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Alessandro Metlica, Armida davanti allo specchio. Modelli intertestuali nella Liberata.

p. 282 (…) le implicazioni mitiche legate al tema dello specchio ((sono)) chiare (XIV 66 5-8): “pria s’arresta sospesa, e gli s’asside / poscia vicina, e placar sente ogn’ira / mentre il risguarda; e ’n su la vaga fronte / pende omai sì che par Narciso al fonte”. Si noti l’anomalia della situazione: Armida, colta nel momento in cui s’innamora di Rinaldo, non è paragonata a un’eroina in preda alla passione, ma a Narciso; come se, anche mentre fissa affascinata il volto del giovane, non fosse in grado di cogliervi che il proprio riflesso. Il riferimento al mito è meno generico di quanto potrebbe sembrare. Appena qualche ottava più su, infatti, Tasso modella una similitudine su Ovidio (XIV 61 1-2): “Così dal palco di notturna scena / o ninfa o dea, tarda sorgendo, appare”. Il paragone si ispira chiaramente a Metamorfosi III 11-114: “sic, ubi tolluntur festis aulaea theatris, / surgere signa solent primumque ostendere vulnus, / cetera paulatim, placidoque educta tenore / tota patent imoque pedes in margine ponunt”. Il passo fa parte del mito di Cadmo, ma nel terzo libro delle Metamorfosi si trovano anche i celebri versi dedicati a Narciso. Prende dunque sempre maggior

consistenza il sospetto che tra gli opera ovidiani e il personaggio di Armida intercorra un legame privilegiato ((un’altra eco dell’opera ovidiana si incontra in XVI 42 3-4: “dolente sì che nulla più, ma bella /

altrettanto però quanto dogliosa” (“Tristis erat sed nulla tamen formosior illa / esse potest tristi desiderioque dolebat”, Metamorfosi, VII 730-731))). (…)

Armida abbandonata come Arianna nelle Heroides

Alessandro Metlica, Armida davanti allo specchio. Modelli intertestuali nella Liberata.

La rabbiosa apostrofe che la donna rivolge a Rinaldo quando questi rifiuta di portarla con sé (XVI 57-60) e il lamento successivo alla sua partenza (XVI 63-65) vengono costruiti sul topos della donna sedotta e abbandonata, e si puntellano (in maniera anche puntuale) su luoghi del IV libro dell’Eneide. Tuttavia il cliché della donna tradita finisce per sfumare in un’atmosfera tutt’altro che epica, lontana dalla tragicità della Didone virgiliana. Il modello pare un altro: la struttura dell’episodio, l’ambientazione marina, nonché il languido sentimentalismo di fondo sono gli stessi della lettera X delle Heroides, quella che Arianna rivolge a Teseo. Prendiamo ad esempio l’intera ottava XVI 63:

Poi ch’ella in sé tornò, deserto e muto quanto mirar poté d’intorno scorse. -Ito se n’è pur, - disse – ed ha potuto me qui lasciar de la mia vita in forse? Né un momento indugiò, né un breve aiuto nel caso estremo il traditor mi porse? Ed io pur ancor l’amo, e in questo lido invendicata ancor piango e m’assido?

Pur in assenza di calchi diretti, la costruzione del brano, articolato sulla vana serie delle domande retoriche, nonché il risentito cordoglio del monologo ricordano l’eroina di Ovidio. Che Tasso conoscesse a fondo le

196 Heroides (e segnatamente la lettera di Arianna) è dato sicuro, come attesta un luogo ovidiano riproposto due volte, con leggera variatio, nella Liberata (XVI 48 5-6 e XX 132 1-4):

Me fra l’altre tue spoglie il campo veda ed a l’altre tue lodi aggiunga questa Certo è scorno al tuo onor, se non s’addita incatenata al tuo trionfo inanti

femina or presa a forza e pria tradita: quest’è ’l maggior de’ titoli e de’ vanti che riprendono Heroides X 129-130: Me quoque narrato sola tellure relictam: non ego sum titulis subripienda tuis.

