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Abstract
Attraverso il racconto dell’esperienza di «ascolto attivo e progettazione partecipata» svolta nell’ambito del processo di trasformazione urbana della Caserma Mameli a Milano, il contributo intende mettere a fuoco alcune criticità e alcuni punti di forza di una consultazione popolare avviata a progetto già maturo.
In particolare, ci si concentra sulla pratica partecipativa come risorsa per la trasformazione della città; sulla necessità di temperare la domanda locale e attuale a confronto con la rilevanza urbana e di lungo periodo della trasformazione luoghi; sulla potenziale migrazione dalla nozione di ‘partecipazione’ a quella di ‘progetto d’uso’; sul punto di vista del progettista.
Ciò che ha reso ‘sperimentale’ “Open Mameli” è stata la ‘scoperta’ che i vincoli dati all’avviamento dell’esperienza possono essere assunti come risorsa, consentendo di pervenire a una sintesi di richieste, raccomandazioni e auspicii piuttosto precisa e che le competenze tecniche relative alle discipline del progetto, messe a servizio dell’intelligenza della società civile, possano avere un ruolo centrale per pervenire a tale sintesi. Il contributo intende offrire una riflessione sull’importanza della terzietà e sulla qualità della relazione fiduciaria tra cittadini e ‘mediatori’; sul rapporto tra ascolto attivo e progetto aperto; sul ruolo delle competenze tecniche nella produzione di un immaginario urbano e, insieme, nella traduzione dei desideri dei cittadini.
Parole chiave: urban projects, citizenship, inclusive processes.
Il caso studio
L’area militare della ex Caserma Mameli di viale Suzzani (area complessiva: 117.000 mq), in stato di abbandono da 7 anni, è in attesa di un’importante trasformazione urbana, come previsto dal Piano di Governo del Territorio del Comune di Milano che individua il complesso militare nella categoria degli Ambiti di Trasformazione Urbana (ATU) e predispone una scheda di indirizzi per il progetto, fissa la massima volumetria accoglibile e stabilisce alcune regole per l’intervento, tra le quali l’obbligo di cessione del 50% dell’area per spazi e servizi pubblici e di riservare il 30% a parco (Montedoro, 2011; Montedoro 2014)1.
La posizione strategica dell’area, tra i quartieri di Bicocca, Pratocentenaro e Niguarda (fig. 1-2), le sue potenzialità di nuovo luogo di riferimento e la modesta disponibilità di spazi pubblici all’interno dei tessuti urbani adiacenti candidano l’ex-caserma a diventare un importante centro per la socialità e per la vita della Zona 9, rispetto al quale, negli ultimi anni, sono maturate diverse attese della cittadinanza. L’ottima accessibilità garantita dalla linea 5 della metropolitana, l’origine pubblica delle aree, la prossimità all’importante sistema della formazione dell’Università Statale a Bicocca e della Civica Scuola di Cinema rendono la Caserma un potenziale polo attrattore anche a scala urbana e metropolitana.
1 Si rimanda inoltre al Protocollo d’intesa ai sensi dell’art.15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni tra
Ministero della Difesa, Comune di Milano e Agenzia del Demanio, 7 agosto 2014, disponibile e scaricabile sul sito del Comune di Milano. scaricabile sul sito del Comune di Milano.
Figura 1 | Vista aerea della Caserma Mameli tra i quartieri Niguarda, a ovest, Bicocca, a est e Pratocentenato a sud. Fonte: Google earth.
Figura 2 | L’area della Caserma Mameli nel sistema delle gravitazioni urbane.
Fonte: Gianluca Buzzi, Caserma Mameli: un nuovo epicentro di urbanità per il quartiere, Tesi di Laurea, a.a. 2015-2016.
Una parte significativa dell’area – i 6 edifici a forma di C, come le relative corti aperte, e il grande invaso centrale – sono vincolati dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici e sono suscettibili di interventi di lieve entità, finalizzati esclusivamente al riuso delle strutture esistenti.
La Cassa Depositi e Prestiti, proprietaria dell’area, ha avviato il procedimento urbanistico per la trasformazione della Caserma al fine di definire il planivolumetrico per la parte privata (un programma complesso di residenza per il libero mercato, residenza sociale e commercio), il progetto degli spazi aperti e il riuso della parte ceduta all’uso pubblico.
Del progetto è stato incaricato lo studio milanese Onsite2 (fig. 3).
Figura 3 | Planivolumetrico del progetto di trasformazione della Caserma Mameli: ben visibile il mantenimento dell’impianto della caserma e la densificazione sui margini.
