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II. Metamorfosi e memorie ovidiane nella Gerusalemme Liberata: caratteri generali 1 Questioni di intertestualità: l’intertestualità ovidiana, l’intertestualità tassiana

II.2. La metamorfosi, le metamorfosi nella Liberata 1 Metamorfosi e conversione nella Liberata

II.2.2. Metamorfosi e ‘romanzo’ nella Liberata.

Le fenomenologie della ‘metamorfosi’ e della ‘conversione’ nella Liberata possono essere studiate in relazione ad un’altra coppia oppositiva o comunque dialettica, e cioè il romanzo e l’epos. La metamorfosi, in questa tipo di quadro, si colloca con ogni evidenza dalla parte del romanzo81, così come è parimenti evidente che la conversione si collochi dalla parte dell’epos; le due tipologie di processi trasformativi connotano dunque e l’uno e l’altro genere di cui è intessuto il poema tassiano, facendo sì che esso si configuri in definitiva come un poema in cui la trasformazione (sia essa pagana o cristiana) assume un enorme rilievo. In altri termini, è bene notare che sia gli elementi afferenti all’epos che quelli afferenti al romanzo, le due categorie ‘di genere’ di cui parla diffusamente Sergio Zatti, oltre che in Il Furioso fra epos e

romanzo82, specificamente per l’universo tassiano in L’ombra del Tasso. Epica e romanzo nel Cinquecento, sono ‘diretti a’, ‘direzionati verso’ processi trasformativi: in particolare, la linea ‘epica’ sembra essere direzionata ad una serie di conversioni di personaggi (Clorinda, Armida) o comunque di processi di formazione del vero miles Christi (Rinaldo), mentre la linea romanzesca è caratterizzata da una serie di metamorfosi di norma reversibili che sono in definitiva vani e poco duraturi rispetto alle conversioni cristiane sempre definitive (ad esempio, banalmente i soldati cristiani trasformati in pesci da Armida tornano ad essere uomini, così come essi stessi dopo il periodo di prigionia ad opera della stessa maga ri-accedono poi, per opera di Rinaldo, alla condizione di libertà).

La metamorfosi, si diceva, è dalla parte del romanzo83: non è un caso se è possibile riscontrare un fenomeno variantistico che non mi sembra sia stato notato con vigore nella direzione che ora dirò, e cioè quel

81 Cfr. Francesco Ferretti, «Naturae ludentis opus». Le Metamorfosi di Ovidio nella Gerusalemme liberata: «La presenza di Ovidio in quanto serbatoio fantastico di inganni poetici è molto più accentuata in altri momenti del poema, in momenti che […] si potrebbero chiamare romanzeschi. Romanzesca, del resto, era la percezione del poema mitologico ovidiano che avevano Tasso e i suopi contemporanei. Testimoniano tale ricezione sia le traduzioni cinquecentesche delle Metamorfosi che avevano fornito Nicolò degli agostini (1522), Lodovico Dolce (1553) e Giovanni Andrea dell’Anguillara (1561), sia alcune influenti pagine di teoria del “romanzo” (in senso cavalleresco) dovute a Giovan Battista Giraldi Cinzio e a Giovan Battista Pigna (entrambi attivi a Ferrara). Questo tipo di lettura faceva delle Metamorfosi un grande modello di meraviglie poetiche “in forma di romanzo”, un continuo susseguirsi di amori e incanti capace di soddisfare il “gusto isvogliato” dei lettori moderni col continuo ricorso al “meraviglios”, come avveniva nei grandi poemi di Ariosto e Boiardo».