Conversione finale di Armida

Alessandro Metlica, Armida davanti allo specchio. Modelli intertestuali nella Liberata.

((TEATRO)) Giungiamo dunque al canto XX. L’episodio è quello della riconciliazione tra Rinaldo ed Armida: scena per sua natura ambigua, data la durezza “ideologica” con cui la donna era stata respinta sulla spiaggia (…). Dopo il bagno di sangue che ha caratterizzato le prime 120 ottave del canto, l’atmosfera trapassa bruscamente ad un tono patetico quasi sorridente, da tragicommedia. Armida, fuggita dal campo di battaglia, giunge in una “chiusa opaca chiostra” (XX 122 7) dove annuncia, con un lungo soliloquio degno di un’aria di Metastasio, di essere pronta al suicidio; Rinaldo, disoccupato dopo aver compiuto il suo dovere di massacratore, la raggiunge appena in tempo per afferrarle il braccio, già levato nell’atto fatale, con un gesto anch’esso degno del palcoscenico. Su questa VIRATA MELODRAMMATICA ((e quindi ‘ovidiana’ nel senso di teatrale)) insistono sia Soldani sia Verdino ((cfr. A. Soldani, Canto XVII e S. Verdino, Canto XX, in Lettura della ‘Gerusalemme liberata’, a cura di F. Tomasi, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2005, pp. 415-449 e 499-515)). Il primo sottolinea come già il corteo di Armida al canto XVII sia improntato ad una suntuosa artificiosità, in stridente contrasto con la tradizionale severità del topos della rassegna bellica: assisa sul proprio carro, nel mezzo di una sfilata dal sapore carnevalesco, Armida sfoggia “una postura da damina di corte un po’ smorfiosa (…) vezzosamente contenta di interpretare il ruolo di Diana” ((Soldani, Canto XVII, cit., p. 439)). Verdino giudica il rapido trapasso di toni dell’episodio conclusivo una sorta di compensazione, per cui dagli aspetti più cruenti del conflitto si passa, in quello che può essere definito l’ultimo spazio centrifugo del poema (l’“opaca chiostra”, per l’appunto), ad un registro sentimentalmente denso ma garbato, elegante anche nelle proprie esagerazioni liriche.

Se dunque Rinaldo, dismettendo i panni del demone bellico per spargere lacrime “in cui pudica la pietà

sfavilla” (XX 134 4), finisce per fare una figura al limite del grottesco, Armida parrebbe terminare la sua METAMORFOSI IN EROINA OVIDIANA, moltiplicando i vezzi da prima donna e circondandosi di un’aria elegiaca. Il distico che chiude la scena (XX 136 7-8), però, assegna al personaggio un’ulteriore

identità, marcata peraltro da un inaspettato scarto verso l’alto, visto che il riferimento va (…) al Vangelo ((Luca I 38: si tratta della risposta di Maria all’angelo dell’Annunciazione (“Ecce ancilla Domini”))):

- Ecco l’ancilla tua; d’essa a tuo senno dispon, - gli disse – e le fia legge il cenno –.

(…) Sin qui Armida non è uscita dalla sua caratteristica zona di ambiguità, tanto che persino il progettato suicidio appare frutto di un calcolo: la donna spera, con la sua morte, di tormentare in eterno le notti di Rinaldo (XX 126). Già si è detto, inoltre, delle sue enfatiche pose da diva del palcoscenico (“tre volte alzò le luci e tre chinolle / dal caro oggetto, e rimirar no ’l volle”, XX 129 7-8). Ecco dunque che l’accostamento

197 alla Madonna sembrerebbe inopportuno, se non blasfemo; e infatti Tasso avrà cura di rimuovere l’intero brano non solo all’altezza della Conquistata, ma già nelle fasi di revisione della Liberata (…).

