Università Mediterranea di Reggio Calabria PAU - Dipartimento Patrimonio Architettura Urbanistica
Email: [email protected]
Abstract
Il contributo intende approfondire criticamente una questione che ha caratterizzato la cultura della pianificazione negli ultimi anni. La netta riduzione delle esperienze di partecipazione in favore della costituzione di contesti d’interazione progettuale che mirano a mettere al centro i processi di autorganizzazione degli abitanti. Una via possibile per riflettere su tale dinamica può essere ricercata nella forte e crescente attenzione riguardo ai beni comuni o, meglio, in una specifica angolazione visuale tesa ad intendere le loro modalità di produzione e riproduzione come un campo di sperimentazione della democrazia.
L’autore sostiene la tesi che nelle pratiche di autorganizzazione degli abitanti sta il processo di produzione dei beni comuni, nella produzione dei beni comuni sta il principio di rigenerazione della democrazia. Tale tesi s’inquadra nell’ambito di un campo di ricerca che mira a mettere a fuoco le prassi di commoning (Bresnihan e Byrne, 2014; Huron, 2015; Caridi, 2015 e 2016a) e, più in generale, a riflettere sulle forme più efficaci per l’attivazione di metodi di lavoro utili al governo dei beni comuni nell’ambito dei processi di pianificazione urbana e territoriale (Caridi, 2016b e 2017). I risultati attesi riguardano essenzialmente il superamento dello stato di dissimulazione e lettura ideologica che, salvo casi limitati e non ancora rilevanti, caratterizza l’autorganizzazione degli abitanti in favore di un approfondimento del fenomeno nella sua originalità complessiva.
Parole chiave: pratiche urbane, regolazione, innovazione.
1 | La parabola della partecipazione negli ultimi venticinque anni
Le note che seguono prendono in considerazione tre argomenti principali. In questo primo paragrafo viene analizzata la decisa dinamica che, negli ultimi venticinque anni, ha visto le esperienze di partecipazione tradursi, da tentativo di allargare il confine concettuale della rappresentanza, a progressiva riduzione alla sola dimensione tecnica del senso politico della vita comunitaria. Nel secondo paragrafo vengono messi a fuoco i possibili rischi di tale situazione. E si evidenzia come siano praticabili anche altre concezioni utili a favorire un rafforzamento della sfera non istituzionale e delle sue dinamiche istituenti. Tale punto di vista dilata il campo della discussione tanto sui processi che nascono spontaneamente dalle interazioni locali, diventando così autorganizzazione, quanto sulle potenzialità dei beni comuni e sul loro ruolo nell’elaborazione di un discorso politico-sociale di ampio respiro che mira a rigenerare la democrazia. Infine, nel terzo ed ultimo paragrafo si discute su una possibile prospettiva di lavoro di tipo progettuale utile per creare condizioni di contesto tali da consentire l’emergere ed il funzionamento delle pratiche di autorganizzazione degli abitanti.
Possiamo a questo punto aprire la nostra riflessione da uno dei temi costitutivi del discorso, la partecipazione, tentando un’esplorazione delle piegature che questo concetto ha assunto dagli anni novanta del secolo scorso. Nell’ambito disciplinare in cui ci collochiamo la partecipazione ha a che fare con i rapporti fra le norme (intese in senso lato, quindi, piani, programmi ecc.) ed i concetti di istanza e rappresentanza.
Si è ormai consolidata, nella cultura politica contemporanea, la tesi secondo cui i meccanismi di produzione delle norme risultano sempre più indifferenti alla società, in quanto si sviluppano secondo logiche fortemente gerarchiche; ciò rende di fatto la norma sempre più distante dai concreti modi di vivere delle persone (Barcellona, 2003). Elemento cruciale di tale dinamica è la tendenza a mantenere i processi d’interazione sociale, dai quali scaturiscono le norme, fortemente legati ai paradigmi di delega tipici della democrazia rappresentativa. Il meccanismo istituzionale della rappresentanza, peraltro, dai primi anni novanta, inizia a perdere gran parte della sua efficacia (crisi dei partiti politici, astensione dal voto, disaffezione verso la politica ecc.) come dimostra anche il dibattito che da diversi anni s’incentra sul
problema della forma della democrazia e dei suoi mutamenti (Canfora, 2004; Ginsborg, 2006; Laino, 2012). Per colmare la sempre crescente distanza fra le norme e gli uomini ed eliminare il paradosso di un diritto senza società, secondo la fortunata definizione di Pietro Barcellona (2003), si è ritenuto necessario lavorare per spostare il confine concettuale della rappresentanza; e da qui definire pratiche d’interazione capaci di far emergere le istanze delle società insediate e, soprattutto, di renderle incisive nei processi di decisione.