Fonte: OnSite Studio.
Il mandato
Su invito del Comune di Milano, la Società proprietaria ha incaricato il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano di accompagnare il procedimento urbanistico in corso con un «processo di ascolto attivo e progettazione partecipata» con la Zona e la cittadinanza, coerentemente con l’impegno dell’Amministrazione milanese a praticare percorsi partecipativi sulle più consistenti trasformazioni urbane in corso o in previsione3.
Un incarico per condividere le ipotesi progettuali in campo e accogliere istanze, auspici e aspettative rispetto alle funzioni da insediare nella parte destinata all’uso pubblico nel medio periodo e prefigurare ipotesi condivise di riuso temporaneo degli spazi ceduti al Comune nel breve periodo, nell’attesa della cantierizzazione del progetto definitivo già avviato.
La finalità prioritaria del lavoro è stata pertanto quella di offrire attivamente un contributo alla definizione della Convenzione tra proprietà e Amministrazione, attraverso la stesura di linee guida per la trasformazione dell’area, con riferimento agli edifici di uso pubblico, al carattere degli spazi aperti e a proposte per il riuso temporaneo, sintesi degli incontri con la cittadinanza.
Metodo di lavoro
Le attività si sono svolte assumendo un quadro di previsione dato - norme del PGT, volumetrie insediabili, prefigurazioni progettuali già disponibili - che è stato da subito inteso come un sistema di vincoli con cui confrontarsi e su cui innestare i ragionamenti condivisi. La precisa definizione del campo d’azione e del mandato se da un lato ha frustrato le attese di una esplorazione più ampia delle potenzialità dell’area, dall’altra ha consentito di non disperdere energie nell’esercizio di forme di dissenso che richiedevano altre sedi e strumenti per l’espressione di perplessità e critiche di carattere più generale. Rispetto a tali preoccupazioni, il team del Politecnico ha esercitato un ascolto di carattere più passivo e si è impegnato a riportare le obbiezioni e i dubbi più ricorrenti nella restituzione finale.
2 CdP Immobiliare, attraverso una selezione a inviti riservata a studi professionali di giovani architetti, ha incaricato OnsiteStudio
(Angelo Lunati e Giancarlo Floridi) di redigere il piano attuativo per la trasformazione dell’area militare.
3 Una direzione intrapresa con decisione dalla Giunta Pisapia, in particolare nelle attività dall’Assessore all’Urbanistica Lucia De
Cesaris, a cui subentra nel luglio del 2015 Alessandro Balducci. L’impegno porta all’approvazione il 30 maggio 2016, del documento Progettare insieme la città. Linee guida per la partecipazione nel Comune di Milano al fine di sperimentare percorsi condivisi nell'urbanistica e nell'edilizia.
A tale presa d’atto, si è accompagnato un invito a interpretare il processo con due attenzioni che trascendessero l’orizzonte minuto di ciascun cittadino, chiedendo esplicitamente di pensare al valore della trasformazione dell’area per l’intera città, e non solo come risorsa locale, e di pensare agli effetti della lunga durata dell’intervento, sottraendosi alla esclusiva impellenza e attualità di alcuni bisogni.
Il programma di lavoro si è sviluppato poi attraverso diverse attività e forme: incontri pubblici; tavole rotonde; workshop a inviti; interviste; sopralluoghi; interventi di tecnici specializzati. Il sito web, una mailing list e i social network sono stati utilizzati per la comunicazione e la divulgazione delle informazioni e la condivisione trasparente del percorso step by step, al fine di raggiungere e coinvolgere il maggior numero possibile di cittadini4.
Gli strumenti utilizzati hanno concorso alla definizione di un metodo di lavoro che ha consentito diversi gradi di intensità dell’ascolto e del dialogo: dal confronto individuale, nelle interviste e nei questionari, al lavoro di gruppo nei tavoli di lavoro e nel workshop, alle forme assembleari, negli incontri pubblici, con una selettività decrescente (fig. 4, 5, 6, 7). I primi - gli intervistati - sono stati individuati in quanto portatori di interessi collettivi, generali o particolari: dunque i rappresentanti delle associazioni, dei comitati e delle istituzioni attivi sul territorio; i secondi, coinvolti nei lavori di gruppo aperti a tutti, sono stati coloro che hanno voluto/potuto partecipare ai lavori: alcuni degli intervistati, ma anche molti altri attori, come i consiglieri di zona e i cittadini del quartiere; infine gli incontri pubblici di carattere assembleare hanno visto il coinvolgimento allargato di figure che si sono mantenute più periferiche rispetto al processo di partecipazione vero e proprio, ma che hanno comunque mostrato interesse verso la trasformazione della caserma, e figure istituzionali apicali tecniche e politiche, i rappresentanti dell’Amministrazione e della proprietà. Un ruolo a sé è stato quello dei progettisti: questi sono stati presenti in tutti i ‘Consigli aperti’ (all’avviamento del percorso, per raccontare il progetto; tra le due fasi; in conclusione) e si sono resi disponibili al confronto diretto con i cittadini nel primo workshop di progettazione.