Facciamo però un passo indietro. Già al canto IV, nelle parole di lode di Eustazio, Armida assumeva sorprendentemente i contorni di una figura Mariae (IV 35 1-4 e IV 37 5):

-Donna, se pur tal nome a te conviensi, ché non somigli tu cosa terrena, né v’è figlia d’Adamo in cui dispensi cotanto il Ciel di sua luce serena Vergine bella, non ricorri in vano (…).

Una parziale anticipazione di questo tema si ha pure alla fine del canto XVI, durante la preghiera di Armida a Rinaldo (XVI 48 8 e XVI 49 1-4):

mostrando me sprezzata ancella a dito. Sprezzata ancella, a chi fo più conserva di questa chioma, or ch’a te fatta è vile? Raccorcierolla: al titolo di serva

vuo’ portamento accompagnar servile

dove la ripetizione di “ancella”, enfatizzata in coblas capfinidas, e la variante “serva” (cui fa eco il successivo “servile”) evidenziano come il modello della Vergine sia già presente, sebbene per ora venga lasciato sullo sfondo. Valga, a conferma di ciò, il proposito di Armida di tagliare i propri capelli, con un gesto dal significato quasi monacale.

Al solito, tuttavia, le parole di Armida sono ambigue. Anche Erminia si recide le chiome, volendo con esse medicare le ferite di Tancredi (XIX 112 5-8); ma la sua opera di curatrice è il punto d’approdo di un lungo apprendistato, che ha portato il personaggio, in particolare durante la sua sosta tra i pastori (VII 1-22), a comprendere la propria vocazione di “angelo del focolare”. Viceversa in Armida la mortificazione della propria bellezza conserva le sfumature di un’inquietante virilità: offrendosi a Rinaldo come “scudiero o scudo” (XVI 50 1) la donna lascia intendere che il taglio dei capelli, per lei, ha una valenza più androgina che claustrale.

A questo punto sarà utile un parallelo con la terza, grande figura femminile della Liberata, ovvero Clorinda (XII 65 3-8):

Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch’a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme:

virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella.

Vi è dunque una voluta simmetria tra le due vicende amorose, e di conseguenze tra le coppie Tancredi/Clorinda e Rinaldo/Armida. Ma se per Tancredi la trasformazione di Clorinda da amazzone a martire, pur rappresentando uno scacco, risolve le fila della storia e offre anzi una morale ((Tancredi riesce infatti a superare questa impasse psicologica grazie alla visione in cui Clorinda colloca la propria morte nel disegno della Provvidenza (XII 91-93). Vengono così poste le basi per un mutamento della relazione tra il principe cristiano ed Erminia, le cui chiome recise diventano simbolo di conversione e rinascita)), per Rinaldo l’esperienza d’amore si dimostra inutile, e così per Armida: nessuno dei due ne trae un reale insegnamento, neppure il paladino cristiano, che dopo aver scelto la strada delle armi ritorna goffamente sui

198 propri passi. Né risulta facile credere ad una fulminea quanto immotivata conversione di Armida, condotta su premesse cui Rinaldo allude nel modo più vago possibile (“(…) ed oh piacesse al Cielo / ch’a la tua mente alcun de’ raggi suoi / del paganesimo dissolvesse il velo”, XX 135 4-6).

Dovette accorgersene anche Tasso, che tentò di salvare in extremis l’ortodossia dell’episodio prospettando pure per Armida un passaggio da “rubella” ad “ancella”. Tuttavia gli innumerevoli modelli cui il personaggio s’ispirava – primo tra tutti quello ovidiano – non rendevano possibile una pacificazione tanto scontata; e Armida rimase nella sua zona d’ombra, quella in cui germogliano le più grandi invenzioni poetiche della Liberata.