È in virtù di questo dibattito che, nell’ambito disciplinare dell’urbanistica, si è consolidata la suggestiva e feconda ipotesi di lavoro che tende a considerare il piano come un processo democratico, piuttosto che come un semplice procedimento istituzionale connesso ad un’attività d’elaborazione tecnico-scientifica. Attraverso questa rivoluzione di carattere epistemologico degli statuti disciplinari, dai primi anni novanta si è sviluppata l’ennesima revisione del piano, un diverso modo cioè di intenderlo, redigerlo, utilizzarlo; in particolare, ha assunto centralità la specifica interpretazione culturale e politica dell’urbanistica partecipata (Ciaffi e Mela, 2011). Va comunque rilevato che alcune linee di ricerca attente alla dimensione del confronto con gli abitanti hanno, da sempre, attraversato la riflessione disciplinare. Tuttavia, fino agli anni novanta ogni iniziativa di questo tipo era stata vista esclusivamente come una possibilità alternativa, peculiare ed episodica, rispetto alla pianificazione canonica e ai suoi statuti.
Proprio nel momento di massima espansione per l’urbanistica partecipata si configurano, con decisione, scenari tanto contraddittori quanto ambigui. Iniziano a emergere le principali aberrazioni cui, ancora oggi, essa è soggetta (Moini, 2012; Morisi e Perrone, 2013). Per comodità espositiva queste criticità possono essere ricondotte a due dimensioni principali, che corrispondono a una diversa visione delle relazioni tra ragioni politiche e argomentazioni tecniche. Tali dimensioni possono essere valutate attraverso quattro criteri interpretativi ritenuti, ad ogni modo, centrali: i) gli obiettivi reali, ii) i soggetti e le istanze coinvolte, iii) le modalità di interazione, iv) la strutturazione del processo.
Da una parte emerge una dimensione scettica della partecipazione come tratto ricorrente della sfera istituita. Essa deriva dalla tipica tendenza autoconservatrice che domina oggi le istituzioni, e che produce una profonda diffidenza verso ogni cambiamento in grado di mettere in discussione le sue prerogative di autonomia decisionale (e dunque di potere, perché non da oggi potere decisionale e potere sono sinonimi). L’obiettivo principale di questo tipo di partecipazione è, quindi, la legittimazione di scelte politiche preordinate. Tale visione si esplica attraverso una strutturazione del processo partecipativo di tipo rigido e procedurale (top-down). Le modalità di interazione permesse sono sostanzialmente di tipo informativo passivo e sono, comunque, fortemente orientate e controllate; in pratica, non permettono alcuna significativa influenza da parte dei partecipanti sull’intero del processo di costruzione del piano. Va anche rilevato che, in questo tipo di processi partecipativi, i soggetti più coinvolti sono le istituzioni. Pertanto, i soggetti non istituzionali e i singoli individui non hanno una reale capacità d’incidenza.
Dall’altra esiste una dimensione rituale della partecipazione. La sua principale caratteristica è la centralità data alle tecniche decisionali. Questo campo di attenzione e sperimentazione si è andato strutturando in conseguenza dell’ampliarsi della domanda istituzionale di partecipazione. E ha prodotto un rapido affinamento e proliferazione delle metodologie d’intervento. I cardini di questa dimensione sono una strutturazione del processo in termini di arena decisionale, che prevede l’uso di molteplici modalità di interazione basate su procedure anche molto raffinate. Quelle più riconoscibili sono di tipo assembleare (forum, gruppi di discussione ecc.) e di interazione mediatica attiva. Questi processi possono consentire il coinvolgimento di un ampio arco di soggetti ma rimangono ad ogni modo stretti nelle spire di un rito tecnico (anche del comunicare) che porta alla strutturazione delle scelte e al raggiungimento delle decisioni attraverso una deformazione dell’interazione sociale che, invece, dovrebbe essere intesa come capacità di costruire contesti di relazione, di tipo politico e progettuale.
