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Francesco Ferretti, «Naturae ludentis opus». Le Metamorfosi di Ovidio nella Gerusalemme liberata Corrispondenze allegoriche di tipo ovidiano emergono (…) anche nell’evocazione del cinto magico di Armida, simbolo del fascino femminile. Sul tronco omerico dell’ ́ιµάς afrodisiaco di Iliade XIV 214-221, composto di “piacere, desiderio e amorevole lusinga” e da una lunga tradizione (dal Plutarco del De audiendis poetis, ben noto a Tasso, fino a Francesco Patrizi) interpretato allegoricamente, il poeta innesta un fantasmagorico elenco di voluttà. Il corpo nudo della donna viene circondato di immagini, rarefatte e sensuali, che, anziché descrivere, traspongono in figure il mondo evanescente che avvince Rinaldo (XVI 24- 25). Quel mondo che si dissolverà in un soffio al termine dell’idillio, “come sogno se ’n va ch’egro figura” (XVI 70 4):

Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra che né pur nuda ha di lasciar costume. Diè corpo a chi non l’ebbe; e quando il fece, tempre mischiò ch’altrui mescer non lece. Teneri sdegni e placide e tranquille repulse, e cari vezzi, e liete paci, sorrise parolette, e dolci stille

di pianto, e sospir tronchi e molli baci: fuse tai cose tutte, e poscia unille ed al foco temprò di lente faci, e ne formò quel sì mirabil cinto di ch’ella avea il bel fianco succinto.

170 Ma nell’elenco irreale risuona, ancor più che Omero, la musica notturna di Tisifone intenta a preparare il veleno con cui accecare la mente di Atamante e Ino in Met. IV 500-505. È un caso di imitazione- capovolgimento, che trasforma le velenosa essenze della furia ctonia in forme ludiche e seducenti (…): Attulerat secum liquidi quoque monstra veneni,

oris Cerberei spumas virus Echidnae

erroresque vagosque caecaeque oblivia mentis et scelus et lacrimas rabiemque et caedis amorem omnia trita simul, quae sanguine mixta recenti coxerat aere cavo, viridi versat cicuta.

Il cinto, il più prezioso dei “fregi” di Armida, deve dunque non poco alle Metamorfosi. Se nella sagoma è omerico, è ovidiano nel tessuto. È d’altra parte quanto di più simile offre il testo epico – “la testura della favola” (secondo l’icastico termine tecnico usato da Tasso) – ai “fregi” confessati nel proemio (I 2-3). Esattamente come la maga anche l’autore infatti, il creatore del “picciolo mondo” fittizio, tesse inganni sul corpo nudo della verità imitata; “finge” per lusingare il lettore e, come Armida, “dà corpo a chi non l’ebbe”, mescolanso in un’illecita “varietà” apparenza e verità.

Su Medea, cfr. Elisabetta Mengaldo, Medea, pp. 339-375, in Pietro Gibellini (ed.), Il mito nella letteratura italiana, V / 2 Percorsi. L’avventura dei personaggi, a cura di Alessandro Cinquegrani, Morcelliana, Brescia…

Sulle Sirene, cfr. Sara Canzian, Sirene, pp. 473-503, in Pietro Gibellini (ed.), Il mito nella letteratura italiana, V / 2 Percorsi. L’avventura dei personaggi, a cura di Alessandro Cinquegrani, Morcelliana, Brescia…

Armida come Circe

BRUNO CAPACI, La metamorfosi della strega. I volti mostruosi e umani della passione, in Le Metamorfosi di Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, a cura di Gian Mario Anselmi e Marta Guerra, Gedit, Bologna 2006, pp. 201-213:

Armida è un’idea di Satana. La sua apparizione in scena si deve ad un consiglio che l’angelo inquo volle dare ad Idrate, re mago di Damasco (p. 202) affinché: ‘altri in cure d’amor lascive immerso / idol si faccia un dolce sguardo e un riso’.

Armida è un’eroina ipersensibile, una seduttrice accorta e in qualche modo solitaria, un’amante sventurata, una giovane vecchia, un mostro dell’inferno, un gigante terribile (la falsa Armida) che agita davanti al suo amante le cento braccia di Briareo.

Ma è costretta a scoprire la propria umanità. Nell’ultima battaglia campale della Gerusalemme, Armida cento volte vuole e disvuole che le sue frecce colpiscano Rinaldo, incerta come amante, sofferente come donna. Anche quando il dardo è stato lanciato, la sua volontà viene contraddetta da una passione senza ragione.

Armida nasce forse all’inferno ma è una donna del Rinascimento inquieto: guerriera, cortigiana, maga e disperata quando la vita vuole che lo sia. Inoltre è solitaria come sono le ninfe del mito, come lo è Eco, come lo è Calipso, come lo è l’oscura, temibile e sapiente Circe. ((ARMIDA come ECO, come CALIPSO, come CIRCE)). E per Tasso?