La sequenza delle attività e delle interazioni ha consentito una progressiva precisazione delle criticità rilevate nello stato di fatto, dei timori rispetto agli esiti dell’operazione urbanistica e delle richieste di modifica, integrazione e potenziamento delle azioni previste da sottoporre all’Amministrazione e CdP. Quest’ultima fase propositiva è stata restituita nella sintesi del report finale con tre differenti livelli di interesse: le richieste vere e proprie, molte sentite e largamente diffuse; le raccomandazioni, intese come un invito a considerare una serie di opportunità o di caratteristiche tecniche da valutare con attenzione; i suggerimenti, relativi a questioni non fondanti che, tuttavia, sono da considerarsi nel quadro complessivo del riassetto.
Figura 4 | Alcuni momenti del percorso: l’incontro aperto nella Zona 9. Fonte: Laura Montedoro.
4 Attraverso il sito (http://openmameli.it/), il social network (pagina facebook dedicata) e la mailing list (continuamente
Figura 5 | Alcuni momenti del percorso: il primo workshop al Politecnico di Milano; l’incontro con i progettisti. Fonte: Marta Paterlini.
Figura 6 | Alcuni momenti del percorso: il sopralluogo con cittadini e consiglieri di Zona all’interno dell’area militare. Fonte: Fabio Lepratto.
Figura 7 | Alcuni momenti del percorso: la presentazione del progetto in un Consiglio di Zona aperto alla cittadinanza. Fonte: Marta Paterlini
‘Criticità’ come risorsa
Il percorso in avviamento presentava alcune palesi criticità: innanzitutto, l’innesto delle attività di partecipazione su uno stato di avanzamento maturo del processo urbanistico, comprensivo di una soluzione progettuale, in via di definizione ma già solidamente impostata. In secondo luogo, la tempistica richiedeva un notevole sforzo di condensazione delle attività nell’arco di soli quattro mesi; infine, la sovrapposizione del processo a un periodo “instabile” quale la vigilia delle elezioni amministrative, che implicava in modo sotteso una radicalizzazione strumentale delle posizioni delle componenti politiche locali, contribuendo a incrementare la conflittualità del Consiglio di Zona. A valle del processo, possiamo affermare che questi elementi “sfavorevoli” non hanno, inaspettatamente, inficiato il buon esito delle attività nei termini della qualità della sintesi. Circa la finalità ultima, ossia la capacità di incidere sul processo urbanistico in corso, non è ancora possibile fare un bilancio perché la discontinuità dell’azione amministrativa ha implicato una provvisoria sospensione del dialogo.
Come già anticipato, assunte le condizioni date, l’avviamento del lavoro si è fondato su una schietta e precisa perimetrazione del campo di azione e del reale contributo possibile: pertanto, da una parte si è molto compressa la ridiscussione delle previsioni degli strumenti urbanistici (relativi alle quantità e alle destinazioni funzionali) e, dall’altra, la disponibilità di una prefigurazione della trasformazione dei luoghi ha reso possibile la concentrazione su questioni molto precise (fig. 8).
Figura 8 |La sintesi delle richieste, delle raccomandazioni e dei suggerimenti dei cittadini per il progetto di trasformazione. Fonte: Report Finale “Open Mameli”.
In altri termini, la sottrazione del processo partecipativo a un campo di possibilità illimitato ha consentito di non disperdersi nei molti e generici desiderata, concentrando l’attenzione su poche ed efficaci azioni con alta probabilità di ricezione da parte dell’Amministrazione, della proprietà e dei progettisti. In questo senso, la disponibilità degli elaborati del progetto, comunicato con i modi propri della rappresentazione architettonica – piante, sezioni, rendering – è stata assai importante per produrre un immaginario sul futuro dei luoghi5 e per innestarvi un ulteriore senso di possibilità scaturito dall’esplorazione degli usi possibili da
parte della cittadinanza.