Alla base di queste due dimensioni risiede un modo di intendere la partecipazione come mezzo/strumento utile a raggiungere un determinato fine. Ciò riduce il processo partecipativo a una specifica procedura metodologica istituzionalizzata e formalizzata.
2 | I termini della questione oggi. Autorganizzazione, beni comuni e democrazia
Alla partecipazione come mezzo, oggi, sembra contrapporsi una concezione che tende a dare centralità ai processi di autorganizzazione che nascono spontaneamente dalle interazioni locali. Ciò significa slegare la partecipazione dall’occasione decisionale, travalicare lo specifico momento del processo di formalizzazione delle decisioni e riproporla come strutturazione permanente dell’interazione sociale. Certo, rimane la necessità di giungere in ogni caso a delle decisioni, ma queste devono rappresentare solo un momento di un percorso più ampio e destinato a continuare nel tempo.
Emerge, di conseguenza, l’esigenza di una completa riformulazione dell’urbanistica partecipata che va intesa come processo in grado di incrementare la consapevolezza dei rapporti tra comunità insediata e territorio, di stabilire nuovi rapporti fattivi e paritari tra sfera istituente e sfera istituita. Per supportare questa visione, si deve passare per un rafforzamento della sfera non istituzionale e delle sue dinamiche istituenti, perché sono gli abitanti organizzati in comunità che determinano la propria vita, le proprie norme e le proprie capacità di gestione del territorio.
In quest’ottica, la capacità di autorganizzazione assume un ruolo centrale. Essa, nei sistemi sociali, consiste essenzialmente nella costruzione, da parte di configurazioni variabili di soggetti territoriali, di un nuovo insieme di norme sociali/regole organizzative più adatte alle condizioni della comunità rispetto a quelle precedenti (De Toni et al., 2011).
Questo si traduce in individui singoli e movimenti collettivi che si riappropriano di parti del contesto urbano (a prescindere dall’appetibilità economico finanziaria), le trasformano in tempi brevi (superando la lentezza legata all’approvazione di piani e progetti o alle opposizioni politiche e alle proteste locali) e con interventi minimi (in termini sia di contenimento dei costi sia di impatto ambientale).
Questioni molto diverse fra loro che riguardano orti collettivi, parkour, vuoti urbani, aree sottoutilizzate o in via di dismissione, spazi pubblici contesi per attività collettive (dalla street art alle iniziative di culto e preghiera), occupazione a scopo abitativo ecc., come illustrano le 124 esperienze progettuali che costituiscono l’installazione “Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good” realizzata presso il padiglione degli Stati Uniti nell’ambito della XIII Mostra Internazionale di Architettura - la Biennale di Venezia (2012) curata da David Chipperfield.
In Italia, al netto della tematica riconducibile alla conflittualità territoriale (comunità insediate su un territorio che si ribellano contro processi che identificano come minacce esterne), le esperienze di autorganizzazione degli abitanti tendono ad assumere una connotazione molto circostanziata ed originale in quanto, una buona parte di esse, si focalizzano sulla filiera della cultura. A questo proposito sono indicative quelle del collettivo Macao di Milano che, nel maggio 2012, ha occupato la Torre Galfa trasformando un desolato palazzo ad uffici, abbandonato venti anni prima, in un centro per la produzione artistica. Esperienza che in un certo senso si relaziona, e per certi versi si sovrappone, a quella di Teatro Valle Occupato a Roma, iniziata dopo la chiusura dell’Ente Teatrale Italiano, nel giugno 2011; tale occupazione dopo 27 mesi ha portato alla costituzione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune (Giardini e Mattei, 2012). A queste si aggiungono, da Nord a Sud, S.a.L.E. docks a Venezia, il Teatro Rossi a Pisa, il Nuovo Cinema Palazzo sempre a Roma, l’Asilo Filangieri a Napoli, il teatro Garibaldi Aperto a Palermo, il teatro Coppola di Catania, il teatro Pinelli a Messina (Cirillo, 2014).