Prima di tutto però si deve ricordare che Armida è uno strumento della macchina narrativa della Gerusalemme Liberata, capace di portare (sedurre) le sue consenzienti vittime dall’epos all’eros, dove si trova il suo mondo che non c’è ((ALTRA METAMORFOSI, quella dei cavalieri sedotti da Armida: DALL’EPOS ALL’EROS)). Leggero è quel suo trasvolare tra gli sguardi dei crociati per approdare nella loro mente ((DAGLI OCCHI ALLA MENTE: altro ‘passaggio’ topico almeno dalla poesia cortese in poi)).

171 Se dell’Angelica ariostesca colpiva l’agilità della fuga, attuata nell’istantaneo involarsi dalle ambizioni concupiscenti della gente in arme per lei (islamici o cristiani che fossero), impressiona di Armida la grazia con la quale si avvicina alle sue vittime, inibendo all’istante la loro capacità di autodifesa. Armida è regina pagana delle apparenze in un poema dove l’incostanza della rappresentazione, la mutevolezza degli scenari, l’illusione di quanto accade hanno un valore metafisico, piena espressione dell’ispirazione tassiana, ispirata dallo scontro tra il bene e il male nel teatro privilegiato della coscienza.

La METAMORFOSI DELLA NATURA non è uno sfoggio virtuosistico della Gerusalemme, bensì ne rappresenta il centro, stabilito dal contrasto tra le opposte forze dell’universo, tra Dio e la sua contraffazione luciferina. Essa sottintende sempre un ASPETTO TRAGICO, in quanto vivere o morire al peccato significa in qualche modo cambiare natura, così come Clorinda pare trasformarsi nell’atto della morte, dopo il battesimo ricevuto da Tancredi.

Considerando poi come l’incrocio tra la dimensione pagana e quella della natura redenta rappresenti uno dei punti focali del poema, (p. 203) la forza evocativa delle Metamorfosi di Ovidio ((per quanto riguarda la rielaborazione del mito greco operata da Ovidio, soprattutto per ciò che concerne la descrizione dei caratteri e il gusto pittorico delle metamorfosi, si dovrà ancora leggere C. SEGAL, Ovidio e la poesia del mito, saggi sulle Metamorfosi, Marsilio, Venezia 1991)) potrebbe riemergere proprio all’altezza del personaggio di Armida, che è, per tanti motivi, quello più ovidiano del poema di Tasso e non soltanto per l’intrico libertino della sua complessa vicenda.

Ci accompagna in questo percorso, e non potrebbe essere altrimenti, il noto ed importante saggio di Antonio La Penna, intitolato Aspetti della presenza di Ovidio nella Gerusalemme Liberata, dal quale Capaci dice di aver assunto fondamentalmente due idee:

1. la prima indica la fruizione del tema erotico ovidiano, anche come riflesso dell’Ars Amatoria riverberato nel personaggio di Armida;

2. la seconda propone l’accezione della stessa Armida come nuova maga Circe, anticipata nello studio di La Penna da osservazioni acute, forse suscettibili di una nuova rivisitazione, se non di un ulteriore approfondimento, proprio a partire dall’originale apporto delòle Genealogie deorum gentilium di Giovanni Boccaccio.

Tuttavia, scopo del suo intervento, dice Capaci, vorrebbe essere soprattutto l’analisi retorico-antropologica del personaggio di Armida alla luce della sua fonte classica. Essa non riguarda solo Circe, ma ripercorre il mito della ninfa o dea infelice, ben introdotto dal concorso di numerose presenze delle Metamorfosi.

Circe, figlia del sole Iperione, è una maga ed una donna nello stesso tempo, vive solitaria su un selvaggio promontorio del mar Tirreno, ma deve riconoscere – quando le si presentino affascinanti visitatori come Glauco e Ulisse o veda Pico impegnato nella caccia – tutta la forza di Afrodite e, allo stesso tempo, l’incompletezza della sua esistenza. Proprio il nevrotico e disperato tritare erbe amare da mescolare nelle pozioni traduce il senso di uno smacco erotico che fa della maga non solo un’interprete esoterica della natura, ma, soprattutto, una donna ferita e altamente vendicativa. Donna e Nemesi, Circe non sa spiegarsi come il meraviglioso Glauco possa soffrire il rifiuto di Scilla, senza cogliere la generosa offerta della sua femminilità divina (Ov. Met. 14, 25-36): (p. 204)

At Circe (neque enim flammis habet aptius ulla talibus ingenium, seu causa est huius in ipsa seu Venus indicio facit hoc offensa paterno) talia verba refert: «Melius sequerere volentem optantemque eadem parilique cupidinem captam. Dignus eras ultro, poteras certeque, rogari

et, si spem dederis, mihi crede, rogarebis ultro. Non dubites adsitque tuae fiducia formae, en ego, cum dea sim, nitidi cum filia Solis

172 ut tua sim voveo. Spernentem sperne, sequenti

redde vices unoque duas ulciscere facto’.»

