Clorinda è uno dei personaggi della Liberata maggiormente connessi a dinamiche di ‘metamorfosi’, soprattutto concernenti la ‘questione di genere’108, in riferimento a quell’‘ambiguità’ costitutiva del personaggio che, fil rouge tra i molti che la Liberata offre all’indagine, pare essere ‘tema’ molto importante all’interno del poema.
Olindo e Sofronia
Prima però di passare all’analisi dell’evoluzione di Clorinda, occorre soffermarsi su un episodio, quello di Olindo e Sofronia, in cui la guerriera pagana ha un ruolo molto importante all’interno delle dinamiche della riscrittura dell’episodio ovidiano di Perseo e Andromeda.
La scomparsa della statua della Vergine come il furto del Palladio.
I musulmani strappano la statua della Madonna per difendere la città di Gerusalemme dall’attacco cristiano e la trasportano dalla chiesa alla moschea.
Così dice Ismeno a Solimano (II, 5-6): ‘Nel tempio de’ cristiani occulto giace un sotterraneo altare, e quivi è il volto di Colei che sua diva e madre fece quel vulgo del suo Dio nato e sepolto. Dinanzi al simulacro accesa face
continua splende, egli è in un velo avolto. Pendono intorno in lungo ordine i voti che vi portano i creduli devoti. Or questa effigie lor, di là rapita,
108 A proposito della ‘questione di genere’ intesa nella sua globale complessità può essere tracciato un ulteriore parallelismo tra la Liberata e le Metamorfosi ovidiane rispetto a quelli visti sinora se è vero che Tasso, esattamente come Ovidio, riserva molto spazio alla ‘voce femminile’, ossia alle molteplici voci dei suoi personaggi femminili (Clorinda, Erminia, Armida, etc.) , e – ancora una volta esattamente come Ovidio – è poeta della fluidità dell’identità (si pensi a una donne-virago come Clorinda; a Armida definita, come vedremo, dallo zio Idraote come caratterizzata da un ‘cor virile’; alle vicende di Lesbino, etc.); sulla ‘questione di genere’ nelle Metamorfosi ovidiane, è consigliata la lettura del bel saggio di Alison Sharrok, Gender and sexuality, in The Cambridge Companion to Ovid, edited by Philip Hardie, Cambridge University Press, pp. 95 sgg.: «Ovid has been called sympathetic to women. While many modern feminists would be unhappy about this chivalric designation, there is no doubt that the Ovidian corpus provides a particularly rich site for gendered study. More than any other non-dramatic ancient poetry, male-authored as it overwhelmingly is, Ovid’s work gives space to a female voice, in however problematic a manner, and to both male and female voices which reflect explicitly on their own gendered identity. It is also driven by a troubled relationship with the purveyors of Roman masculinity – the army, politics, Augustus, epic, and so on. Moreover, the poet – par excellence – of the fluidity of identity clearly provokes a gendered reading».
Il tema della metamorfosi è molto connesso a quello dell’identità (cambiare forma è (anche) cambiare identità): si
tratta di un tema che porta con sé la sfaldatura o addirittura l’assenza di un’immagine monolitica della realtà e dell’identità, è funzionale ad esprimere anche crisi identitarie, connotato qual è da un universo di calviniani ‘indistinti confini; è connesso dunque alla questione di genere (Clorinda, Armida).
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e la riponga entro la tua meschita: io poscia incanto adoprerò sì forte ch’ognor, mentre ella qui fia custodita, sarà fatal custodia a queste porte; tra mura inespugnabil il tuo impero securo fia per novo alto mistero.”
E questa è la reazione del re Solimano (II, 7) Sì disse, e ’l persuase; e impaziente
il re se ’n corse a la magion di Dio, e sforzò i sacerdoti, e irriverente il casto simulacro indi rapio;
e portollo a quel tempio onde sovente s’irrita il Ciel co ’l folle culto e rio. Nel profan loco e su la sacra imago susurrò poi le sue bestemmie il mago.