Conversione finale di Armida: Armida come Vergine

Abstract dell’articolo di Metlica, pp. 288-289: L’eterogeneità dei modelli letterari cui guarda il Tasso nella

Liberata è un dato largamente acquisito dalla critica. Nel personaggio di Armida tali materiali si stratificano in modo complesso: se i moduli petrarcheschi subiscono un trattamento “ingegnoso”, i riferimenti classici possono dare origine a veri e propri cortocircuiti intertestuali. La contaminazione delle fonti permette infatti una loro completa riqualificazione, che sfocia talvolta nello straniamento del topos. Mancando un’ortodossa reductio ad unum, l’imitazione tassiana finisce, quasi paradossalmente, per arricchire il personaggio di tratti sorprendenti e originali. Ciò è evidente, ad esempio, nel tema dello specchio: i vezzi da narcisista di Armida ne fanno dapprima un’eroina ovidiana e poi, dissolta bruscamente l’atmosfera “da melodramma” del canto XX, una ‘figura Mariae’. Nella mancata pacificazione ideologica della fabula, vero punto di rottura tra Liberata e Conquistata, l’intarsio delle citazioni ricopre dunque un ruolo tutt’altro che marginale.

ARMIDA / PROTEO sconfitta nella Conquistata

Francesco Ferretti, Narratore notturno. Aspetti del racconto nella Gerusalemme Liberata, Pacini, Pisa…, parte I Verosimiglianza, par. I.3 Canonizzare Proteo, pp. 205-222.

Quando Tasso, a seguito della revisione romana, si allontanerà, con la Conquistata, dalla concezione aristotelica di poesia che lo aveva guidato ai tempi della Liberata, proprio al centro del poema riformato (canti XII-XIII) allestirà, come ha mostrato Residori ((Armida e Proteo, cit.)), un grande duello a distanza fra il nuovo mago d’Ascalona (Filagliteo) e Armida. Si tratta di un conflitto metapoetico fra la nuova poesia sapienziale, la poesia del vero teologico, unico e immutabile, adatta a pochi lettori “dottissimi e intendentissimi” (Filagliteo), contro la poesia cortigiana del diletto e dell’“applauso della moltitudine”, la poesia del verisimile ingannevole e camaleontico pensata sì anche per gli intendenti, ma soprattutto per i cavalieri e i cortigiani (Armida). Tramite questo duello crudele, alla fine del quale Armida resta incatenata come Proteo e viene abbandonata, per mai più ricomparire, in un paesaggio desolato di “arsi cipressi” e “fulminati faggi”, la Conquistata affermerà se stessa e la propria novità teologica dentro al corpo del primo poema. Armida-Proteo – immobilizzata da Ruperto e Araldo con una catena di topazio, allegoria di pudicizia fornita loro da Filagliteo – sarà così la vittima sacrificale della nuova poetica sapienziale del Tasso sopravvissuto al trauma della revisione romana. (…) nella seconda Gerusalemme Tasso aderisce al vero delle cronache e delle descrizioni geografiche della Terra Santa e caratterizza scrupolosamente il fascino proibito di amori e incanti, ossia quel Proteo multiforme che si annida nelle pulsioni individuali dei “compagni erranti”, e dei lettori inclini a identificarsi con loro. (…) solo mettendo a fuoco la posizione di Tasso, sospeso fra autocensura e apologia della finzione profana, si riescono a interpretare alcune clamorose espunzioni decise dal poeta fra il 1575 e il 1576 (…). Clamorosa fra tutte è l’espunzione della riconciliazione di Rinaldo e Armida, finale primo (o romanzesco) del poema, concomitante e parallelo al finale secondo (epico) di Goffredo inginocchiato al tempio. (…) Il finale romanzesco tornava a vagheggiare, per l’ultima volta e in posizione di sfacciato rilievo, l’utopia di una riconciliazione fra dovere cristiano e piacere profano, fra il dovere del crociato Rinaldo e la felicità promessa da Armida, che a quel dovere era stata sacrificata, ma non per sempre, nel canto XVI. Quel finale (…) tornava a “riempire le carte di sogni”; tornava a istigare quel principio (petrarchesco) di piacere, dolcemente doloroso, che Tasso adombra nel criterio di una “semplice

199 verisimilitudine” al servizio della “sodisfation de’ lettori”. (…) L’ago della bussola che aveva guidato Tasso sino a quel punto, la “sodisfation de’ lettori” come strumento di conoscenza morale, si stava ormai smagnetizzando.