5 Tale circostanza è in netta controtendenza con ‘i protocolli della buona partecipazione’ che tendono ad escludere in fase
preliminare la prefigurazione dei luoghi e a mettere in guardia rispetto ad attività partecipative su progetti già sviluppati, seppure non definitivi, intendendo con ciò un notevole depotenziamento del processo “a decisioni già prese”, come se questo avesse la finalità implicita di far digerire scelte calate dall’alto.
Quanto al ristretto scorcio temporale entro cui doveva tenersi il processo, questo ha offerto l’occasione per un’intensità di scambio difficilmente praticabile in una programmazione più distesa che avrebbe diluito gli incontri e le occasioni di confronto.
In ultimo, lo svolgimento della campagna elettorale – che ha sicuramente reso più difficile il clima del Consiglio – ha comportato un lavoro estensivamente e più attentamente inclusivo, finalizzato alla produzione di una sintesi ‘al di sopra di ogni sospetto’ e, almeno nelle sue potenzialità, durevole e resistente ai successivi possibili cambiamenti politici, individuando una sorta di ‘nocciolo duro’ delle questioni, meno sensibile a pressioni o interpretazioni polarizzate e strumentali.
Le competenze del sapere tecnico e la partecipazione
Tutti i membri del team del Politecnico sono professionisti del progetto di architettura, di urbanistica e di politiche urbane; sono perciò portatori di competenze tecniche fortemente orientate a uno sguardo progettuale. Inoltre, i membri del team avevano già esplorato progettualmente il caso studio della caserma Mameli in diverse occasioni didattiche e di ricerca6. Ciò ha consentito di mettere immediatamente a
disposizione dei gruppi di lavoro numerosi materiali, analitico-interpretativi e progettuali, nonché le proprie competenze, e di controllare tecnicamente le ipotesi trasformative che via via emergevano dagli incontri.
Questo know how è stato un ingrediente molto importante del processo e sembra utile sottolinearlo in una stagione che vede affermarsi progressivamente una diffusa e «silenziosa capacità di ribellar[s]i alle élite»7
(Baricco, 2016) – politiche, culturali e tecniche – e che obbliga a interrogarsi sul ruolo sociale dei ricercatori e dei progettisti. La crisi della politica, e nel contempo la crisi del ruolo dei tecnici, risiede anche nella caduta del valore di intermediazione tra cittadini e cosa pubblica, nella crisi della delega, nella sfiducia nei saperi tecnici, nella convinzione di poter provvedere da soli. «[…] Una mossa animale che noi umani occidentali abbiamo deciso di fare una trentina di anni fa: eliminare tutte le mediazioni che si possono eliminare. La gente si sta allenando a fare a meno degli esperti ».
Oltre le competenze: terzietà ed empatia
Tale lettura solleva inoltre alcuni interrogativi sul ruolo degli urbanisti e degli architetti nei processi di partecipazione (Laino, 2012). Il tema è stato ampiamente indagato negli ultimi vent’anni e si incontrano molte e diverse interpretazioni; in particolare, ci si è interrogati sulla neutralità o tendenziosità del planner. L’esperienza qui raccontata ha visto in azione figure sicuramente tendenziose, ma indipendenti, abbastanza vicine a quel policy activist «in cui policy si contrappone a politics e activist segnala la profonda differenza rispetto al mediatore. All’esperto si chiede di assumere un impegno diretto non solo nella gestione di un processo d’interazione, ma anche nella promozione di un’ipotesi di trasformazione. Si chiede di strutturare un processo intervenendo sui contenuti, costruendo cornici di riferimento, interpretando i territori, innescando attraverso la proposizione di scenari forme di progettazione […], rafforzando legami e reti del locale verso l’urbano e più in là» (Fareri, 2004). Operatori tendenziosi, dunque, ma indipendenti rispetto ai committenti e rispetto ad altre forme di influenza. Non neutrali ma terzi.
Inoltre, se Open Mameli ha in larga parte ‘funzionato’, consentendo l’elaborazione di una sintesi molto chiara e condivisa di «linee guida, raccomandazioni e proposte», è perché si è sviluppata una relazione fiduciaria – tra i cittadini che hanno partecipato alle attività, e tra i cittadini e il team del Politecnico – niente affatto scontata, considerando le condizioni di partenza date. Tale rapporto è stato reso possibile dalla frequenza e dalla varietà delle occasioni di incontro, che hanno consentito un senso condiviso di appartenenza a un’esperienza di valore, e dalla pratica del team di un’autentica terzietà rispetto al processo; in altri termini, lavorando non con la precipua finalità di veicolare il consenso, ma con autentico spirito di sevizio verso la città.