Dea dagli amori repentini e violenti, Circe è, tuttavia, galante e ragionevole nel proporsi facendo osservare al tumido dio delle acque che la sua bellezza può conquistargli una donna migliore dell’ostinata Scilla. Perché non cercare più vicino? Non ha capito che la sua “solare” interlocutrice si sta offrendo al posto dei filtri d’amore richiesti? Proprio lei, profonda conoscitrice dei carmi ecatei e perfetta intenditrice di erbe e radici, può essere sua.

L’offerta di Circe è lusinghiera e ragionevole, oltre che appassionata, e sembra riecheggiare il motto “fallite fallentes” dell’Ars Amandi (Ov. ars. 1, 645), proprio nell’imperativo “sperne spernentem” con il quale si fa leva sull’orgoglio virile di Glauco, che dovrebbe risollevarsi così dalla condizione di amante dispregiato, cogliendo un importante successo amoroso nel talamo della dea, violato solo da Ulisse.

Ma così non succede, perché Glauco parla il linguaggio delle passioni assolute e risponde alla eloquente proposta della figlia del sole con uno spavaldo adynaton che pretende il mare ricoprirsi di fronde e le montagne di alghe, prima che egli dimentichi Scilla: vuol dire che non si innamorerà mai di lei. Ora la dea non è più serena e, come Glauco, risulta accecata dall’amore. Poiché le sue passioni non sono prive di tossiche conseguenze, Circe reagisce allo smacco tuffandosi nella sua occupazione preferita: preparare miscugli malefici e sussurrare terribili formule. Non sono passati pochi istanti dalla risposta “nervosa” di Glauco che Circe appare in veste cerulea tra le sue orribili fiere e corre, anzi vola, verso Reggio per infettare le acque prospicienti la grotta di Scilla e per trasformare il suo meraviglioso corpo in quello di un mostro, così da privare per sempre Glauco dell’immagine della sua amata, rendendo nel contempo estremamente impegnativo il suo adynaton superbo. Altre volte, l’azione malefica è più veloce ed istantanea e colpisce il diretto interessato, trasformato immediatamente in un uccello come avviene di Pico, bello e impossibile. È all’interno di una scena di caccia che questo succede. Circe raccoglieva le sue erbe malefiche quando, vedendo Pico al galoppo con il suo mantello di porpora stretto da una fibbia, si innamorò subito e a tal punto da far cadere le erbe e da creare lì per lì l’immagine di un falso cinghiale sul quale si avventa il cacciatore, inconsapevole di essere, proprio in quel momento, diventato una preda. Colpisce di questo splendido fraseggio ovidiano il contrasto tra gli oscuri inviti destinati agli dei non noti e le parole d’amore terse che Circe rivolge al ragazzo, finalmente isolato nella oscura selva e reso, contro la sua volontà, disponibile al colloquio (Ov. Met. 14, 372-376) (…)

Proprio su Circe, come su Psiche – ed è Boccaccio a dirlo ((Genealogie Deorum Gentilium, a cura di V. Zaccaria, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, voll. VII-VIII, Mondadori, Milano 1998, p. 401)) – pesa la maledizione di Afrodite che ne fa una predestinata alla sofferenza amorosa, d’altra parte il suo essere “chironere” la pone sotto il segno dell’azione, opposta sia all’immobilità lasciva delle sue rivali sia alla cecità emotiva (si pensi all’etimologia greca del nome Glauco che significa miope) dei suoi amati. Circe è condannata ad agire, evocando un inferno di funeste presenze contro chi la dispregia, allo stesso modo in cui Armida si rivolgerà all’inferno una volta abbandonata da Rinaldo. (…)L’archetipo di Circe risulta dunque, una volta riletto con Boccaccio, quello più suscettibile di confronti con il personaggio di Armida per i comuni attributi di ninfa malinconica e sognante, donna seduttiva, strega portentosa, amante ferita e abbandonata.

Armida come Eco, Mirra e Scilla

BRUNO CAPACI, La metamorfosi della strega. I volti mostruosi e umani della passione, in Le Metamorfosi di Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, a cura di Gian Mario Anselmi e Marta Guerra, Gedit, Bologna 2006, pp. 201-213:

Ma Circe non è la sola fonte del mito ovidiano che giunge a Tasso rinsaldando l’archetipo della giovane donna, bella e infelice e infine rigettata dagli uomini amati, perché le Metamorfosi ne hanno altri esempi, solo che in questi casi la trasformazione avviene ai danni delle infelici protagoniste di una passione non corrisposta.

