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Per quanto attiene allo svolgimento della ricerca empirica, il lavoro si è articolato in tre fasi distinte.

L'allestimento della ricerca ha comportato la previa formulazione delle domande della ricerca e di una traccia per le interviste; successivamente, mi sono dedicata all'individuazione dei soggetti di studio e all'impostazione dei contatti, prevalentemente avvenuti per telefono e per e-mail; dunque, ho proceduto a raggiungere i due diversi contesti diasporici così individuati: quello dei rifugiati tibetani che si trovano in India, e quello dei rifugiati sudanesi residenti

in Italia.

Le tracce dell’intervista puntavano a ricostruire, anche storicamente, le condizioni politiche dei contesti di provenienza; l’origine sociale degli intervistati; le costrizioni, le aspirazioni e le opportunità che hanno inciso sulla decisione di emigrare; la traiettoria migratoria seguita e le ragioni di questa scelta; le interazioni con la società di origine e con quella di destinazione, il grado di soddisfazione per la vita attuale; le strategie messe in atto per soddisfare le proprie aspettative di emancipazione.

L’Italia è l’unico stato in Europa che non si è mai dotato di una legge organica in materia di rifugiati e richiedenti asilo, e ciò, negli ultimi tempi, ha consentito lo sviluppo di programmi d’intervento decentrati, gestiti dalle organizzazioni del privato sociale in collaborazione con gli stessi rifugiati, che hanno saputo rapportarsi in maniera più dialogica e immediata con le istanze di cui essi si fanno portatori in relazione all’esperienza vissuta nei paesi di origine. L’India, dal suo canto, è uno dei pochi paesi nel mondo che non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, sicché, anche in questo caso, il paese ha promosso un approccio pluralistico nei confronti dei rifugiati essenzialmente rivolto a privilegiarne l’autorganizzazione e la responsabilizzazione.

La scelta di comparare questi due casi ha, perciò, un suo fondamento nel fatto che L’Italia e l’India presentano contesti affini sul piano delle strutture sociali e culturali che i rifugiati hanno sviluppato attorno a sé per facilitare il loro percorso di insediamento in sintonia con le aspettative poste alla base dell’esodo, potendo contare sull’assenza di politiche riabilitative capillari e “invadenti” come quelle che si riscontrano nelle più ricche democrazie occidentali.

Inoltre, la comparazione fra il contesto italiano e quello indiano, essendo quest’ultimo, come dicevo, uno dei pochissimi paesi dove non ha ancora trovato applicazione la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, mi ha consentito di valutare quelli che possono essere i punti di crisi e di vantaggio che si danno nei dispositivi “locali” e “internazionali” chiamati a regolare gli spostamenti forzati. E, soprattutto, di farlo in modo più originale rispetto a come non sia invece possibile quando ci troviamo di fronte a paesi basati sulle medesime determinazioni normative e su analoghi sistemi d’intervento.

Il primo caso della ricerca sul campo riguarda l’esperienza dei rifugiati tibetani che si trovano in India, dislocati fra il West Bengala e l’Hymachal Pradesh. Nella scelta dei gruppi da avvicinare sono stata supportata da alcuni studiosi indiani che lavoro a Kolkata presso il Refugees Studies Centre della Jadavpur University; presso il Calcutta Research Group e il Centre for Studies in Social Science, sempre di Kolkata.

L’obiettivo è stato quello di fornire un quadro coerente sui diversi momenti storici durante i quali si è sviluppata la diaspora tibetana, partendo dai rifugiati di prima generazione che giunsero in India alla fine degli anni Cinquanta per arrivare ai profughi che hanno invece intrapreso il proprio viaggio solo recentemente. Per questa ragione, la ricerca è stata condotta innanzitutto nel Darjeeling, presso il Tibetan Refugee Self Help Centre, dove ho risieduto nel mese di maggio del 2005 e dove ho avuto modo di incontrare i più anziani profughi tibetani, la maggior parte dei quali si trova in esilio da oltre quarat’anni. In quell’occasione, ho partecipato ad alcune visite guidate all’interno del centro, organizzate dagli stessi rifugiati, e sono state intervistate alcune figure manageriali che hanno consentito di decifrare in maniera sufficientemente chiara la logica organizzativa attorno a cui si articola il funzionamento di quel luogo. Allo stesso scopo, ho effettuato dieci interviste con gli altri abitanti del Tibetan Refugee Self Help Centre e con alcune volontarie internazionali che vi si trovavano temporaneamente in missione.

