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McLeodganji rappresenta uno degli esempi più felici di come, nell’attualità, possa capitare di trovarsi di fronte a luoghi nei quali coabitano, più o meno in sintonia fra loro, passato e innovazione, tradizione e cambiamento. Monaci buddisti si affiancano nelle strade a giovani punk tibetani e a turisti provenienti da tutto il mondo; botteghe d’artigianato e sartorie affidate alla sola arte delle mani si mescolano a decine di antenne satellitari e internet points tanto che non è possibile spiegare fino in fondo questa realtà senza soffermarsi adeguatamente sulla incredibile diffusione che negli ultimi anni vi è stata delle più nuove tecnologie.

Namgyal, del Tibetan Computer Resource Centre, mi spiegò quali erano, a suo parere, le regioni di questo successo:

(Intv. Namgyal, luglio 2005)

“La potenza di internet, la possibilità che questo strumento offre di veicolare informazioni a prezzo bassissimo e in pochi secondi ci ha affascinato da subito. Vivere a Dharamsala, infatti, ai piedi dell’Himalaya, ha significato per tantissimo tempo essere tagliati fuori dal mondo: era difficile potere incontrarsi con i nostri connazionali che pure vivono in India, con quelli che hanno deciso di risiedere all’estero, era difficile dialogare con il mondo intero (…).

Internet ha cambiando la nostra realtà e la nostra stessa strategia: ci ha dato la possibilità di non disperderci, di continuare a dialogare liberamente sulle vicende politiche che ci stanno più a cuore, di avvicinare organizzazioni internazionali prestigiose, compresa l’Onu, per internazionalizzare e rafforzare la nostra causa, superando qualunque confine e incrinando agli occhi di tutti, milioni e milioni di persone, la propaganda del governo cinese”.

Oggi è possibile contare circa 250 siti gestiti da tibetani in esilio: ogni Ong, ogni Ministero, ogni scuola, ogni grande monastero ha spesso un suo proprio autonomo collegamento, e, nel complesso, tutti si occupano di lanciare nuove campagne di sensibilizzazione a livello mondiale per reperire finanziamenti e volontari internazionali disposti ad insegnare l’inglese ai rifugiati da poco arrivati (www. tibetvolunteer.org è un’associazione che riceve circa 60 richieste di

collaborazione al giorno); per trasmettere informazioni legate al buddismo e alle attività del Parlamento in esilio; per rimanere in contatto con i propri connazionali e “non più disperdersi come una volta accadeva” secondo quanto spiega Namgyal, e secondo quanto sottolinea il direttore di uno dei siti di cultura tibetana più popolari: www.phayul.com.

(Intv. Phayul, luglio 2005)

“Molti tibetani arrivano qui e imparano poco dopo ad usare il computer, così abbiamo pensato che Phayul poteva da una parte stimolarli, e contribuire alla loro formazione dall’altra. Ma anche i tibetani che vivono fuori ci scrivono continuamente, dimostrano grande attenzione per tutto ciò che succede in questo luogo: per noi Dharamsala infatti è un posto importantissimo, è una sorta di capitale, la capitale della nostra diaspora, perciò tutti ci chiedono approfondimenti, più notizie, o ci scrivono pareri, prendono posizione su questa o su quella questione … Mentre il rischio, una volta, per chi viveva fuori era che ci fosse grande ignoranza, oggi invece non è più così”.

Seguendo la traccia di queste interviste, si evince che il massiccio impiego di Internet che ricorre fra i tibetani in esilio è dovuto in gran parte al suo essere percepito quale strumento capace di rimediare agli effetti prodotti dall’occupazione cinese. Lo sviluppo di internet viene guardato, cioè, quale strategia attraverso cui contrastare gli effetti della diaspora facilitando la possibilità che fra i profughi persista ancora oggi e si alimenti una cultura condivisa, un sentimento unitario di appartenenza a prescindere dal luogo in cui essi si trovino. Nelle reti di internet, infatti, si consolidano relazioni e riflessioni, i rifugiati riescono a ritrovarsi, informarsi, confrontarsi attorno a interessi e vertenze elaborati e poi percepiti come “bene comune” grazie all’impegno di quei “collettivi intelligenti” - evocati da Pierre Levy - che integrano gli apporti interindividuali per dar vita a nuovi progetti sociali (Lévy 2002):