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Sergio Zatti, Il Furioso fra epos e romanzo, pacini fazzi, Lucca, cap. 1.: «Gli studi recenti hanno sottolineato come la tradizione del romanzo cavalleresco consegnasse ad Ariosto un codice ad alta disponibilità tematica e narrativa, e tuttavia sufficientemente consolidato nelle sue regole operative. La svolta che egli imprime in questa tradizione gli è consentita proprio dalla sua condizione di epigono nei confronti di un vasto corpus letterario ormai investito dalla crisi, di cui ricapitola in maniera originale il patrimonio inventivo e le formule espressive. Prendendo a prestito dal testo una metafora, si potrebbe dire che l’inchiesta di Astolfo sulla luna – questo grande deposito di oggetti perduti e catalogati – è una sorta di specchio interno del rapporto fra Furioso e mitologia cavalleresca. Essa appare come l’equivalente della ricognizione ariostesca del patrimonio lasciato in eredità dal genere romanzesco: una ricognizione non solo dei luoghi (…) ma anche (…) dei suoi modi di raccontare. (…) L’ironia (…) è uno strumento conoscitivo, e, specificamente, dei meccanismi, delle forme e dell’ideologia del ‘romanzo’. È sulla base ((della)) riflessione interna al ‘genere’, che si afferma una più vasta esigenza di controllo delle strutture narrative, cioè il tentativo di disciplinare attraverso canoni formali e modelli narrativi diversi dal modello romanzesco quella tendenza all’espansione senza misura, all’accumulo caotico, che caratterizzava le varie scritture della ‘ventura’ cavalleresca. (…) Dionisotti ha mostrato che la scelta ariostesca non poteva orientarsi che nella direzione indicata da quell’istanza diffusa al tempo verso il canto epico, e che troverà, dopo la metà del secolo, nel canone aristotelico la propria legittimazione teorica, per poi culminare nel tentativo pienamente epico del Tasso».

83 Che Ovidio si collochi dalla parte del ‘romanzo’, lo indica anche Antonio La Penna in Aspetti della presenza di

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convegno (Salerno e Fisciano, 25-17 gennaio 1993) a cura di Italo Gallo e Luciano Nicastri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995 (Pubblicazioni dell’Università degli Studi di Salerno – Sezione Atti Convegni Miscellanee, 43), pp. 293-321: «Un avvio utile, e forse necessario, a cogliere e capire la presenza di Ovidio nel Tasso, in particolare nella Gerusalemme liberata, sarebbe un’indagine sui modi in cui Ovidio viene visto e valutato nei trattati di poetica del Cinquecento, soprattutto in quelli dello stesso Tasso. La Penna afferma di aver condotto tale indagine in misura inadeguata, ma di credere di poter arrischiare alcune conclusioni; e la prima è che il posto poco rilevante che Ovidio ha in quei trattati, ci dà un’idea riduttiva, inadeguata della funzione, o delle funzioni, che egli ha effettivamente avuta nella poesia epica del Cinquecento. Proprio nei trattati di poetica del Tasso (Discorsi dell’arte poetica e Discorsi del poema

eroico) i riferimenti a Ovidio sono insignificanti: a mala pena attira l’attenzione un caso in cui l’autore delle Metamorfosi, che, secondo una falsa tradizione, fa di Numa Pompilio un discepolo di Pitagora, è citato per giustificare

gli anacronismi poetici (Discorsi del poema eroico, in Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, p. 164: restano tre citazioni, anzi due, perché una ricorre in una citazione di Dante). Tuttavia in altri trattati troviamo di più, anche se non molto: abbastanza, comunque, per capire quale interesse presentava il poeta delle Metamorfosi nel ricco dibattito sull’epica. Da un lato il grande successo dell’Orlando furioso, dall’altro la grande autorità della Poetica di Aristotele si riconducevano a spinte opposte (La Penna dice di non proporsi in questa sede di definirne la portata e la funzione culturale) e provocarono scontri e tentativi di conciliazione. Secondo l’aristotelismo più rigoroso il poema dell’Ariosto, costituito da varie azioni che s’intrecciano, aperto volentieri a digressioni, non rientrava nel canone del poema epico, che doveva essere caratterizzato dall’unità d’azione, oltre che, naturalmente, dall’altezza dello stile; poemi come l’Orlando furioso rientravano piuttosto in un genere a sé che venne chiamato (p. 294) romanzo. Il romanzo era un genere più moderno e meno nobile dell’altro, ma casi affini, se non proprio modelli, si potevano trovare anche nell’antichità (oltre che, com’è ovvio, nella tradizione, ormai già lunga, dei poemi cavallereschi); e il caso più rispettabile, anzi più affascinante, erano proprio le Metamorfosi di Ovidio, poema il cui filo unitario era tenue, la cui caratteristica saliente consisteva proprio nella ricca varietà di miti narrati. Fra i contributi più autorevoli e interessanti alla difesa del romanzo si colloca quello di Giovan Battista Giraldi Cinzio; e tra gli opuscoli in cui affronta questo problema, La Penna cita una lettera indirizzata a Bernardo Tasso, padre di Torquato, autore di un lunghissimo poema su

