si siano per così dire ‘cristallizzati’ in metafore che hanno compendiato i racconti stessi (ma si tratta di radici storico-antropologiche che dovrebbero essere indagate ulteriormente nelle sedi opportune). Uno studioso che si è interessato specificamente del rapporto tra metamorfosi e metafora nell’ambito ovidiano è Emilio Pianezzola, cui si deve un saggio molto importante dal significativo titolo La metamorfosi

ovidiana come metafora narrativa, ora leggibile in Ovidio. Modelli retorici e forma narrativa, Pàtron,

Bologna 1999102; Pianezzola scrive (e vale la pena riportarne alcune importanti pagine):

«nella poesia di Ovidio si possono individuare (…) certi elementi retorici che permettono un’analisi (…) specificamente formale: prendiamo, ad esempio, il più sensibile dei tropi, il più qualificante della poesia, la metafora, e facciamola reagire con il tratto più originale e più peculiare della poesia ovidiana, la metamorfosi. Un confronto tra la metafora, che rientra nelle classificazioni della retorica, e la metamorfosi, avvenimento che si risolve sul piano descrittivo e narrativo, può sembrare poco congruente e poco concludente. Ma abbiamo un esempio dei felici risultati a cui può portare un’operazione (…) analoga nel saggio di Gian Biagio Conte Memoria dei poeti e sistema letterario (1974), dove l’arte allusiva riceve nuova luce proprio dal parallelo con le figure della retorica, in particolare con la metafora (…). Quanto al possibile rapporto tra metamorfosi e metafora, già il latinista francese Henry Bardon (1964), parlando delle metafore nelle Metamorfosi di Ovidio, disse che la metamorfosi è nell’ordine del racconto quello che la metafora è nell’ordine della creazione stilistica (…) La metamorfosi, come la metafora, arriva a identificare i due termini in virtù della tensione tra i poli dell’analogia e dell’opposizione. Ora, nell’impostare una metamorfosi Ovidio individua anzitutto il diverso, gli elementi di opposizione tra l’oggetto A e l’oggetto B; quindi cerca gli elementi di analogia su cui operare i passaggi metamorfici capaci di annullare la diversità. Questa dialettica dell’alius et idem, questo gioco di identità e di differenza che agisce nella metamorfisi richiama in maniera (…) pertinente un’osservazione di Gérard Genette sulla metafora: “…in ogni metafora agisce contemporaneamente una rassomiglianza e una differenza, un tentativo di ‘identificazione’ e una resistenza a questa identificazione, in mancanza di che non si avrebbe che una sterile tautologia” (Genette 1969, p. 42). Ma il parallelo tra metafora e metamorfosi regge anche alla prova di una più rigorosa definizione di metafora. Riporto quella proposta da Pasini 1972, p. 454: “La metafora parte dalla osservazione di un tratto comune a due aree semantiche, e mediante la generalizzazione di questo, facendo astrazione dalla parte non comune, approda alla loro identificazione”. La definizione si adatta assai bene alla metamorfosi; basterà aggiungere: “di un tratto o più tratti comuni”, perché la metamorfosi, per il suo sviluppo narrativo, si articola spesso in forme più complesse. È tempo ora di analizzare qualche (…)

esempio di metamorfosi (…) nella prospettiva (…) della sua natura metaforica. Metamorfosi di Lycàone, il re di Arcadia uccisore degli ospiti, presentato subuto da Ovidio (1, 198) come “notus feritate Lycaon”. Già

102 La metamorfosi ovidiana come metafora narrativa, in AA. VV., Retorica e poetica, in “Quaderni del Circolo Filologico-Linguistico Padovano”, 10, Padova, Liviana, 1979, Atti del III Convegno italo-tedesco (Bressanone 1975), pp. 77-91, ripreso in Il mito e le sue forme: l’eredità delle “Metamorfosi” nella cultura occidentale, saggio introduttivo a Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di M. Ramous, Garzanti, Milano 1992, pp. XLIII-LXXXIII.