(Intv. Phayul, luglio 2005)

“I tibetani che si trovano in esilio, i più giovani, usano internet essenzialmente per chattare, ma molti altri apprezzano anche le notizie che pubblichiamo, la possibilità di esprimersi liberamente nei forum… Se scarichi quello è stato scritto sul forum, ecco, si potrebbe scrivere un libro sui pensieri espressi attorno alla questione middle way approach. Ora, invece, per esempio, il Dali Lama è appena andato in Svizzera, e ci sono già moltissimi pareri anche su questa sua nuova missione; è impossibile tenerli sotto controllo. In un giorno abbiamo più di 10.000 connessioni…la prima cosa che tutti i tibetani fanno appena vanno in ufficio è aprire il nostro sito.

Noi diamo una piattaforma a tutti per esprimere le proprie opinioni, diamo notizie sulle proteste e sulle compagne che vengono portate avanti in nome del popolo tibetano, ma, come giornalisti, non ci schiariamo con nessuno in particolare.”.

E’ interessante notare, inoltre, come l’uso del web si sia velocemente imposto anche quale modalità vera e propria di protesta e partecipazione diretta mirata, in particolare, a condizionare la formazione dell’opinione pubblica mondiale e a raggiungere poi tangibili obiettivi politici senza che sia necessario muovere un passo. Ne sono un esempio le importanti campagne virtuali internazionali partite da Dharamsala che in più casi sono riuscite a bloccare la pena capitale in danno di alcuni prigionieri politici tibetani e di interrompere, inoltre, la realizzazione in Tibet di un imponente gasdotto, mi disse Tenzin Choeying, coordinatore, a Dharamsala, dell’associazione internazionale Students for a Free Tibet:

(Intv. Tenzin Choeying, luglio 2005)

“La comunità internazionale è sempre interessata alla nostra causa, ma i loro interessi vengono prima di tutto, e la Cina sta diventando troppo importante perché la nostra lotta possa trovare veramente supporto presso i singoli stati…abbiamo bisogno di una strategia globale, ma che vada al di là dell’interessamento dei singoli stati, dobbiamo fare in modo che siano tutti coloro che dimostrano interesse per il rispetto dei diritti umani ad obbligare gli stati ad intervenire e premere per il riconoscimento dell’indipendenza o dell’autonomia tibetana. Internet, in questo, ci sta aiutando molto”.

Tralasciando l’impatto che le nuove tecnologie hanno nella facilitazione delle migrazioni in quanto già rilevato nei paragrafi precedenti, se andiamo a guardare il sito ufficiale della Tibetan Women’s Association10 e di molte altre ONG

tibetane, notiamo subito come esse sono dichiaratamente assunte quale parte integrante della “strategia globale” di cui discute Tenzin Choeying: una strategia che, in particolare, vede il tentativo dei rifugiati di lottare (più che mediare) contro i sistemi di esclusione statali in maniera complice, intrecciata, e su di un terreno di confronto che è appunto virtuale, ma ciò nondimeno denso di ricadute reali. Ed infatti, in conformità a quanto rilevato da Appadurai, i tanti progetti sottoposti alla

10 Nell’intestazione del sito, leggiamo infatti che “TWA believes it is important to spread the

message of issues concerning Tibet in a variety of ways. To increase global awareness of Tibet and the visibility of TWA, the organization uses print media, video, the press and TWA products to raise our voices”.

mia attenzione appaiono evidentemente in grado e, allo stesso momento, preposti a rafforzare esperimenti di autorifacimento delle identità ponendosi alla base della ricostruzione di un diverso tessuto sociale, di spazi inediti rispetto al passato, entro cui i rifugiati reagiscono sinergicamente ad un nemico che, pure di fronte alla inevitabile molteplicità delle posizioni, riesce di fatto ad unificarle in quanto percepito come “nemico comune”.