Tutto sommato, una dinamica in controtendenza rispetto al resto del mondo dove sono invece i processi di autorganizzazione che si riferiscono all’abitare ad avere crescente centralità e riscontro (Marcuse, 2009). Basti pensare all’assegnazione del Leone D’Oro, nell’ambito della Biennale prima menzionata, a Justin McGuirk e al gruppo Urban Think Tank per l’intervento sulla Torre David (Venezuela). Oppure alla risonanza cha ha avuto l’autocostruzione ad opera della comunità Túpac Amaru dell’insediamento di Alto Comedero (Argentina), interamente finanziato dal governo. O, ancora, alle case di Quinta Monroy (Cile) che su progetto dello studio Elemental di Alejandro Aravena sono state edificate solo in parte (struttura, copertura e servizi) e poi lasciate agli abitanti per il completamento. Ciò ha consentito di abbattere il costo di costruzione e, di conseguenza, ha permesso di destinare una cifra più alta per acquisto del suolo. Nondimeno, tale attenzione indica che l’autorganizzazione degli abitanti tende ad assumere centralità anche nella narrazione prevalente del circuito più cool dell’architettura e dell’arte, quello che per sua natura è assai attento al mercato e alle sue specifiche logiche.
A questo punto la sperimentazione di forme concrete di gestione diffusa e controllo di porzioni diverse del contesto urbano da parte delle comunità di riferimento è una questione che mostra tutta la sua sfaccettata complessità.
A fini del nostro discorso è essenziale evidenziare come tali forme pongano innanzitutto la questione della forte correlazione con il tema dei beni comuni. È qui la capacità delle pratiche di autorganizzazione degli abitanti di generare i beni comuni che deve essere messa al centro.
Come sappiamo la produzione e riproduzione dei beni comuni non ha tanto a che vedere con un loro riconoscimento formale (che risulta, ad ogni modo utile, ma solo in un secondo momento) quanto piuttosto con un riconoscimento sostanziale, che è legato al loro modo d’uso da parte della comunità di riferimento. Nello specifico è, quindi, l’attribuzione di quadri di senso politico-sociali che si manifesta attraverso le pratiche di autorganizzazione degli abitanti che genera, anche se non necessariamente, beni comuni.
Tuttavia, il discorso non si esaurisce qui. I contesti d’interazione progettuale che mettono al centro l’autorganizzazione degli abitanti producono, oltre che bene comuni, anche valori alternativi e nuovi diritti che mettono in discussione le forme tradizionali dei processi di decisionali. Consideriamo, ad esempio, il ruolo delle occupazioni, indagate da Alexander Vasudevan (2017), come resistenza alla città neoliberista. In questo senso, la produzione e riproduzione dei beni comuni implica, inevitabilmente, un tentativo di rigenerazione della democrazia.
Ma se i beni comuni si pongono come alimento e condizione della democrazia e la loro produzione/riproduzione è un effetto, per quanto incerto e non del tutto programmabile, dell’autorganizzazione degli abitanti, è necessario allora riflettere sulle prassi progettuali più efficaci per fare emergere e consolidarsi tali processi.
Nel prossimo paragrafo verrà illustrata una possibile prospettiva di lavoro utile a perseguire quest’obiettivo.
3 | Progettare l’autorganizzazione. Solo un ossimoro?
L’espressione progettare l’autorganizzazione può apparire come una contraddizione in termini. Ciò, non di meno, si può pensare di tendere verso quest’obiettivo. Si tratta di promuovere un approccio orientato a creare le condizioni di contesto utili a sostenere le dinamiche di gestione e controllo del contesto urbano che nascono quotidianamente dalle interazioni locali.