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il suo nome evoca l’idea di ferocia: Lycàone è il simbolo stesso della ferocia (“feritatis imago est”, v. 239), è l’uomo feroce come un lupo, l’uomo-lupo: “lupus est homo homini” (…), questa metafora antica e dalla lunga storia, è il sottinteso punto di partenza della metamorfosi. Ad “est”, l’“est d’équivalence” degli autori della Rhétorique générale (Groupe µ 1970, p. 115) si sotituisce ‘fit’, si ha cioè un processo, un processo metamorfico appunto (‘Fit lupus’, in posizione di rilievo, all’inizio del v. 237). La metafora tradizionale è illustrata dunque da Ovidio mediante il procedimento narrativo della metamorfosi: la feritas è il Ground, il tratto comune che permette sia la metafora che la metamorfosi. Nella metamorfosi il carattere della ferocia costituisce il ponte fra l’uomo Lycàone e il lupo: l’identificazione finale avviene attraverso il mutamento di alcuni particolari fisici, ma con la persistenza, nel nuovo essere, dei tratti che caratterizzavano la ferocia dell’uomo. (…) Ricondurre la metamorfosi nell’ambito della metafora significa applicare alla metamorfosi i

noti effetti dello “straniamento”, della “deformazione” che “ridà acutezza alla nostra percezione e densità al mondo che ci circonda” ((Queste espressioni, che illustrano le note prospettive del formalismo russo e in particolare di Viktor Šklovskij, sono tratte da Erlich 1966, p. 191)). Ed effettivamente assistere alla trasformazione, per esempio, di Dafne in albero obbliga a vedere in modo inusitato la struttura sia del corpo umano sia dell’albero. E allora: il fascino che il poema delle Metamorfosi ha sempre esercitato su tutti i lettori (…) potrebbe derivare proprio (…) dal carattere metaforico della metamorfosi, momento culminante di ogni episodio, potrebbe derivare dalla capacità della metamorfosi ovidiana di suggerire, con la metafora, una visione rinnovata della realtà, quasi un processo di ri-vreazione della realtà- la metamorfosi potrebbe essere dunque non solo un piacevole e brillante procedimento narrativo ma anche “un modo di conoscere il mondo alternativo alla conoscenza di tipo logico” (Fonzi-Negro Sancipriano 1975, p. VIII). Connesso con la funzione della metamorfosi sarebbe il discorso sulla struttura della metamorfosi ovidiana, il che potrebbe avere qualche riflesso anche sulla valutazione dell’intera struttura dell’opera, e quindi della sua funzione e della sua impostazione, anche ideologica, se è vero quanto afferma Jurij Lotman, che cioè: “il contenuto ideologico dell’opera d’arte è la sua struttura” (Lotman 1972, p. 18)» (corsivo mio)103.

103 Anche sulla base delle riflessioni di Pianezzola, Giancarlo Mazzoli costruisce la sua significativa parte introduttiva

