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Università di Bologna

Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’economia Email: giulia.ganugi2@unibo.it

Abstract

Questo contributo si inserisce nel dibattito sulle trasformazioni della governance urbana, presentando il fenomeno italiano delle Social Street che, perseguendo l’obiettivo della socialità, riesce a riavvicinare i cittadini alla cura degli spazi pubblici. La città viene qui considerata come bene comune che, per essere regolato, necessita di una comunità locale attiva. Parallelamente, il riconoscimento dell’agency dei cittadini contribuisce al passaggio a una cittadinanza conseguita attivamente dagli individui stessi, l’inclusione dei quali nelle dinamiche di policy sta portando a una trasformazione delle forme di governance. Viene anche presentata la metodologia della ricerca in corso che, analizzando tre Social Street, guarda al potenziale innovativo di questa recente pratica di vita urbana. Obiettivo del progetto è valutare le influenze dei gruppi sul senso di appartenenza dei cittadini alla comunità locale e sulla governance delle città.

Parole chiave: community, citizenship, governance.

Introduzione

La città è da sempre considerata una promessa di emancipazione economica e politica, lo spazio naturale delle libertà civiche. Rappresenta la possibilità dell’autogoverno, il luogo di integrazione e anche la libertà dalle coazioni delle comunità locali. Tuttavia, riprendendo Park e Burgess, la città è uno spazio di individualizzazione a cui dobbiamo la maggiore produttività economia e culturale, ma anche lo scenario in cui si danno appuntamento tutte le patologie della società moderna. Gli abitanti stessi della città vi depongono speranze opposte: deve essere patria e macchina, luogo di anonimato e identificazione; deve costituirsi come uno spazio di indifferenza, ma anche di riconoscimento (Park & Burgess, 1925). Autori come Simmel e Goffman, analizzando la vita in città, hanno riscontrato nella «disattenzione civile», nell’indifferenza e nella distanza modelli di interazione frequenti (Goffman, 1963; Simmel, 1995). A seguito dei processi di urbanizzazione e globalizzazione, la città ha poi subito numerose trasformazioni e gli spazi tradizionali di socializzazione extra-familiare hanno perso le loro peculiarità, sostituiti da locali di semplice intrattenimento o da quartieri dormitorio. Il consumismo, il turismo e l’industria culturale sono diventati aspetti fondamentali dell’economia politica urbana; la qualità della vita nelle città è diventata una merce e si è assistito a una proliferazione di «non-luoghi»: spazi di transito con la prerogativa di non essere identitari né relazionali, bensì anonimi, con l’unica funzione di accrescere il desiderio di consumo o di accelerare le pratiche quotidiane (Augè, 1992). Lo sviluppo della società in rete, inoltre, ha potenziato lo spazio dei flussi a discapito dello spazio dei luoghi (Castells, 2008), risultando in uno scollamento delle pratiche sociali dallo spazio fisico. In questo modo, le città attuali sono configurate come insiemi di frammenti, spazi pubblici privatizzati e siti monofunzionali, che hanno causato lo «sfarinamento dei luoghi» (Becattini, 2015: 129): il legame tra luoghi e individui è andato perduto; questi ultimi hanno dimenticato la loro capacità di prendersi cura e di riprodurre il territorio, inteso come ambiente di vita personale e della comunità locale.

In questo contesto, l’esperienza qui presentata si pone come risposta a rinnovati bisogni di socialità e collaborazione all’interno della città e di (ri)appropriazione degli spazi pubblici da parte della comunità locale, mostrando come la dimensione comunitaria del vivere insieme in città sia tutt’altro che persa, semplicemente trasformata (Blokland, 2017).