Ecco come viene descritta la scomparsa della statua dalla moschea (II 8-9): Ma come apparse in ciel l’alba novella,
quel cui l’immondo tempio in guardia è dato non rivide l’imagine dov’ella
fu posta, e in van cerconne in altro lato. Tosto n’avisa il re, ch’a la novella di lui si mostra feramente irato, ed imagin ben ch’alcun fedele abbia fatto quel furto, e che se ’l cele. O fu di man fedele opra furtiva, o pur il Ciel qui sua potenza adopra, che di Colei ch’è sua regina e diva sdegna che loco vil l’imagin copra: ch’incerta fama è ancor se ciò s’ascriva ad arte uman od a mirabil opra; beb è pietà che, la pietade e ’l zelo uman cedendo, autor se ’n creda il Cielo.
Il furto della statua della Vergine (ma è incerto se si tratti di furto o di miracolo) può avere come modello il furto del Palladio da parte di Ulisse e Diomede accennato nell’inizio del libro XIII, nelle parole di Aiace nell’ambito della contesa per le armi di Achille (il riferimento è già stato individuato da David Quint, La contesa tra le armi e le lettere…, e anzi in prima battuta la fonte era stata individuata da Multineddu): XIII, 98-100: ‘Conferat his Ithacus Rhesum inbellemque Dolona / Priamidenque Helenum rapta cum Pallade captum: / luce nihil, gestum nihil est Diomede remoto’. ‘Provi il signore di Itaca a contrapporre a questi argomenti i suoi, citando Reso, l’imbelle Dolone, la cattura di Eleno, figlio di Priamo, e il furto del Palladio: nulla ha fatto alla luce del giorno, nulla senza l’aiuto di Diomede!’
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Dopo la scomparsa della statua della Vergine dalla moschea, si legge (II, 10): ‘Il re ne fa con importuna
inchiesta / ricercar ogni chiesa, ogni magione, / ed a chi gli nasconde o manifesta / il furto o il reo, gran pene e premi impone. / Il mago di spiarne anco non resta / con tutte l’arti il ver; ma non s’appone; / ché ’l Cielo, opra sua fosse o fosse altrui, / celolla ad onta de gl’incanti a lui’. Il re di Gerusalemme avvia dunque un’inchiesta, una ‘ricerca inopportuna’, ‘condotta senza alcun rispetto nelle chiese e nelle case dei cristiani’ (Tomasi, p. 120), e ‘minaccia gravi castighi a chi nasconde il furto o il suo autore e promette invece ricompense a chi ne fornisca notizie’ (Caretti); Ismeno ‘non smette di cercare per conoscere la verità facendo ricorso a tutte le sue arti magiche, ma non vi riesce’ (Tomasi, p. 120), perché ‘Dio, fosse il furto opera sua o degli uomini, tenne nascosta l’immagine a Ismeno nonostante le sue magie’. Si tratta del primo episodio in senso assoluto all’interno del poema in cui le forze infernali e quelle celesti vengono ad uno scontro sul piano dei poteri soprannaturali: la vittoria è del Cielo che vanifica, irridendolo, il ricorso alle arti magiche più temibili da parte di Ismeno.
Si ricordi che il tema della metamorfosi si colloca generalmente dalla parte dei pagani, delle forze infernali: quindi, l’opposizione Cielo / Inferno, seppure nella fattispecie non direttamente connettibile al nostro tema, è in generale la cornice di senso più forte nell’ambito della quale quel tema andrà letto e interpretato.