del saggio Apuleio: metamorfosi, conversione e loro logiche, in Storia letteratura e arte a Roma (che può valere anche come commento delle teorizzazioni del Pianezzola): «Nel suo noto saggio sulla letteratura fantastica ((La letteratura fantastica, trad. it., Garzanti, Milano 1977 (Paris 1970))), Tzvetan Todorov annovera e valuta assieme, tra i principali ingredienti di cui quella letteratura si avvale, il pandeterminismo (che consiste nel dare a tutti gli eventi una causa, foss’anche da ritrovare nell’ordine del soprannaturale) e la metamorfosi. E così si esprime: “al livello più astratto, il pandeterminismo significa che il confine tra fisico e mentale, tra materia e spirito, tra cosa e parola, cessa di essere ermetico. Torniamo adesso, con questa conclusione ben presente alla mente, verso le metamorfosi (…). Sul piano di generalità in cui ci troviamo, esse rientrano nell’ambito della stessa legge di cui formano un caso particolare. Noi diciamo facilmente che un uomo fa la scimmia, o che si batte come un leone, come un’aquila ecc.; il soprannaturale comincia a partire dal momento in cui si scivola d a l l e p a r o l e a l l e c o s e ((lo spaziato è di Mazzoli)) che si suppone siano designate da quelle parole. Le metamorfosi costituiscono quindi a loro volta una trasgressione della separazione tra materia e spirito nel modo in cui viene generalmente concepita” (ibid., p. 116). (…) Emilio Pianezzola ((le citazioni si riferiscono al saggio del 1979)) (…) pur senza richiamarsi alla riflessione prima citata di Todorov, procede acutamente sulla stessa linea (possiamo dire, pensando anche a Foucalt, “dalle parole alle cose”) ((M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966). Ciò che rende inconfondibile il racconto ovidiano della metamorfosi, rispetto ad altri antichi e moderni (si pensi, per esempio, ad Aen. 9, 117-122, le navi troiane mutate in ninfe, o alla vicenda del Gregor Samsa kafkiano, ove si registra meramente il risultato dell’evento) è la straordinaria TECNICA DI “RIPRESA” con cui la fenomenologia trasformazionale viene scomposta, “zummata” (se mi si passa la parola) e percorsa dallo sguardo analitico (Italo Calvino ((Gli indistinti confini, saggio introduttivo a Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino 1979, pp. VII-XVI: XIV)) ha chiamato in causa il cinema di Robbe-Grillet). Orbene, Pianezzola ((art. cit., in particolare pp. 84-87)) ha individuato il nucleo generativo di questo processo descrittivo in un fattore di spiccata valenza retorica (dunque ben congruo rispetto alla formazione del poeta), la METAFORA: figura che, assunto un tratto comune a due aree semantiche, lo generalizza, astraendo dalla parte non comune, fino ad approdare all’identificazione due aree. La metamorfosi ovidiana, nella sua prima – e decisiva – fase, funziona allo stesso modo, pur con qualche maggiore complessità narrativa. Pianezzola ((art.

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Il rapporto tra metafora e metamorfosi è dunque centrale negli ovidiani Metamorphoseon libri, ed è forse

stato uno dei motivi centrali della grande fortuna delle trasformazioni cantate dal poeta di Sulmona nel corso dei secoli, come mette bene in evidenza Gian Mario Anselmi nell’Introduzione a Le Metamorfosi di Ovidio nel Medioevo e nel Rinascimento104; ed è centrale parimenti nella Liberata tassiana, e questo per due ordini