In questo senso, il contesto diasporico sviluppato dall’attivismo mediatico dei tibetani si pone al di là di quella rete di intrecci dove, afferma Mellino, l’appartenenza è determinata dalle sole dinamiche del ricordo e della memoria sociale (Mellino 2003, p. 59), caratterizzandosi piuttosto come movimento sociale nato da spostamenti traumatici e sofferti ma che partecipa attivamente alla trasformazione dei luoghi di origine secondo progetti di volta in volta condivisi con diversi attori internazionali11.

Un movimento, dunque, ibrido e permeabile, che mette in discussione la interpretazione della categoria di diaspora delineata nelle analisi di Anderson e Huntington nella parte in cui essi vi ravvisano alla base identità intransigenti e reattive che sarebbero dall’inizio tali.

Ed infatti, come abbiamo visto nella parte teorica di questo lavoro, secondo Anderson è possibile sostenere che la crisi del modello assimilazionista, insieme allo sviluppo di un sistema di telecomunicazioni globali e alla presenza di grandi movimenti migratori, stiano creando nuove e virulente forme di nazionalismo, definite dallo studioso come nazionalismi “di lunga distanza” nella misura in cui non più dipendono dall’insediamento territoriale entro i confini della propria comunità di origine (Anderson 1998, pp. 55-77). Mentre Huntington, partendo dalla considerazione che la fine del bipolarismo abbia prodotto un numero crescente di “guerre di faglia” fra gruppi appartenenti a diverse civiltà, afferma che l’espansione dei mezzi di trasporto e delle comunicazione offre ai diversi gruppi in diaspora la possibilità di svolgere un ruolo più pregnante e decisivo permettendone, infatti, l’internazionalizzazione(Huntington 1996, p. 377) .

In realtà, questi approcci sembrano smentiti dall’analisi fin qui condotta sulla diaspora tibetana nella misura in cui entrambi tralasciano di considerare

11 Più frequentemente, con Amnesty International, GreenPeace, The World Social Forum,

come la radicalizzazione di una certa lotta o istanza nasca da saperi che si riproducono e diffondono in funzione delle modalità, del “discorso”, con cui la comunità internazionale e i contesti di arrivo vi si confrontano praticamente. E cioè, il massiccio impiego che si fa delle nuove tecnologie fra i tibetani indica attività diasporiche che si sviluppano non tanto quale conseguenza del multiculturalismo inteso come razionalità che fissa i soggetti alle loro identità (Anderson 1998), ma quale reazione tesa a contrastare l’ambiguità e la debolezza delle istituzioni internazionali, e, in particolare, la mortificazione delle aspirazioni politiche dell’esodo che produce l’attuale struttura di integrazione economica globale. E, cioè, si tratta di mobilitazioni (virtuali e non) che rimandano ad una progettualità collettiva fondata su principi di democrazia diretta, ad azioni e momenti di aperto conflitto che ripoliticizzano la fuga sfruttando le opportunità e le risorse tecnologiche del contesto di arrivo, ma, soprattutto, collegandosi ai diversi attori politici che si rendono disponibili sul piano locale come su quello transnazionale.

Fortunatamente, le forme che sta assumendo il nazionalismo virtuale tibetano (che, in realtà neppure aspira a rivendicare un proprio stato ma che discute invece di indipendenza “solo perché l’autonomia è già un dato acquisito” – v. intv. Tibetan Youth Congress) non rimanda ad un fenomeno eversivo e intransigente, ma, piuttosto, ad un “congedo fondativo” che né si arresta all’attesa del “ritorno” né si esaurisce nell’ipostatizzazione di una certa identità radicandosi, invece, attivamente del tessuto sociale della società di provenienza. Tuttavia, non bisogna sottovalutare i segnali di scetticismo che si stanno diffondendo fra i rifugiati tibetani rispetto alla realizzabilità di una soluzione pacifica in quanto rivelatori di un'esasperazione diffusa, sempre meno controllabile anche dal Dalai Lama, che potrebbe comportare una totale degenerazione della protesta politica, tenendo presente che si diffondono anche a Dharamsala gravose forme di esclusione e impoverimento fra i “nuovi arrivati”.

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