Le Social Street

Le Social Street – d’ora in avanti SoSt – sono gruppi di vicinato informali, nati con l’obiettivo di far conoscere i vicini di casa grazie a relazioni di semplice socialità. Il primo gruppo nasce nel settembre 2013, inizialmente su Facebook, con il nome “Residenti in Via Fondazza – Bologna”. La scelta del social network è stata fatta per non risultare troppo invadente, raggiungere più persone contemporaneamente e provare a vincere la diffidenza che talvolta emerge nell’avvicinare una persona sconosciuta lungo la via o le scale del

palazzo. Facebook, come altri Social Network Sites (SNS), tipicamente serve da supporto virtuale per consolidare relazioni sociali preesistenti nella dimensione reale (Boyd & Ellison, 2007), ma in questo caso diventa strumento per facilitare la comunicazione tra persone prima sconosciute e supportare la creazione di nuove relazioni nel mondo offline. Per questo le Social Street sono state anche definite «comunità ibride» (Cabitza Scramaglia, Cornetta & Simone, 2016), in cui il costante interscambio tra dimensione virtuale e dimensione reale sviluppa forme di networked sociability, relazioni supportate dalle tecnologie della comunicazione, non limitate entro questo ambito ristretto ma reciprocamente includentesi (Castells, 2008; Jurgenson, 2012).

Oggi si contano circa 400 SoSt, che condividono lo stesso principio: «l’obiettivo delle SoSt è quello di socializzare con i vicini della propria strada di residenza. Non devono esserci finalità di lucro ma solo finalità sociali. La SoSt non porta avanti nessuna visione politica, religiosa, ideologica di alcun tipo, raggruppa le persone con l’unico criterio della vicinanza fra residenti nell’area» (www.socialstreet.it). La socialità è l’obiettivo principale da raggiungere, il valore attorno a cui ruotano tutte le attività organizzate: in questo senso, esso richiama il concetto di socievolezza, in quanto processo di «sociazione» che diventa un valore e un bene in sé stesso (Simmel, 1997). Gli altri due principi fondanti del fenomeno sono la gratuità e l’inclusione. Il dono è il mezzo di interscambio più usato dai membri, in quanto implicando riconoscenza, permette di attivare circuiti di reciprocità e fiducia (Prandini, 1998): i beni e i servizi donati, infatti, acquisiscono un «valore di legame», in cui il legame tra chi dà e chi riceve supera il valore del bene in sé (Godbout 1993: 219; Calliè 1998: 80). Per quanto riguarda l’inclusione, ogni gruppo mira alla partecipazione di tutti, indipendentemente dall’appartenenza etnica, politica religiosa. Perché la socievolezza sia pura deve, infatti, basarsi sull’interazione più autentica e trasparente, quella tra eguali (Simmel, 1997). Infine, la strada diventa un ulteriore fondamento dell’esperienza: le relazioni nate online e sviluppate, poi, nel quotidiano reale hanno un confine spaziale dato dalla strada; confine che, nella pratica, contribuisce a formare un’identità collettiva e condivisa da tutti i membri del gruppo, destrutturando qualunque altro tipo di appartenenza e (ri)collegando i cittadini sia ai loro vicini di casa sia all’area urbana di cui fanno esperienza quotidianamente.