cit., pp. 86-88)) prende a esempio il primissimo saggio di racconto metamorfico presente nel poema ovidiano, quello relativo all’arcade Licaone, “notus feritate” (1, 198). Tradizionale – nella cultura latina almeno da Plauto, Asin. 495 – è la METAFORA secondo cui “lupus est homo homini”. Questa metafora – osserva Pianezzola – “è il sottinteso punto di partenza della metamorfosi. Ad “est”, l’“est d’équivalence” degli autori della Rhétorique générale (…) si sostituisce « fit », si ha cioè un processo metamorfico appunto (« Fit lupus », in posizione di rilievo, all’inizio del v. 237)”. (…) “la metafora tradizionale è illustrata dunque da Ovidio mediante il procedimento narrativo della metamorfosi: la ‘feritas’ è il Ground, il tratto comune che permette sia la metafora che la metamorfosi. Nella metamorfosi il carattere della ferocia costituisce il ponte fra l’uomo Lycaone e il lupo: l’identificazione finale avviene attraverso il mutamento di alcuni particolari fisici, ma con la persistenza, nel nuovo essere, dei tratti che caratterizzavano la ferocia dell’uomo” ((ibid., p. 87)). Secondo Pianezzola, dunque, la tipologia strutturale più ricorrente nella metamorfosi ovidiana contempla tre fasi ((ibid., pp. 83 sgg.)): un primo momento di “preparazione” o di “ambiguità”, tutto giocato sull’innesco metaforico; un secondo tempo, che è propriamente quello in cui si perpetra il processo metamorfico; e finalmente un terzo momento, a metamorfosi ormai consumata, in cui si registra la “persistenza” “di un carattere precedente alla trasformazione” o “resistenza” “al totale annullamento dell’essere originario”. Lo studioso valorizza in queste riflessioni gli apporti più originali di un fruttuoso saggio di Juri Ščeglov ((Alcuni lineamenti di struttura nelle Metamorfosi di Ovidio, trad. it., in Lingua e stile, IV, 1969, pp. 53-68)) che assume il mondo delle “cose” narrato nel poema ovidiano come un insieme sistematico, ove il principio dell’“isomorfismo”, dell’analogia tra gli esseri, funge da catalizzatore delle metamorfosi. E l’influenza dello strutturalista russo si avverte ancora alla base di queste conclusioni del Pianezzola (…): “ogni episodio del poema si conclude e culmina con la trasformazione: in virtù di singoli mutamenti fondati su sottili rapporto di omologia e di analogia Ovidio vede e fa vedere in modo nuovo gli esseri e gli oggetti implicati nella trasformazione: soprattutto l’essere umano che, al centro della realtà, è legato da infiniti fili al resto del mondo (…). Ricondurre la metamorfosi nell’ambito della metafora significa applicare alla metamorfosi i noti effetti dello “straniamento”, della “deformazione” che “ridà acutezza alla nostra percezione e densità al mondo che ci circonda” ((citazione da V. Erlich, Il formalismo russo, trad. it., Bompiani, Milano 1966, p. 191)). Ed effettivamente assistere alla trasformazione, per esempio, di Dafne in albero obbliga a vedere in modo inusitato la struttura sia del corpo umano sia dell’albero. E allora: il fascino che il poema delle Metamorfosi ha sempre esercitato su tutti i lettori, anche contro le loro stesse valutazioni critiche tendenti a sminuire l’opera ovidiana con le accuse di verbosità, esteriorità, superficialità potrebbe derivare proprio, almeno parzialmente, dal carattere metaforico della metamorfosi, momento culminante di ogni episodio, potrebbe derivare dalla capacità della metamorfosi ovidiana di suggerire, come la metafora, una visione rinnovata della realtà, quasi un processo di ri-creazione della realtà. La metamorfosi potrebbe essere dunque non solo un piacevole e brillante procedimento narrativo ma anche “un modo di conoscere il mondo alternativo alla conoscenza di tipo logico” ((citazione da A. Fonzi – E. Negro Sancipriano, La magia delle parole: alla riscoperta della metafora, Einaudi, Torino 1975, p. VIII))” ((art. cit., pp. 90 sgg.))».

104 Scrive Anselmi (molto interessanti le riflessioni sull’universo metamorfico ovidiano inteso come ‘universo parallelo’): «Canetti felicemente affermava che lo scrittore è custode delle metamorfosi e dei miti, delle grandi immagini mitiche. Il testo di Ovidio percorre l’intera storia della tradizione occidentale, dalla tarda antichità al Medioevo, dal Rianscimento al barocco fino forse alla moderna avanguardia. Come comprendere Ariosto, Tasso, Marino senza Ovidio? E Ovidio si accampa nel cuore del Canzoniere petrarchesco, dove alcune grandi canzoni sono appunto canzoni di metamorfosi. E già in Dante del resto Ovidio è auctor fondamentale e si può dire con peso crescente fin nel Paradiso (il “transumanar”, cristiana metamorfosi del Dante viator ultraterreno): l’intreccio metamorfosi, metafora, allegoria è in Dante esemplare. Ma la stessa riflessione novecentesca – lo osservavamo – torna sul tema del nesso col passato in chiave ovidiana: se per Canetti e Borges si può conservare solo quel che si trasforma e soltanto ciò che si trasforma è vera esperienza ben si comprende la borghesiana dichiarazione che forse la storia dell’umanità è la storia di alcune metafore. Laddove metafora indica qualcosa che continuamente si trasforma. La metafora è una trasformazione, noi stessi siamo la trasformazione di qualcosa che c’era un tempo. È evidente perciò che tra metafora e metamorfosi c’è un rapporto molto stretto, basato sul principio di trasformazione (Proteo, la figura cara agli umanisti). Del resto anche il genere letterario moderno per eccellenza, il romanzo – ce lo ha insegnato Bachtin – è predestinato alla