Il passaggio all’ira di Aladino. È narrata anche una ‘metamorfosi’ all’ira più furibonda in Aladino non
appena si accorge che non esce fuori il colpevole di quello che lui considera come un ‘furto’ del simulacro della Vergine (II, 11): ‘Ma poi che ’l re crudel vide occultarse / quel che peccato de’ fedeli ei pensa, / tutto in lor d’odio infellonissi, ed arse / d’ira e di rabbia immoderata immensa. / Ogni rispetto oblia, vuol vendicarse, / segua che pote, e sfogar l’alma accensa. / ‘Morrà,’ dicea ‘non andrà l’ira a vòto, / ne la strage comune il ladro ignoto’. Aladino è dunque preda di un’ira incontenibile; l’ira è uno di quei sentimenti che sin dall’antichità avevano attirato l’attenzione anche sistematica degli antichi (si pensi al De ira di Seneca), e visto come un sentimento che altera in modo subitaneo gli umori, gli atteggiamenti, le reazioni degli uomini.
Sofronia come Vergine. Sofronia l’eroina cristiana che si autoaccusa del furto del simulacro della Vergine
per salvare i cittadini cristiani di Gerusalemme da un’immane strage, è presentata sin dall’inizio come vergine (II, 14: ‘Vergine era…’). Sofronia è autentica immagine della Vergine Maria, tanto più che significativamente ella si autoaccusa di aver involato un simulacro, ossia un’immagine della Madonna: Sofronia, in altri termini, che afferma di aver rapito l’immagine della Vergine Maria, è ella stessa immagine della Vergine Maria, e questo in virtù di un cortocircuito semantico che insiste sul semantema della ‘verginità’ e sul tema del ‘sacrificio’ ad esso in qualche modo collegato.
Sofronia e Ismeno sono caratterizzati entrambi da un medesimo aggettivo ‘soletto’: II, 1, 2 ‘soletto Ismeno un dì gli s’appresenta’; II, 18,1: ‘La vergine tra ’l vulgo uscì soletta’, e non casualmente la caratterizzazione è presente in entrambi i casi nell’attacco incipitario dell’ottava.
Amore-Argo: custode, non custode. Nonostante Sofronia nasconda le sue bellezze tra le mura della sua
casa e si sottragga alle lodi e agli sguardi degli spasimanti (II, 14), Amore, che può essere anche talora cieco, ma può anche vederci benissimo ed anzi avere cento occhi come Argo, ha condotto lo sguardo di Olindo, pur attraverso mille impedimenti, nella casa di Sofronia; l’ottava II, 15 recita così: ‘Pur guardia esser non può ch’in tutto celi / beltà degna ch’appaia e che s’ammiri; / né tu il consenti, Amor, ma la riveli d’un giovenetto a i cupidi desiri. / Amor, ch’or cieco, or Argo, ora ne veli / di benda gli occhi, ora ce gli apri e giri, / tu per mille custodie entro a i più casti / verginei alberghi il guardo altrui portasti’. Ciò che è interessante ai nostri fini, e cioè per l’indagine sulle memorie ovidiane nel dettato tassiano, è ovviamente l’immagine dell’Amore- Argo: Argo è il mitico mostro con cento occhi che era stato incaricato da Giunone di spiare Io, amata da Giove (Tomasi nota, p. 124: ‘Qui come attributo d’Amore, in contrasto ossimorico tra cecità e cupido sguardo. Si ricordi che al tema mitologico di Argo e Giunone Tasso dedica il madrigale XV, Gelosa dea, che
89 giova). Ora, l’episodio di Giove e Io è uno dei primi narrati nelle Metamorfosi ovidiane (I libro, vv. 568-667; vv. 724-747).
Tra l’altro anche Giove, come poi per altri personaggi ovidiani e tassiani, è combattuto tra amore e pudore alla richiesta di Giunone di donarle la giovenca in cui lui aveva trasformato Io (618-619: ‘… pudor est, qui suadeat illinc, / hinc dissuadet amor’). Leggiamo il passo ovidiano (622 sgg.):
paelice donata non protinus exuit omnem diva metum timuitque Iovem et fuit anxia furti, donec Arestoridae servandam tradidit Argo. Centum lumini bus cinctum caput Argus habebat: inde suis vicibus capiebant bina quietem,
cetera servabant atque in statione manebant. constiterat quocumque modo, spectabat ad Io: ante oculos Io, quamvis aversus, habebat.