Amadigi, e pubblicata nel 1557, quando la poesia di Torquato era in fase di incubazione (Lettera a Bernardo Tasso sulla

poesia epica, in Trattati di poesia e di retorica del Cinquecento, a cura di B. WEINBERG, II, Bari 1970, pp. 453-476). Il Giraldi Cinzio scrisse anche lui un poema epico, l’Ercole, che, narrando le varie fatiche dell’eroe, presentava una lunga serie di azioni e, dunque, era opera poco unitaria: questa scelta egli può giustificare con l’esempio di Ovidio (Lettera a B. Tasso, cit., pp. 462 sgg.): “(…) sapendo che è concesso a chi scrive poeticamente fingersi cose che diano bellezza et ornamento alle cose che da sé non l’hanno, come veggiamo aver fatto Omero e Vergilio e ne’ cataloghi e ne’ conflitti e nelle altre parti ch’hanno avuto bisogno di tale aiuto, mi sono dato a trapporre tra le cose datemi dagli autori antichi le finte da me, atte (per quanto a me n’è paruto) a levar con la loro piacevolezza quello che poteva da sé arrecare noia o fastidio. Le quali cose ho nondimeno finte con forma antica, per mantenere quel tenore in tutta l’opera che insin da principio io mi proposi, aggiungendo loro quella vaghezza che non sia difforme a quel diletto che co’ nostri tempi si conviene; il che ho cercato di fare con tal maniera che le tolte dall’istorie antiche, che trattano i fatti d’Ercole, e le finte da me paiano tutte nate ad un parto. Et in questa parte mi sono più tosto conformato con la catena che ha usato Ovidio nelle sue Mutazioni che con la maniera dei nostri romanzatori, la qual, tolta da’ barbari scrittori, ha niuna somiglianza con la forma dell’ordine antico, la qual forma antica deveva io seguire per aver tolto il suggetto da’ più antichi Greci e Latini; come avrei seguita quella de’ nostri tempi quando a simili (p. 295) soggetti mi fussi appreso come fece il Conte e l’Ariosto et ora molto lodevolmente Vostra Signoria”. Dunque le Metamorfosi di Ovidio potevano apparire come qualcosa di mezzo fra gli antichi poemi epici di azione unitaria e i romanzi moderni di più azioni. Quel poema, tranne che in alcuni pezzi, non è annoverato tra i poemi eroici (Lettera, cit., p. 465; cfr. anche p. 471), ma ha certe qualità che ben corrispondono ai gusti dei tempi dell’autore dell’Ercole (Lettera, cit., p. 467): “E così ne’ canti di questa parte ((l’autore si riferisce alle parti in cui Ercole, nel suo poema, sceglie nuove volontarie avventure nel corso delle dodici fatiche tradizionali, impostegli da Euristeo: così crescevano la varietà e il diletto dell’immaginazione)) ho cercato che il giovare, il quale (come dissi) fu il fine ultimo che io mi proposi, sia stato accompagnato dal diletto delle descrizioni di bellezze, di bruttezze, di atti et abiti varii, di vani e di onesti, d’affetti ora dogliosi ora lieti, ora compassionevoli ora miserabili, ora amorosi ora gravi, e dalle altre cose che sono occorse da essere o principalmente o per aggiunti mento descritte in tutta l’opera. Le quali cose, per conformarmi così con l’uso dei poeti dei nostri tempi come con la maniera dello scriver di questa lingua, ho più largamente trattate che se le avessi avute a descriver latinamente, seguendo in ciò più tosto Ovidio che gli altri latini scrittori, avendomi egli più paruto in queste parti convenirsi con la maniera dello