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‘metamorfosi’, al mutamento, assume leggi per trasformarle continuamente, è modello di se stesso, in un continuo divenire. Metamorfosi, metafora indicano l’universale trasformarsi che è alla base di tutto (il senso dell’ultima parte del poema ovidiano): nella struttura profonda dell’uomo certe metafore non hanno più un mero valore letterario ma rappresentano il modo stesso di rapportarsi alle cose, di essere uomini che non subiscono passivamente spazio e tempo ma continuamente li reinventano, li rimodellano. Tali radici profonde sono il nucleo essenziale della pratica di alcuni grandi autori: da Dante a Tasso e oltre (l’età della ‘saggezza’ della letteratura, appunto) la metafora organizza, anche mentre emerge, i nuclei segreti di tutta la poesia, in una sorta di osmosi col procedimento metamorfico ovidiano. E così le metafore divengono anche ‘maschere’ (tema caro al dibattito cinquecentesco ma anche, in altra veste, postmoderno), immagini teatrali, o nuclei di soluzioni visive in stretta correlazione tra scrittura e figura (le imprese, l’emblematica fino alla moderna pubblicità). Ma qui allora siamo giunti a uno snodo decisivo per rapportarci a temi cruciali del dibattito critico: se è vero che nella stessa grande tradizione otto-novecentesca, come magistralmente ci ha insegnato Claudio Magris, la materia va definendosi come una sorta di dominio di Proteo, molteplice e inafferrabile, ovvero dominio della metamorfosi. Se è vero che proprio questa consapevolezza, la consapevolezza del mutamento perenne, del frazionamento dell’Io stesso, della molteplicità rifratta mette in crisi il grande stile classico aprendosi alla dissoluzione della totalità che è poi la cifra dell’epoca nostra. Se tutto ciò è fondato, allora la linea ovidiana della tradizione occidentale assume un valore eccezionale e a partire da essa occorrerebbe forse riscrivere la stessa storia del classicismo ulteriormente risillabando le ben note suggestioni care alla filosofia nicciana: l’intreccio tra metamorfosi e metafora infatti non inerisce solo a una questione di poetica o di fare letterario. Indica un abito che ha attraversato la cultura occidentale, ponendola sempre al crinale della destabilizzazione dell’ordine classico. Eugenio Garin e con lui altri studiosi del resto avevano da tempo avvertito della contraddittoria complessità di Umanesimo e Rinascimento, per nulla riconducibili a vetusti modelli di irenico equilibrio e di armonia delle parti: Proteo convive accanto a Platone, il ‘razionale’ L. B. Alberti inscena le maschere irridenti del Momus e delle Intercoenales, il sapere mitografico e mitopoietico vive accanto al ramismo, Adone accanto a Galilei e Vico, in piena stagione illuministica, fa i conti con miti, metafore, saperi poetici e retorici (Apollo e Dioniso…?). Ovidio allora ha da sempre attivato un’altra storia, è stato mallevadore di un universo parallelo che ha coabitato con le misure classiche, le filosofie razionalistiche, il grande stile, ha determinato la complessità irriducibile dei maggiori classici. Dalla inesausta e funambolica massa della sua “narrazione infinita” (per riprendere non a caso una terminologia legata a Wagner, il mitografo per eccellenza, con Nietzsche, della modernità) emerge il controcanto necessario per leggere davvero l’armonica disarmonia di Boiardo o Ariosto, la potenza inventiva di Dante, le