A tal fine, credo che possano valere alcune proposizioni guida. Esse, ovviamente, non rappresentano nel loro insieme un modello. Senza alcuna pretesa di essere esauriente provo a menzionarle: i) attenzione verso le caratteristiche fisiche del luogo e le sue condizioni materiali; ii) controllo della congruenza nell’uso e nella distribuzione delle risorse; iii) multiscalarità; iv) interconnessione tra gli abitanti/integrazione delle competenze; v) adattamento reciproco/condivisione delle informazioni; vi) atteggiamento sperimentale/riconfigurazione dei caratteri e delle fasi dell’azione; vii) fiducia verso le decisioni/diffidenza verso quelle eterodirette; viii) consapevolezza individuale/autodeterminazione collettiva; ix) coscienza di minoranza/pensare altrimenti; x) monitoraggio delle norme di comportamento e sanzioni.
Nell’evitare di commentare le singole proposizioni, ci si limita a precisare che esse prendono in considerazione non solo elementi materiali come il luogo, le risorse, ecc. ma anche un insieme di variabili immateriali quali, ad esempio, la scala d’intervento, le competenze, le informazioni, la natura del percorso, l’importanza assegnata alle decisioni e la piena cognizione dei loro effetti, il raggiungimento del consenso attorno ad una posizione condivisa e responsabile, il livello di accettazione delle norme di comportamento.
Riferimenti bibliografici
Barcellona P. (2003), Diritto senza società. Dal disincanto all'indifferenza, Edizioni Dedalo, Bari.
Bresnihan P., Byrne M. (2014), “Escape into the city. Everyday practices of commoning and the production of urban space in Dublin”, in Antipode, v. 47, n. 1, pp. 36-54.
Canfora L. (2004), La democrazia. Storia di una ideologia, Editori Laterza, Roma-Bari.
Caridi G. (2015), “Le pratiche di riuso temporaneo per la creazione dei beni comuni urbani”, in Urbanistica
Informazioni, a. XXXXII, n. 263, pp. 10-11.
Caridi G. (2016a), “Il ruolo delle pratiche di riuso e condivisione degli spazi aperti nei processi di commoning urbano”, in Ri-Vista, a. XI, n. 2, pp. 26-37.
Caridi G. (2016b), “Il commoning urbano ambito di collaborazione tra tattiche urbanistiche e indirizzi strategici”, in Talia M. (a cura di), Un nuovo ciclo della pianificazione urbanistica tra tattica e strategia, Planum Publisher, Roma-Milano, pp. 294-298
Caridi G. (2017), “La gestione delle risorse di fruizione comune. Per nuove forme di piano”, in Aa.Vv.,
Atti della XIX Conferenza Nazionale SIU. Responsabilità e strumenti per l'urbanistica al servizio del paese, Planum
Publisher, Roma-Milano, pp. 51-56.
Ciaffi D., Mela A. (2011), Urbanistica partecipata. Modelli e esperienze, Carocci, Roma. Cirillo L. (2014), Lotta di Classe sul palcoscenico. I teatri occupati si raccontano, Alegre, Roma. De Toni A.F., Comello L., Ioan L. (2011), Auto-organizzazioni, Marsilio, Venezia.
Giardini F., Mattei U. (2012), Teatro Valle Occupato. La rivolta culturale dei beni comuni, Derive Approdi, Roma. Ginsborg P. (2006), La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino.
Huron A. (2015), “Working with strangers in saturated space: reclaiming and maintaining the urban commons”, in Antipode, v. 47, n. 4, pp. 963-979.
Laino G. (2012), Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale, Franco Angeli, Milano.
Marcuse P. (2009), “A critical approach to the subprime mortgage crisis in the united states. Rethinking the public sector in housing”, in City & Community, a. 8, n. 3, pp. 351-356.
Moini G. (2012), Teoria critica della partecipazione. Un approccio sociologico, Franco Angeli, Milano. Morisi M., Perrone C. (2013), Giochi di potere. Partecipazione, piani e politiche territoriali, Utet, Torino. Vasudevan A. (2017), The autonomous city. A history of urban squatting, Verso, Londra.