Ricevuta dunque in dono l’amante del marito, la dea non si rassicurò subito ma continuò a temere il tradimento di Giove, fintanto che non la consegnò in custodia ad Argo, figlio di Arestore.
Argo aveva il capo munito di cento occhi che si chiudevano al sonno a due a due, mentre gli altri restavano all’erta. Comunque si atteggiasse, guardava in direzione di Io; anche se le volgeva le spalle, l’aveva sempre davanti agli occhi.
Amore dunque come immagine di una visione ossessivamente presente ad angolo giro, figura di uno sguardo che significativamente nell’ottava tassiana non è di custodia, come invece nel caso ovidiano, bensì al contrario di elusione della custodia: Amore dai cento occhi qui non custodisce Io tramutata in giovenca, bensì consente all’amante Olindo di penetrare con lo sguardo attraverso i recessi in cui Sofronia voleva preservare la sua bellezza e la sua verginità.
Si noti tra l’altro che nella storia ovidiana, Argo sarà ucciso da Mercurio per ordine di Giove, mentre Io, dopo essere stata trasformata in giovenca, sarà resa da Giove stesso una dea.
Sofronia si presenta al cospetto del re Aladino. La scelta di Sofronia di recarsi presso il re di
Gerusalemme (II, 18-19) è il rovescio, se si vuole, del movimento opposto che compirà la pagana Armida recandosi presso il campo cristiano (IV 28 sgg.): ‘Sofronia è l’alternativa cristiana di Armida’, Raimondi 1980, p. 170. Sofronia del resto è connettibile ad Armida anche per quanto concerne la sua straordinaria bellezza e certi temi ad essa collegati che ritorneranno nella presentazione di Armida, artificialità / naturalezza, etc. (cfr. II, 18, 5-8: ‘Non sai ben dir s’adorna o se negletta, / se caso od arte il bel volto compose. / Di natura, d’Amor, de’ cieli amici / le negligenze sue sono artifici’.
Inoltre, la somiglianza / rovesciamento con Armida è nel tratto della menzogna: entrambe infatti utilizzano delle menzogne, ma se quella di Armida è la menzogna malevola e malvagia che riesce a sottrarre cinquanta campioni cristiani dal campo e dai loro doveri di crociati, la menzogna di Sofronia è una ‘magnanima menzogna’: II, 22, 3-4: ‘Magnanima menzogna, or quand’è il vero / sì bello che si possa a te preporre?’, una menzogna cioè che addirittura può superare, non per statuto ontologico, ma per le effettive ricadute morali, la verità, perché è attraverso quella menzogna che Sofronia vuole non disperdere (come Armida), ma salvare un’intera parte della popolazione di Gerusalemme, quella cristiana.