La città come bene comune

Nonostante la socialità rimanga l’obiettivo primario delle SoSt, grazie alla nascita di nuove relazioni e alla partecipazione alla vita della comunità locale, i membri sviluppano un maggiore interesse verso il territorio stesso, riappropriandosi attivamente degli spazi pubblici. Processo che si riflette sia in piccoli gesti quotidiani, come mantenere pulita la strada o impiegare il doppio del tempo per percorrerla, sia in cambiamenti fisici duraturi, come l’installazione di piccole librerie di book-crossing o di panchine, orti e fioriere. Questo legame è, in realtà, intrinseco al significato stesso di luogo come spazio arricchito di significati: il territorio, infatti, è un prodotto dell’uomo, un soggetto vivente e un modo di co-operare al fine di creare un contesto in grado di moltiplicare le risorse comuni (Prandini, 2014; Magnaghi, 2015). In questo senso, gli spazi pubblici possono venire considerati beni comuni funzionali al benessere della comunità locale e alla qualità della vita urbana (Iaione, 2015). La letteratura sui beni comuni – commons (Ostrom 1990; Arvanitakis, 2006; De Moor, 2012; Cumbers, 2015) – inizialmente concentrata prevalentemente su risorse rurali, ora include anche beni comuni urbani, o anche detti pubblici/civici, che possono consistere in strade, marciapiedi, parchi, piazze o altri servizi rintracciabili a livello locale (Iaione, 2011; Foster, 2012; Garnett, 2012; Magnaghi, 2012; O’Brien, 2012). Le due principali caratteristiche di questi beni sono 1) l’esclusione difficile, o molto costosa, di alcuni dal loro utilizzo e 2) l’inesauribilità. Ostrom sostiene, inoltre, che un bene diventi giuridicamente comune solo se la comunità si impegna a gestirlo come tale, cioè in comune, e solo se gli Stati accordano alla comunità il pieno diritto di gestione e co-gestione (Ostrom, 1990). I commons necessitano pertanto di comunità che, non solo ne usufruiscano, ma anche li gestiscano. Nel caso delle SoSt, la strada, insieme alle strutture installate dai residenti stessi – panchine, biblioteche, fioriere, etc. – diventa bene comune: i membri dei gruppi stabiliscono, infatti, i valori condivisi con cui “abitare” la strada e le norme con cui utilizzare i servizi da loro predisposti. Allo stesso tempo, è necessario il ruolo dello Stato nell’accordare alle comunità il diritto di prendersene cura. In altre parole, è necessario il riconoscimento dell’agency dei cittadini come attori dotati di autodeterminazione nella costruzione delle loro esistenze, capaci di esprimere bisogni di identificazione, ma anche di espressione, creatività, convivialità e socialità (Nussbaum, 2003; Archer, 2004; Moulaert, Jessop & Mehmood, 2016).

L’attivazione di civic agency (Dahlgren, 2006), da un lato, e il suo riconoscimento da parte delle istituzioni, dall’altro, sono alla base della trasformazione del concetto di cittadinanza, storicamente basata su un insieme di diritti e doveri, acquisiti come un “pacchetto” dai membri di uno Stato. La condizione di cittadino si

disarticola, ora, dallo status acquisitivo di received citizenship e si afferma una forma di achieved citizenship, conseguita dai cittadini stessi come risultato della loro attiva partecipazione (Dalhgren, 2009). Diritti e responsabilità, quindi, non sono più legati a un’immaginaria e naturale identità nazionale, ma al fatto di risiedere in una città ed essere abitanti di uno specifico luogo (Novy, Swiatek & Moulaert, 2012). Esistono diverse definizioni di cittadinanza locale (Garcìa, 2006; Eizaguirre, Pradel, Terrones, Martinez-Celorrio & Garcìa, 2012; Kazepov, 2014), ma volendo qui collegare la visione alternativa appena presentata con l’attivazione dell’agency individuale, in un contesto di cura degli spazi pubblici come beni comuni, si rimanda alla definizione di cittadinanza attiva di Moro: «la capacità dei cittadini di auto-organizzarsi in molteplici forme per la mobilizzazione di risorse e l’esercizio di poteri nell’ambito delle politiche pubbliche […] per la protezione del diritto di gestire e prendersi cura dei beni comuni» (Moro 2002, p. 8)1. Operativamente,

questo comporta un cambiamento istituzionale a) degli strumenti di policy, b) della dimensione territoriale a cui vengono implementate le politiche e c) del numero di attori coinvolti, che condividono le responsabilità di governance urbana. In Europa, si stanno delineando, di conseguenza, forme innovative di «governance multi-level» che includono meccanismi alternativi di negoziazione tra molteplici gruppi, abilitando –

empowering – i governi locali. Il risultato di queste pratiche è un combinato disposto di iniziative bottom-up

e di politiche top-down (Kearns & Forrest, 2000; Swyngedouw, 2005; Kazepov, 2010; Eizaguirre et al., 2012; Sabel, 2013; Iaione, 2015; Andersen & Pors, 2016).