maschere di Machiavelli, del grande teatro secentesco europeo e la stessa cifra genetica del romanzo moderno. Verrebbe da dire: chi ne ha la forza riprenda a fondo le Metamorfosi e riscriva la storia della nostra tradizione in parallelo a ciò che a suo tempo ci suggeriva già I. Berlin. Non escluderei che la crisi del “grande stile” così chiaramente affrontata da Magris, ovvero la dissoluzione della totalità, finirebbe con l’apparire come l’emersione e la legittimazione piena di un paradigma, collocato tra metamorfosi, metafora e trasformazione, ovidiano per eccellenza, allogato, almeno dal Trecento in poi, nel cuore parallelo (decisiva ‘antimateria’ coessenziale alla ‘materia’ classica, per continuare sulla linea delle metafore proprie della fisica) della cruciale tradizione occidentale. Bella questione che ci imporrebbe davvero e definitivamente nuove cronologie di lunga durata, rivisitazioni riguardo le gerarchie disciplinari consolidate (il primato della letteratura di umanistica memoria assumerebbe uno spessore epistemologico decisivo), attenta esplorazione dei nessi profondi del linguaggio poetico. Il gemmare della metafora come metamorfosi sembra costituirsi infatti nel nucleo del linguaggio poetico tra Medioevo e modernità ovvero del linguaggio come tale, origine (…) di quella riflessione che, da parallela e coesistente con il classicismo, si farà mallevadrice della modernità, della crisi finale di una ‘coabitazione’ ormai impossibile, messa in campo di una proteica, inafferrabile molteplicità, di una ovidiana ‘leggerezza’ (il tema non caro solo ai ‘filosofi della crisi’ ma è stato genialmente risillabato – com’è noto – da Italo Calvino), che ha frantumato ogni pretesa egemonica dei saperi totalizzanti. (…) Ma è bene tornare ad Ovidio, alla genesi di tutto quello che qui abbiamo esposto. Ai versi 230-252 del I libro delle Metamorfosi si ha la messa in scena della prima delle innumerevoli metamorfosi individuali allestite dal poeta nel suo irrefrenabile e funambolico spettacolo narrativo: è la trasformazione del feroce Licaone in lupo, voluta da Giove proprio per punire la sua efferata crudeltà. È stato ben detto: “L’uomo feroce come un lupo diviene un lupo vero e proprio. È interessante notare che in questa prima metamorfosi del poema che riguarda un singolo individuo, è una specifica metafora a configurarsi come il nucleo generativo della trasformazione” ((L. Galasso nel commento a Le metamorfosi, Einaudi, Torino 2000, p. 766)). Meglio non potrebbe dirsi: il crogiolo del processo metamorfico è strettamente correlato all’essenza metaforica di cui si nutre. Fra l’altro (…) l’area semantica che pertiene alla ferinità umana, alla sfera istintiva delle pulsioni più profonde e devastanti non conoscerà altro lessico efficace, specie in

84 di motivi: innanzitutto, perché ogni metafora e similitudine105 presuppone, almeno a livello cognitivo, una sorta di ‘scivolamento’ da un ente all’altro, per cui se l’ente A è definito come l’ente B o l’ente B, il passaggio dall’ente A a quello B non può che costituire una metamorfosi, un passaggio trasformativo, un processo caratterizzato da una curva di trasformazione (quindi, ogni metafora – il discorso è valido in generale, ma nel poema tassiano pare acquisire più forza – costituisce un processo metamorfico di cui tener conto106); in secondo luogo, perché spesso nella Liberata il riferimento ad una metamorfosi si annida