Aladino tra confusione e ira. Aladino, così come in precedenza s’era enormemente adirato per il furto del
simulacro e soprattutto per l’impotenza di non comprendere chi sia stato l’artefice del gesto, subisce ora (II, 20) una nuova metamorfosi: dinanzi alla vista di Sofronia e all’udire le sue parole, l’ira sembra placarsi: ‘A l’onesta baldanza, a l’improviso / folgorar di bellezze altere e sante, / quasi confuso il re, quasi conquiso, / frenò lo sdegno, e placò il fer sembiante’ (II, 20, 1-4). Aladino cioè è sbigottito dalla bellezza di Sofronia e quasi sembra cedere e farsi conquistare da lei, e rabbonisce il suo aspetto feroce. Il suo ‘cor villano’, cuore rozzo è commosso (II, 21, 1-2): ‘Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto, / s’amor non fu, che mosse il cor
90 villano’: Aladino è molto disorientato dinanzi alla bellezza di Sofronia, e anche quando lei rivela di essere stata l’artefice del furto, non giunge velocemente come al suo solito all’ira (II, 22, 5-6: ‘Riman sospeso, e non sì tosto il fero / tiranno a l’ira, come suol, trascorre’. Comunque, in seguito, dinanzi al tono quasi insolente delle risposte di Sofronia, il sovrano è preso un’altra volta da sentimenti di sdegno (II, 24, 1): ‘Qui comincia il tiranno a risdegnarsi’. E quando poi Sofronia dice di aver bruciato l’immagine e giustifica moralmente il suo operato (II, 25, 2: ‘giust’è ritòr ciò ch’a gran torto è tolto’), il re procede ad un altro scoppio parossistico di ira (II, 25, 3-6: ‘Or, quest’udendo, in minaccievol suono / freme il tiranno, e ’l fren de l’ira è sciolto. / Non speri più di ritrovar perdono / cor pudico, alta mente e nobil volto’), e nulla può nemmeno quello che appare essere un intervento di un Amore personificato (II, 25, 7-8: ‘e ’ndarno Amor contr’a lo sdegno crudo / di sua vaga bellezza a lei fa scudo’). Il re è ormai del tutto incrudelito: II, 26, 1-2: ‘Presa è la bella donna, e ’ncrudelito / il re la danna entr’un incendio a morte’. Ed è in questo momento che prende avvio la metamorfosi di lei (II, 26, 5-8: ‘Ella si tace, e in lei non sbigottito, / ma pur commosso alquanto è il petto forte; / e smarrisce il bel volto in un colore / che non è pallidezza, ma candore’): l’animo di Sofronia è profondamente commosso, non turbato, e il volto suo sbianca, perde il suo colorito, ma non per la pallidezza, ma per il candore.
Olindo e Sofronia sul rogo. L’episodio di Olindo e Sofronia, una classica storia di ‘eros’ e ‘thanatos’, può
essere ascritto ad un ricco filone di storie antiche incentrate sulle fenomenologie tra loro intrecciate di ‘amore’ e ‘morte’: si pensi ad esempio all’episodio ovidiano di Piramo e Tisbe.
La postura di Olindo e Sofronia attaccati l’uno vicino all’altro sul rogo (II, 32, 7-8: ‘Sono ambo stretti al palo stesso; e vòlto / è il tergo al tergo, e ’l volto ascoso al volto’) ha fatto rammentare a D’Alessandro la postura di Ercole e Acheloo nelle Met. IX 44-45: ‘…toto…ego pectore pronus / et digitos digitis et frontem fronte premebam’, ‘Io stavo tutto proteso, col petto incurvato, facendo forza con le dita contro le dita e con la fronte contro la fronte’. Si tratta del racconto di Acheloo che ricorda il suo combattimento con Ercole; notevoli le affinità (es. ‘frontem fronte’, ‘’l volto…al volto’), ma notevoli in effetti anche le divergenze rispetto al testo ovidiano: innanzitutto se nelle Metamorfosi si parla di un combattimento, di due ‘guerrieri’ per quanto peculiari (un semidio e un fiume) in lotta, nel poema tassiano ad essere ritratti sono due amanti condannati a morte; inoltre, se nella pagina ovidina la fronte dell’uno è dinanzi alla fronte dell’altro in sforzo di lotta come le dita, nei versi tassiani i due sono posti schiena contro schiena e i due volti non possono guardarsi reciprocamente (in definitiva, Ovidio: posizione frontale; Tasso: posizione non frontale).