In Italia, il principio di sussidiarietà dell’articolo 118, titolo V della riforma costituzionale del 2001, è un esempio di sostegno all’autonoma iniziativa dei cittadini. In seguito, il regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, istituito a Bologna nel 2014, ha introdotto una nuova pratica di collaborazione tra istituzioni e società civile, ufficializzando la possibilità dei singoli cittadini di partecipare alla gestione della propria città. Non a caso, alcune SoSt hanno deciso di firmare un patto con l’amministrazione locale, assumendosi la responsabilità di custodire uno specifico spazio pubblico in cambio di sostegno economico e burocratico. Questi rapporti, anche se recenti, quindi ancora difficilmente valutabili, mostrano come una partecipazione attiva dei cittadini alla “cosa” pubblica, insieme a un dialogo costante e diretto con le amministrazioni, sia eventualmente possibile (Alexander, 2010; Moro, 2002). In secondo luogo, danno forma a una modalità di gestione delle risorse collettive, basata sull’auto-organizzazione dei cittadini e sulla collaborazione reciproca, senza che si renda necessario un intervento coercitivo dello stato o un’acquisizione di diritti di proprietà individuali (Ostrom, 1990; Foster, 2012).

La ricerca e gli studi di caso

Quello appena descritto è parte del framework teorico di un progetto di dottorato in corso, che mira ad analizzare il potenziale innovativo delle SoSt nel contesto di governance urbana, utilizzando il concetto di innovazione sociale intesa come iniziativa capace di soddisfare bisogni collettivi, tramite la trasformazione delle relazioni socio-politiche e l’empowerment della comunità locale (Moulaert, Maccallum, Mehmood, & Hamdouch, 2013). Le domande di ricerca si interrogano sui bisogni che hanno portato alla creazione delle SoSt, sull’influenza delle SoSt verso il senso di appartenenza dei cittadini alla comunità locale e al territorio di residenza e sull’influenza delle SoSt nei confronti della governance urbana. L’analisi vuole: A) individuare le caratteristiche socio-politiche dei quartieri dove nascono le SoSt, al fine di comprendere le cause e le tipologie dei bisogni dei cittadini; B) valutare il livello di coesione sociale presente a scala locale, tra i membri dei gruppi; C) concentrarsi, infine, sulle relazioni tra le SoSt e i soggetti socio-politici dell’area di riferimento – governo locale, associazioni/cooperative/organizzazioni e altri membri della società civile – guardando alle trasformazioni nella distribuzione di potere e responsabilità all’interno della città.

La scelta degli studi di caso è avvenuta dopo la somministrazione di interviste semi-strutturate agli amministratori di trenta SoSt2, che hanno portato ad individuare diverse modalità di dialogo con gli altri

attori socio-politici urbani. Si è scelto, così, di concentrarsi su tre gruppi – Residenti in Via Pitteri e dintorni, Ferrara; Residenti in Via Venti Settembre, Verona; Residenti in Via San Pio X e dintorni, Trento – simili per anzianità e posizione geografica, ma che differiscono nelle scelte di collaborazione con gli altri attori cittadini. Il gruppo veronese ha sviluppato con il Comune e altri attori dell’area un dialogo informale, assumendo semplicemente il ruolo di testimone di buona pratica. A Ferrara, i residenti di Via Pitteri, oltre alla partecipazione alle attività dello Urban Center, hanno firmato un patto di collaborazione con

1 Traduzione in italiano ad opera dell’autrice; versione originale: «The capacity of citizens to self-organise in a multiplicity of forms

for the mobilisation of resources and the exercise of powers in public policies […] for the protection of rights to achieve the end of caring for and developing common goods».