Armida come Circe e Proteo

Giorgio Bàrberi Squarotti – Sergio Zatti, Ludovico Ariosto – Torquato Tasso, Marzorati-Editalia…, pp. 247 sgg.

Armida è non a caso l’artefice di questo mondo ((ossia, del suo giardino)): la sua sprezzatura è calcolata spontaneità, studiata negligenza che fa apparire prodotto di natura ciò che invece è frutto di calcolo. In tal senso lo statuto del personaggio trova un perfetto equivalente ambientale nella aemulatio di arte e natura che caratterizza lo scenario del giardino (XVI, 9-10) da lei magicamente creato. Esprimendo l’universo della molteplicità e della metamorfosi continua, la donna-maga appare nella Gerusalemme come l’artefice consapevole della trasformazione e del mutamento: è ad un tempo Circe (che agisce sull’identità altrui, IV 86 e X 66) e Proteo (che agisce sull’identità propria, V 63), è infine, soprattutto, Narciso (XVI 38). In Armida si congiungono i due estremi opposti, la suprema grazia della donna e l’orrida ripugnanza del mostro (il piacere e la colpa, la lusinga e l’orrore): la stessa bellissima creatura che ha affascinato Rinaldo nel giardino ricompare fra i tronchi della selva incantata in forma di mostruoso gigante (XVIII 35). Il suo teatrale erotismo di veli e manti, dispiegato in vista di un’accorta strategia di seduzione, rinvia ambiguamente, con il suo complemento di scudi e di specchi, anche al codice contemporaneo della (dis)simulazione divenuto ormai centrale nella trattatistica di corte. (…)

Armida-Proteo e Narciso L’OTTAVA 66 del canto XIV.

L’ottava 66 del canto XIV, assieme alla successiva ottava 67, è centrale per il nostro discorso: si riportano qui di seguito entrambe le ottave, precedute dal distico finale dell’ottava 65:

Esce d’aguato allor la falsa maga e gli va sopra, di vendetta vaga.

Ma quando in lui fissò lo sguardo e vide come placido in vista egli respira, e ne’ begli occhi un dolce atto che ride, benché sian chiusi (or che fia s’ei li gira?), pria s’arresta sospesa, e gli s’asside poscia vicina, e placar sente ogn’ira mentre il risguarda; e ’ n su la vaga fronte pende omai sì che par Narciso al fonte. E quei ch’ivi sorgean vivi sudori accoglie lievemente in un suo velo, e con un dolce ventillar gli ardori gli va temprando de l’estivo cielo. Così (chi ’l crederia?) sopiti ardori d’occhi nascosi distermpràr quel gelo che s’indurava al cor più che diamante, e di nemica ella divenne amante.

Le ottave mirabilmente rappresentano una delle numerose metamorfosi di Armida, una metamorfosi in questo caso che la coinvolge in prima persona (dunque il modello è qui più Proteo che Circe), una

200 metamorfosi di sé, quindi, e non agita (come nel caso della trasformazione di sé in base ai tipi psicologici degli spasimanti del canto IV), ma piuttosto subìta e involontaria.

Armida si innamora: Armida si innamora sinceramente di Rinaldo, e così ‘di nemica ella divenne amante’, prima trasformazione –questa – dei sentimenti nutriti nei confronti di Rinaldo (dopo l’abbandono da parte di Rinaldo l’amore si tramuterà nuovamente in odio, e in conclusione l’odio sarà nuovamente vinto dall’amore): Armida, desiderosa di vendicarsi su Rinaldo per la sua operazione di liberazione dei crociati, ne resta soggiogata a livello sentimentale (da nemica di Rinaldo ne diventa amante).