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scriver d’oggidì che qualunque altro ch’abbia scritto poeticamente”. Il contrasto fra il poema epico ‘aristotelico’ e il ‘romanzo’ conteneva i germi di una querelle des anciens et des modernes ((il Giraldi Cinzio affronta questo problema specialmente nell’opuscolo Discorso intorno al comporre dei romanzi, del 1554: cfr. Antonio La Penna, Tersite censurato, Pisa 1991, pp. 164 sgg. e l’opera di B. WEINBERG ivi citata)), e in questa Ovidio figurava come un antico particolarmente vicino al gusto dei moderni. Ma non si deve pensare ad un entusiasmo del poeta e critico cinquecentesco per Ovidio: quanto allo stile epico, specialmente nella scelta delle figure retoriche e di altri ornamenti, anche il difensore del ‘romanzo’ trova il modello più valido in Virgilio. Dopo aver scartato Stazio e Valerio Falcco perché troppo duro, Claudiano (p. 296) perché troppo carico di lessico elevato e di figure, egli così prosegue (Lettera, cit., p. 469): ‘Né anco mi ho voluto proporre Lucano ed Ovidio ne’ fiori e ne’ tratti, parendomi che questa diligenza sia loro riuscita a danno; onde quelli è più tosto istimato pomposo istorico che giudicioso poeta, e questi più tosto ingegnoso che grave’. Come si può immaginare, le accuse, già antiche, verso Ovidio, di ingegnosità ((cfr. per es. A.M. DE’ CONTI, De arte poetica, in Trattati di poetica, cit., II, p. 129)) o facilità, copiosità, o di lascivia ricorrono nel Cinquecento; ma la facilità poteva essere considerata anche come favorevole disposizione naturale: si legge per es. che questa disposizione era maggiore in Ovidio che in Virgilio, il quale divenne poeta più grande grazie allo ‘studio’ (il giudizio è ispirato dalla notizia che Virgilio ripuliva con estrema cura i suoi versi, come l’orsa i suoi cuccioli) ((il riferimento è a L. GIACOMINI, Del furor poetico, in Trattati di poetica, cit., III, Bari 1972, p. 440)); e non mancano giudizi più favorevoli, perché più liberi da riserve o perché in vario modo giustificano i vizi ((per es., Celio Calcagnini accetta la ‘copia’ come ‘vitium amabile’: cfr. Super imitatione commentatio, in Trattati di poetica, cit., I, Bari 1970, p. 218; B. RICCI (De imitatione, ivi, p. 433) giustificava con vari argomenti la facilità e la mollezza)). La Penna afferma che è opportuno tornare un momento ai Discorsi del Tasso per segnalare almeno due punti della sua teoria che rendono più comprensibile la sua apertura ad Ovidio nel poema. Il poema epico è caratterizzato, naturalmente, dallo stile ‘magnifico’ o ‘sublime’; ma per il Tasso ciò significa che esso prevale sugli altri due, ‘mediocre’ e ‘umile’, non che domini e li escluda: La Penna cita un passo in cui il concetto, ricorrente nei trattati, è formulato più chiaramente (Discorsi dell’arte poetica, cit., p. 40): ‘Il magnifico, dunque, conviene al poema epico come suo proprio: dico suo proprio perché, avendo ad usare anco gli altri secondo le occorrenze e le materie, come accuratissimamente si vede in Virgilio, questo nondimeno è quello che prevale; come la terra in questi nostri corpi, composti nondimeno di tutti i quattro <elementi>’. Questa posizione va corretta con la considerazione, che segue poco dopo, secondo cui nel poema eroico ciascuno dei tre stili ha impronta diversa da quella che ha in altri generi poetici (ibid., p. 41). La Penna afferma che nel poetare epico l’apertura del Tasso è anche maggiore che nella teoria: ‘la fiorita vaghezza del lirico’ vi ha larga parte accanto allo stile magnifico, e ciò spiega la diffusa presenza del Petrarca nella Gerusalemme liberata, presenza che gareggia con quella di Virgilio e che certamente supera quella diretta di Omero; ma si scende in qualche caso anche ad un livello che, se non è quello del comico, lo sfiora con molta grazia. In questo abbassamento però il limite è segnato a più riprese, specialmente con le riserve verso la comicità o la ‘lascivia’ dell’Ariosto (cfr. Discorsi del poema eroico, cit., p. 68 (contro la lascivia per es. di Alcina e di Ricciardetto), p. 196 sgg. (contro lo stile comico)). Decisamente viene rivendicato il ruolo dell’eros nel poema epico, un eros di nobili ascendenza neoplatoniche, ben diverso da quello della commedia (ivi, p. 104): ‘Assegnavamo dunque l’amore più tosto alla comedia. Ma io fui sempre di contrario parere, parendomi ch’al poema eroico fossero conveniente le cose bellissime; ma bellissimo è l’amore, come stimò Fedro appresso Platone; ma s’egli non fosse né bello né brutto, come più tosto giudizio di Diotima, non però conviene alle comedie, le quali dilettano con le cose brutte, e con quelle muovono a riso’. Per nobilitare l’amore il Tasso può farsi forte anche dell’autorità di San Tommaso (ivi, p. 106): ‘ma se l’amore è non solo una passione e un movimento dell’appetito sensitivo, ma uno abito nobilissimo della volontà, come volle san Tomaso, l’amore sarà più lodevole ne gli eroi, e per conseguente nel poema eroico’. Ma si vedrà, dice La Penna, che proprio nella tematica dell’eros, il Tasso sperimenta maggiormente la varietà di livelli stilistici. L’altra posizione teorica che è utile segnalare, è quella che il Tasso prende rispetto all’unità d’azione. Per definirla esattamente sarebbe necessaria, afferma La Penna, (p. 298) un’analisi non breve, da cui emergerebbero forse anche alcune oscillazioni: per esempio, poema epico e romanzo restano abbastanza distinti, e il Tasso dichiara apertamente che egli, rifiutando la moltitudine di azioni dell’Ariosto, ha voluto battere una via diversa; ma talvolta sembra che miri ad attenuare la differenza fra i due generi di epica e a far valere l’unità aristotelica anche per il romanzo (cfr. per es. Discorsi dell’arte poetica, cit., p. 28 sgg.). Basti considerare qui, dice La Penna, che il Tasso tende a subordinare la varietà all’unità d’azione, non ad eliminarla; sul diletto procurato dalla varietà, ma che non identifica con la moltitudine di azioni, egli insiste; nello stesso tempo però ammonisce a non spingere la varietà fino alla confusione; riconosce che dalla varietà non si può prescindere nell’epica moderna, e la sua