2 26 interviste sul territorio italiano e 4 all’estero, somministrate nella primavera-estate 2016. La selezione degli studi di caso è

l’amministrazione comunale, in modo da facilitare l’uso e la cura di un parco-giochi dell’area. Lo stesso è avvenuto a Trento, dove la SoSt, oltre ad avere preso in cura alcune aiuole della strada e a fare parte di una rete territoriale di organizzazioni, ha anche partecipato ad alcuni bandi comunali per la realizzazione di progetti – comprendenti l’erogazione di un budget – di rigenerazione urbana e sensibilizzazione alla cura dei beni comuni.

Tenendo in considerazione le argomentazioni presentate nel paragrafo precedente, verrà qui delineata la metodologia utile a rispondere alla terza domanda di ricerca – eventuali influenze delle SoSt sulla governance cittadina – tralasciando gli strumenti volti a valutare il livello di coesione sociale all’interno dei gruppi. Un’iniziale parte della ricerca consiste nella raccolta di materiale concernente il contesto di riferimento delle tre SoSt: tra gli altri, i documenti di collaborazioni e patti trai i cittadini e l’amministrazione comunale3.

Successivamente, si procederà con un’osservazione partecipante della durata di un mese per ogni gruppo4,

con la quale si prenderà parte alla vita del quartiere e agli eventi organizzati, con lo scopo di raccogliere informazioni sull’esistenza e sulla qualità delle relazioni tra i membri dei gruppi e i rappresentanti dell’amministrazione comunale e della società civile. A questi ultimi verranno sottoposte interviste semi- strutturate per individuare il tipo di rapporto e le modalità di collaborazione instaurate con i social streeters, da un lato, e gli eventuali cambiamenti di pratiche di policy – solo ai rappresentanti del governo locale – dall’altro. All’interno delle interviste semi-strutturate rivolte ai membri delle SoSt, infine, una parte delle domande sarà predisposta ad indagare i sentimenti verso l’area urbana di residenza, il sentirsi cittadini, le considerazioni riguardo all’uso degli spazi pubblici, alle funzioni svolte dalle amministrazioni e alle eventuali collaborazioni in atto5. Strumento utile alla visualizzazione dei legami, delle collaborazioni e degli usi degli spazi pubblici

formatisi in seguito alla nascita delle SoSt saranno delle mappe dell’area urbana oggetto di analisi, a cui verranno sovrapposti “grafi” di relazioni, simili a quelli usati dalla social network analysis. Discorde da quest’ultima è, però, l’attenzione rivolta all’inter-azione tra relazioni e spazio geografico.

Conclusioni

Il contributo ha presentato il fenomeno delle SoSt, un’iniziativa bottom-up nata come reazione a un contesto urbano dove gli spazi pubblici fungono meno da luoghi di socializzazione, la vita è più individualizzata che in passato e i processi globali deteriorano le identità territoriali locali. Tramite la formazione di legami tra vicini di casa, le SoSt (ri)connettono la comunità locale con il territorio di appartenenza, riscoprendone il valore come bene comune. Il passaggio da una concezione nazionale a una locale di cittadinanza e le trasformazioni degli strumenti di policy stanno, inoltre, modificando le strutture di governance urbana. Processi che portano a una modifica nella distribuzione di responsabilità tra gli attori coinvolti nella gestione della città. Parlare di città come bene comune pertanto richiama il concetto di diritto alla città (Lefebvre, 1970; Harvey, 2008). Essa è, e deve essere, una continua opera degli abitanti e il loro diritto a crearla si manifesta come una forma superiore di diritti alla cittadinanza, alla libertà, alla socializzazione, all’abitare. Questa libertà di fare la città, inoltre, è un diritto comune piuttosto che individuale, un diritto che va vissuto dalla comunità come un insieme.

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3 Questa fase della ricerca è iniziata dopo la scelta degli studi di caso e continua regolarmente grazie ai contatti costanti con gli

amministratori delle SoSt e all’iscrizione, precedentemente effettuata, ai loro gruppi Facebook.

4 Da effettuarsi nei mesi autunnali o primaverili, perché di maggiore attività delle SoSt.

5 Si stanno attualmente operativizzando i concetti individuati dall’impianto teorico del progetto e procedendo a una stesura delle

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