Inoltre, Armida subisce un passaggio trasformativo anche in un altro senso: e cioè passa dall’esercizio di un potere seduttivo attivo all’esperienza passiva di un potere seduttivo altrui involontario; da colei che fa innamorare di sé, e con strategie seduttive accorte, diviene l’innamorata, acquiusta tale ruolo, quasi replicando – in tutto alto contesto e con altro significato – il mito ovidiano di Atteone, che da cacciatore diviene cacciato, da predatore diventa preda, finendo per l’essere sbranato dai suoi stessi cani (Armida da ‘cacciatrice’ diviene preda del fascino di Rinaldo.

Un passaggio trasformativo intimamente connesso a questa metamorfosi è la scomparsa dell’ira (‘placar sente ogn’ira’), cioè la scomparsa del proposito vendicativo nei confronti di Rinaldo.

Un’altra memoria ovidiana (oltre a quella, tutta implicita e magari solo appena accennata, al mito di Atteone e a quella, più generale e generica, della descrizione di un movimento metamorfico, ma tutto psicologico e interiore, molto diverso quindi dalle metamorfosi esteriori e fisiche di stampo ovidiano) è quella, esplicita, connessa, al nome e al mito di Narciso: Armida resta sospesa ad ammirare il volto di Rinaldo come Narciso mentre si rispecchia al fonte (‘e ’n su la vaga fronte / pende omai sì che par Narciso al fonte’): Armida ama, ama con ogni probabilità sinceramente Rinaldo, ma Rinaldo per Armida non può che essere uguale a se stessa, coincide con se stessa; in altri termini, cioè Armida ama se stessa piuttosto che Rinaldo, ama l’Identità piuttosto che l’Alterità; guarda (a) Rinaldo come (a) se stessa: in questo senso, Armida è esattamente come Narciso in quanto il suo amore è sempre egoistico, freudianamente parlando per l’appunto ‘narcisistico’: quando Tasso scrive ‘par Narciso al fonte’, è evidente allora che il riferimento non è semplicemente e solamente alla posa plastica di Armida che si protende sul corpo dormiente di Rinaldo, ma alla caratura ‘narcisistica’, alla natura psicologica profonda di Armida che è sostanzialmente assimilabile al prototipo archetipico del Narciso ovidiano.

E si noti, tra l’altro, che Armida è assimilabile a Narciso almeno doppiamente perché oltre a volgersi, in queste ottave, verso Rinaldo come Narciso al fonte, guardando il crociato sostanzialmente come un riflesso di se stessa, sarà presentata dal poeta nel XVI canto al centro di un complesso gioco di sguardi e di specchi, in cui il rapporto sentimentale si scoprirà assolutamente sbilanciato in quanto i due amanti non si guarderanno a vicenda, ma contempleranno entrambi lo stesso individuo, ossia Armida stessa (il motivo dello specchio, dello specchiarsi, dello specchiamento quindi tornerà nel XVI canto a certificare e ratificare la natura ‘narcisitica ‘ di Armida e quindi la caratura ovidiana del personaggio).

Si notino come effetti metamorfici connessi alla più generale metamorfosi di cui si sta dicendo, il fatto che il gelo del cuore di Armida più duro di un diamante si scioglie alle fiamme nascoste dagli occhi chiusi di Rinaldo (‘sopiti ardori / d’occhi nascosi distempràr quel gelo / che s’indurava al cor più che diamante’) e, nell’ottava successiva (68), la composizione da parte della maga di catene per imprigionare il suo nuovo prigioniero, catene di fiori del tutto diverse da quelle effettive e di stampo militare con cui aveva imprigionato precedentemente gli altri cristiani: anche le catene dunque, si potrebbe dire, subiscono un processo metamorfico conforme al nuovo tipo di prigionia praticata da Aramida (68, 1-6: ‘Di ligustri, di gigli e de le rose / le quai fiorian per quelle piaggie amene, / con nov’arte congiunte, indi compose / lente ma tenacissime catene. / Queste al collo, a le braccia, a i piè gli pose: / così l’avinse e così preso il tiene”.