Olindo e Sofronia come Perseo e Andromeda. L’episodio di Olindo e Sofronia (II canto), come già da
più parti è stato notato, è modellato su quello di Perseo e Andromeda (fine IV libro-inizio V libro). In generale, infatti, la liberazione di Olindo e Sofronia sul rogo da parte di Clorinda ricorda molto da vicino la liberazione di Andromeda sullo scoglio oggetto delle aggressioni del mostro marino da parte di Perseo. Si veda poi nello specifico ad esempio il riferimento alla doppia connotazione delle catene (catene d’amore
versus catene di prigionia), connotazione che del resto già aveva assunto nella lirica elegiaca ed erotica latina
così come nella tradizione volgare un suo rilevante peso all’interno della topica amorosa: dice infatti Olindo, nel suo lamento, a Sofronia (II, 33, 5-8): ‘Quest’è dunque quel laccio ond’io sperai / teco accoppiarmi in
compagnia di vita? / questo è quel foco ch’io credea ch’i cori / ne dovesse infiammar d’eguali ardori’, lì
dove come si vede il focus è sulla catena che da spirituale-amorosa slitta ad essere concreta-coercitiva; già in Ovidio, Met. IV, 678-681 Perseo così si rivolge ad Andromeda legata allo scoglio: ‘…‘o’ dixit ‘non istis
digna catenis, / sed quibus inter se cupidi iunguntur amantes, / pande requirenti nomen terraeque tuumque /
et cur vincla geras’, ‘…le si rivolge: ‘O tu che non meriteresti catene di questo genere, ma solo quelle che avvincono tra loro gli amanti appassionati, svelami il nome della tua terra e il tuo, e dimmi perché sei ridotta in ceppi. Sono ansioso di saperlo’.
Come si vede, le riprese sono evidenti (‘istis … catenis’, ‘quest(o)…laccio’; ‘quibus … (catenibus)’, ‘quel laccio’; ‘quibus … iunguntur amantes’, ‘ond’io sperai / teco accoppiarmi’) e non casuali, e propongono forte
91 la contrapposizione tra le catene attuali di prigionia e le catene sognate, immaginate, ritenute più adeguate di amore; e in entrambi i casi è il personaggio maschile innamorato a parlare in questi termini all’amata. Per quanto concerne il parallelo complessivo con l’episodio della librazione di Andromeda, certo non andranno trascurate le differenze, ché se Perseo è mosso da amore (es. Met IV 671-677: ‘quam simul ad duras religatam bracchia cautes / vidit Abantiades … / …. / …. trahit inscius ignes / et stupet et visae correptus imagine formae / paene suas quatere est oblitus in aëre pennas’ ; ‘L’Abantiade la vede, con le braccia incatenate alle aspre rocce … e subito, senza rendersene conto, è preso d’amore per lei. stordito e affascinato da quella splendida visione, quasi si dimentica di battere le ali nell’aria’), Clorinda è mossa invece da compassione e commozione (es. II, 43, 1-2: ‘Clorinda intenerissi, e si condolse / d’ambeduo loro e lagrimmone alquanto’); inoltre se Perseo si rivolge direttamente ad Andromeda per conoscere da lei la sua sventura (sono le parole che già abbiamo visto), Clorinda non si rivolge, né potrebbe data la configurazione del cerimoniale del rogo, direttamente a Olindo e Sofronia, ma chiede lumi ad un anziano che sta assistendo alla condanna a morte (II, 43, 5-8 e 44, 1-2: ‘Senza troppo indugiare ella si volse / ad un uom che canuto avea da canto: ‘Deh! dimmi: chi son questi? ed al martoro / qual gli conduce o sorte o colpa loro?’ // Così pregollo, e da colui risposto / breve ma pieno a le dimande fue’).
Si tenga presente anche il fatto che così come poi Perseo sposerà Andromeda (es. IV 736 sgg.: ‘… gaudent generumque salutant / auxiliumque domus servatoremque fatentur / Cassiope Cepheusque pater; resoluta catenis / incedit virgo, pretiumque et causa laboris’, ‘I genitori della fanciulla, Cassiope e Cefeo, pieni di gioia, salutano in Perseo il loro genero e lo riconoscono sostenitore e salvatore della famiglia. La fanciulla,