Al termine di questo primo passaggio, la ricerca si è poi concentrata sull’esperienza dei rifugiati tibetani che si trovano a Dharamsala, sede del governo in esilio tibetano. Qui ho risieduto nel mese di giungo e di luglio del 2005. Si tratta di un luogo deputato all’accoglienza dei nuovi arrivati, dove si concentra, analogamente a quanto accade a Palermo e a Roma, un numero elevato di strutture e di Ong locali e internazionali chiamate a garantire ai rifugiati servizi di riabilitazione e di prima accoglienza. La narrazione si concentra, in particolare, sui racconti dei rifugiati tibetani che hanno lasciato da poco il loro paese al fine di rintracciare le cause della fuga nella loro immediatezza, ma anche le pratiche di insediamento, di controllo cosi come le strategie di sopravvivenza e riproduzione identitaria che i rifugiati esperiscono in un contesto che appare radicalmente diverso da quello riscontrato nel Darjeeling.

Insieme ad i nuovi arrivati, la permanenza a Dharamsala mi ha dato, inoltre, l’opportunità di intervistare alcuni esponenti del governo in esilio e delle diverse Ong locali fondate dai rifugiati, in collaborazione o meno con altri attori internazionali, a sostegno della loro stessa causa.

Rispetto al secondo caso, la presenza sul territorio italiano di numerose associazioni antagoniste e antirazziste già di mia conoscenza - che hanno funzionato in questo caso come “testimoni qualificati” - mi ha dato l’opportunità di individuare alcune realtà che avrebbero potuto rientrare nello studio e fornirmi ulteriori indicazioni sulle comunità esistenti. I contatti interpersonali che ho stretto hanno, pertanto, riguardato persone interne ai gruppi di rifugiati prescelti – persone che hanno da poco lasciato il paese d’origine e appaiono prive di un’istruzione adeguata, e persone che, invece, vantano una buona istruzione e risiedono in Italia da qualche tempo - ma anche soggetti che si occupano di temi inerenti a quelli indagati per motivi di lavoro o perché mossi da un interesse politico.

In particolare, le interviste sono state condotte prevalentemente con rifugiati sudanesi provenienti dal Darfur, insediati fra Roma e Palermo. Si tratta di un gruppo di esuli abbastanza numeroso, circa 1000 persone, che cresce di giorno in giorno soprattutto in seguito all’introduzione in Europa del sistema Eurodac: un sistema di rilievo delle impronte digitali che intima ai profughi l’obbligo di presentare domanda d’asilo presso il primo paese dell’area Schengen che essi attraversino. Per questa ragione, nel giro di soli quattro anni, Roma e Palermo hanno iniziato a funzionare quali principali punti di riferimento per tutti i sudanesi che giungono in Europa. Qui i sudanesi trovano servizi di prima accoglienza dediti al loro controllo, alla loro cura e assistenza ma, soprattutto, qui i sudanesi trovano un gruppo coeso di loro connazionali da cui ottengono informazioni e risorse utili per compiere i primi passi verso la propria ricollocazione psicologica e sociale.

L'obiettivo, anche qui, è stato quello di sottoporre a verifica le ipotesi inizialmente formulate individuando i fattori oggettivi e le aspirazioni iniziali che hanno agito sulla decisione d’emigrare e, dunque, di verificare come nella esperienza soggettiva degli intervistati quelle condizioni e aspirazioni sono state progressivamente rielaborate e modificate. Allo scopo di seguire al meglio tale

“evoluzione” e “processualità” ho fatto diverse incursioni: a Palermo, nel settembre e novembre del 2004, nella metà di marzo del 2005; a Roma, nella prima metà del marzo 2005 e nel mese di luglio del 2006.

Complessivamente, sono state effettuate 60 interviste a testimoni privilegiati, a funzionari dell’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), ad esponenti di organizzazioni non governative, a responsabili amministrativi, a soggetti politici attivi sul fronte dell’antirazzismo.

Parte Seconda

Relazioni diasporiche e migrazioni forzate

«C’è […] sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi che sfugge in un certo modo alle regolazioni di potere; qualcosa che non è affatto la materia prima, più o meno docile e resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente».

(P. Dalla Vigna, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Mimesis, Milano, 1994).

Capitolo Sesto

Agli inizi della diaspora tibetana.

Il progetto politico del Governo in Esilio nell’esperienza

del Tibetan Refugee Self-Help Centre

“Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre. Un freddo cala…Duro il colpo svetta. E l’acacia ferita da sé scrolla Il guscio di cicala nella prima belletta di Novembre”.

(E. Montale, 1949)

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