61 fenomeno per cui nella maggior parte dei casi Tasso nella Gerusalemme Conquistata elimina le sezioni ‘romanzesche’ in cui era operante, nella Liberata, la ‘funzione-Ovidio’ (ovviamente, non è questa la sede di uno studio approfondito sulle dinamiche delle ‘metamorfosi’ della presenza del ‘metamorfico’ Ovidio nel passaggio dal primo poema a quello ‘riformato’, studio che invero sarebbe assai gradito e auspicabile per il futuro; ma già spogli parziali consentono di comprendere la tendenza all’eliminazione della ‘funzione- Ovidio’, in connessione con il ‘romanzo’, nella Conquistata): ad esempio Tasso procede all’eliminazione, per la ri-scrittura della Gerusalemme Conquistata, della metamorfosi, cui ho già accennato in precedenza e su cui in seguito avrò modo di soffermarmi, dei crociati mutati in pesci da parte di Armida (in cui opera, oltre l’archetipo generale di Circe trasformatrice di uomini in animali, il modello ovidiano specifico di Bacco che trasforma in pesci i marinai recalcitranti alle sue direttive, e quindi al suo culto), così come procede all’eliminazione dell’episodio, molto ‘romanzesco’, di Olindo e Sofronia, su cui pure ci soffermeremo, in cui agisce il modello ovidiano della vicenda Perseo e Andromeda), e – ancora – elimina la coppia guerriera dei cristiani Gildippe e Odoardo, la cui creazione e rappresentazione forse risente della storia ovidiana di Bauci e Filemone, per conferire maggiore epicità all’intera vicenda narrata in quanto l’irruzione dell’eros sia pure coniugale nel campo di battaglia non pare ammissibile al Tasso della riscrittura della Conquistata.