Alla lealtà dell’approccio, si è aggiunta l’attivazione di uno scambio naturalmente empatico (Giusti, 2001), difficilmente programmabile, che ha favorito lo sviluppo di un’alleanza produttiva per l’elaborazione delle proposte. La crescita dell’empatia tra i diversi attori coinvolti nel percorso ha sicuramente delle
6 Il riuso delle aree militari dismesse a Milano era stato assunto come tema unico all’interno di tre laboratori di progettazione
urbanistica e di una tesi di laurea: G. Buzzi, Caserma Mameli: un nuovo epicentro di urbanità per il quartiere, a.a. 2015-2016. Relatore Laura Montedoro. Alle caserme è stato dedicato un workshop intensivo di progettazione della Scuola di Architettura Civile, Progetti per Milano. Idee per la città dalla ridestinazione delle caserme e delle aree militari, marzo 2014, e 36 mesi di ricerca FARB.
7 Continua Baricco: «parliamo di élite culturali: quelli che hanno studiato, quelli che sanno. Nel tempo accumuli anche la sorda
convinzione di essere stato per lungo tempo vittima di una truffa: se te la puoi cavare benissimo senza quelle élite, evidentemente per anni quelli ti hanno fregato, portandoti via soldi, tempo, controllo sulla tua vita, indipendenza, libertà».
motivazioni accidentali e imprevedibili, ma può anche essere favorita dai tratti caratteriali dei responsabili del processo. In questo senso, la formazione del team è stata delicata e decisiva.
Il ruolo del team di «Open Mameli»: da facilitatori a traduttori
Con riferimento a quanto appena precisato circa il ruolo del team, l’espressione di “facilitatori”, di norma utilizzata in siffatti processi, non sembra adeguata per descrivere il ruolo svolto. Il termine “facilitatore” non nasce in seno alla cultura del planning, dell’urbanistica o della progettazione partecipata ma, come molte altre parole in uso in ambito disciplnare, è invece mutuata dalla cultura aziendale: il facilitatore è colui «che facilita, rende agevole il conseguimento di qualcosa»8; a torto o a ragione, questa accezione
implica un’idea di soluzione preconfezionata verso cui far convergere il consenso, smorzando la conflittualità.
Per il ruolo effettivamente svolto, ci sembra più adatto il termine di ‘traduttori’: coloro che, attraverso i propri skills tecnici, si mettono a disposizione della cittadinanza per provocare un immaginario e tradurlo in una sintesi efficace. D’altra parte, l’etimo di traduzione è proprio quello della consegna: com’è noto, infatti, tradurre deriva dall'unione di trans e ducere e significa ‘condurre oltre’, nell'accezione qui utilizzata quelli che si oltrepassano sono proprio i confini particolari per un vantaggio generale.
All’ascolto attento si accompagnano perciò un’azione di provocazione per la produzione di scenari alternativi e di guida progettuale che non si sottrae, pertanto, alla propria responsabilità disciplinare perché «è nei luoghi che l’esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa, e il suo senso viene elaborato, assimilato e negoziato. Ed è nei luoghi, e grazie ai luoghi, che i desideri si sviluppano, prendono forma, alimentati dalla speranza di realizzarsi» (Bauman, 2005: 21).
Partecipazione e rappresentanza
Nella ormai vasta letteratura sui processi partecipati per la definizione della decisione pubblica non mancano considerazioni critiche circa la debolezza di queste pratiche per la scarsa rappresentatività dei cittadini attivi (Savoldi, 2006; Angelini, D’Onofrio, 2014). Salvo rari casi di organizzazione per delega, come ad esempio per il terzo settore e l’associazionismo che spesso siede ai tavoli attraverso persone elette o comunque riconosciute come rappresentative, nella partecipazione dal basso non vi è alcun indicatore che possa rassicurare sul fatto che i cittadini attivi siano portatori di bisogni o di desideri collettivi (Pasqui, 2016). Di fatto, quella che si ascolta, si raccoglie e si traduce è la voce di un campione ristretto che risponde all’unica logica della disponibilità di tempo e della determinazione a esserci. Per quanto si possa mobilitare una comunità locale, la partecipazione sarà di fatto sempre selettiva in base a questi principi: delega, tempo disponibile, volontà individuale di far ascoltare la propria voce. Sebbene non manchino tentativi di coinvolgimento o consultazione più estensivi, mirati al coinvolgimento massivo degli abitanti, la partecipazione resta un’attività ‘parziale’ e depotenziata dalla sua involontaria e inevitabile esclusività.