173 Il mutamento di natura è quasi necessario e testimonia un’esperienza traumatica che rende impossibile la permanenza nello stato primitivo. Sappiamo come Eco, ninfa comunicativa e loquace, solita salvare le concubine di Giove dalla gelosia di Giunone con le arti della sua parola, diventi, una volta innamorata di Narciso, una roccia. Così si testimonia lo stato di pietrificazione psicologica, di stupore ossessivo che prende il posto della identità precedente. La parola diviene, per maledizione divina e amorosa, un’eco dolorosa che rimbomba nel cuore. Si sa come Mirra, dopo l’amplesso con il padre Ciniro, si muti in un mirto dalla cui corteccia nacque Adone, figlio dell’incesto, ma padre di tutte le grazie che lusingheranno Afrodite. Esiste poi un’altra Scilla, figlia di Niso re di Megara, il cui sfogo contro Minosse appare costruito con grande ricorso alla vituperatio. Ella ha reciso per lui il crine purpureo del padre, togliendogli nello stesso tempo la vita e il regno. Ma Minosse, atterrito dall’atto empio, sebbene vantaggioso, rifiuta il dono e l’implicita offerta d’amore di chi ritiene indegna di far salire sulla sua nave e di accompagnarlo nel viaggio verso Creta. Inorridito ricorre alle maledizioni rituali: “Di te submoveant, o nostri infamia saecli” (Ov. met. 8. 97). Scilla come molte ninfe, come la stessa Armida, come Calipso, si trova sulla riva del mare ad assistere alla frettolosa partenza di un uomo al quale ha regalato un mondo e al quale aveva sacrificato la stessa pietas domestica, ma da cui aveva ricevuto una tardiva, quanto sdegnosa, riprovazione morale.

Non c’è dunque più tempo per le mediazioni perché all’eroe che fugge, dimostrandosi indegno delle due conquiste, non può essere risparmiato nulla, anche i dubbi su chi fossero i veri genitori. Viene così rovesciato da un’infuriata e disperata Scilla il topos epidittico degli antenati illustri (Ov. Met. VIII 120-125):

Non genetrix Europa tibi est, sed inhospita Syrtis Armeniae tigresque austroque agitata Charybdis! Nec Jove tu natus, nec mater immagini tauri ducta tua est: generis falsa est ea fabula: verus et ferus et captus nullius amore iuvencae qui te progenuit, taurus fuit (…).

Nemmeno Pasifae, la moglie di Minosse con qualche inclinazione per i congiungimenti bestiali, viene risparmiata da Scilla che, prima di gettarsi in mare ed aggrapparsi alla poppa della sua nave (Ov. Met. VIII 136-137): ‘Iamiam Pasiphaën non est mirabile taurum / praeposuisse tibi: tu plus feritatis habebas’. L’amore rigettato ha una potenza accorata e gestuale che trasforma le ninfe in attrici di un melodramma amoroso o in eroine di una scena in cui il silenzio vale come la parola, sebbene questa alimenti una fondamentale reticenza che solo il gesto riesce a tradurre. Così ritornano in mente l’immagine di psiche abbracciata alle ginocchia di Amore, quella della solitaria Eco vagante nella foresta e quella di Armida protesa nel rincorrere Rinaldo sulla riva dell’isola, ammonendolo di prendere lei o di lasciarle la sua anima che, comunque, lo avrebbe seguito nel viaggio.

Il gesto amoroso è uno slancio ossimorico rispetto alle frasi soggiunte in precedenza e rappresenta un’insanabile condizione di contraddittorietà personale tra il desiderio di allontanarsi e quello di restare nel luogo e nel tempo in cui si ama. Allora e solo allora interviene la metamorfosi della protagonista per sanare una situazione di sofferenza ((a questo proposito C. Segal nel citato Ovidio e la poesia del mito (p. 23) parla di una sofferenza presente nelle Metamorfosi in modo caotico ed opprimente)) e antitesi intima, ormai insostenibile per gli stessi dei che, spettatori della scena, regalano alla loro vittima un’altra forma vitale. Tuttavia questo nuovo corpo è anche il ricordo perpetuo di quanto è accaduto, il segno di un dolore insostenibile, di una dannazione eterna, senza che esista il senso del peccato. (….)Armida corre alla spiaggia per richiamare con tutte le sue arti l’amante alla dolce prigionia e, in un secondo tempo, dopo essersi proclamata sua ancella, lo maledice per l’infausta partenza, non meno di quanto avesse fatto Scilla con Minosse