In altri termini – e ritorniamo al tema di un Ovidio ‘amico negato’ accennato nell’Introduzione – le metamorfosi e, più in generale, le memorie ovidiane si pongono, nella Liberata, in stretta connessione con il ‘romanzo’, cioè con quella tendenza ‘di genere’ fortemente ‘negata’ dalla coscienza dello scrittore-Tasso (ma non per questo assente nel poema, dato che di ‘negazione’ freudina, evidentemente, si tratta); per cui tali metamorfosi e tali memorie ovidiane erano destinate fatalmente ad essere cassate nell’universo del poema ‘riformato’.

Quando mi riferisco alla nozione di ‘romanzo’ e di ‘negazione del romanzo’ nella Liberata, è ovvio che mi sto riferendo al quadro teorico splendidamente tracciato da Sergio Zatti, in cui il poema tassiano è inteso come «unico e splendente monumento [destinato a sopravvivere nella poesia italiana] fra le rovine di un genere che ha lasciato poche tracce di sé , ma che proprio per il fatto di essere stato una storia di rinunce, fallimenti, palinodie, vale a meglio illuminare la genesi e le motivazioni dell’opera tassiana, nata come compromesso ed “errore” tanto da provocare il ripudio del suo stesso autore» e come «crocevia dell’epica cinquecentesca», «punto d’approdo del rapporto conflittuale fra il codice ariostesco del “romanzo” e quello classicista del “poema eroico”», all’interno del quale Tasso può ereditare e filtrare criticamente la tradizione (in cui rientrano auctores quali Ariosto, Trissino, Bernardo Tasso) nel momento stesso in cui se ne fa «teorico tendenzioso e polemico riformatore»84. Zatti, com’è noto, evidenzia quella circostanza curiosa per cui Tasso ripudia in teoria, ma molto meno nei fatti, la tradizione ‘romanzesca:

«l’aver privilegiato l’istanza della rottura [della scrittura tassiana nei confronti di quella ariostesca], enfatizzata in sede di teoria letteraria e di programma poetica dal Tasso medesimo per fini polemici, [ha] finito col mettere la sordina agli echi evidenti in cui si manifestava piuttosto la continuità con l’esperienza ariostesca: summa illustre, questa, di una tradizione “romanzesca” che Tasso ripudia meno nei fatti di quanto affermi in teoria, perché è rispetto a essa (e non solo per il suo ruolo storico di “emulo” dell’Ariosto) che egli apre la sua partita decisiva con la modernità e “l’uso de’ tempi presenti”. […] Non è tanto questione di ridimensionare l’importanza di quella opposizione, quanto di riconoscerne la natura ambivalente, riscontrando le posizioni teoriche del Tasso con le sue concrete strategie testuali: dove la memoria ariostesca e cavalleresca in generale, appare, nonostante tutto, ancora un’eredità cospicua»85.

teoria, che all’esperienza deve anche più che alle autorità, si configura più come una conciliazione di esigenze opposte che come un saldo aristotelismo».

84 Sergio Zatti, Premessa a L’ombra del Tasso, pp. VII-IX: pp. VII-VIII.