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Come si evince da queste ultime riflessioni, per comprendere l’attualità del dibattito che oggi si svolge attorno alla figura dei rifugiati è necessario considerare la storia del colonialismo, e, soprattutto, l’incidenza che la divisione del mondo in due blocchi contrapposti ebbe, all’indomani della seconda guerra mondiale, sulla definizione degli obiettivi da inscrivere nella figura dei rifugiati tratteggiata a Ginevra, e nelle istituzioni del sistema internazionale d’asilo affidato al governo dell’ONU.

Tali obiettivi iniziarono a subire, infatti, un intenso processo di ripensamento quando, con l’acuirsi della Guerra fredda, gli stati iniziarono a guardare la figura dei rifugiati come posta in gioco strategicamente rilevante all’interno di quello scenario di contrapposizione bipolare: come pratica discorsiva da fondare su precise istituzioni e schemi di comportamento, e a cui ricollegare puntuali conseguenze ed effetti di verità.

Tale discorso, come molti studiosi hanno in questi anni rilevato, chiedeva in pratica che i profughi provenienti dai paesi dell’Europa dell’Est fossero accolti

10 A. Sen, in particolare, ha sostenuto e dimostrato che non vi può essere sviluppo economico

senza democrazia, senza il riconoscimento dei principi di libertà e tolleranza che, pur con diversa varietà di accenti, sono presenti sia nella tradizione occidentale che in quelle orientali (nel confucianesimo, nel buddismo, nel pensiero indiano, o nell’islam). Respingendo, dunque, la tesi secondo cui i diritti occidentali sarebbero universali a confronto di quelli insulari, presenti nelle altre culture (2005). Sul tema, v., anche A. Facchi (2001).

dall’Occidente come “movimenti di liberazione” da sostenere finanziariamente nella fuga e da appoggiare, all’arrivo, in quanto vittime incolpevoli di regimi totalitari. E cioè, a partire dagli anni Cinquanta, in maniera nuova rispetto al passato, la figura dei rifugiati iniziò a riempirsi di espliciti significati etici e politici, ad atteggiarsi come vera e propria “categoria morale” finendo per coincidere, in qualche maniera, con l’esperienza di chi fosse “bianco, maschio e anticomunista” (Chimni 1998, p. 355).

L’Unhcr, da questo punto di vista, svolse un ruolo di estrema rilevanza in quanto chiamato a provvedere ai bisogni materiali dei profughi secondo un modello di intervento che si voleva allora “reattivo, specificamente rivolto nei confronti dei rifugiati e orientato all’esilio”. In seguito alla crisi tedesca del 1953 e a quella prodotta dalla rivoluzione ungherese del 1956, l’agenzia bene dimostrò, cioè, l’importante ruolo diplomatico che poteva giocare in occasione di questi eventi per l’intera politica mondiale assecondando, in particolare, l’interesse che i paesi dell’ONU esprimevano nell’incoraggiare la fuga e nel facilitare l’integrazione e la “riabilitazione” dei profughi provenienti dall’Est (Loescher and Scanlan 1986; Loescher 2002, pp. 1-20).

In Occidente, la tendenza ad assumere i rifugiati come arma di “delegittimazione e consenso” rappresentò, insomma, il nocciolo duro di una vera e propria dottrina teorizzata agli inizi dal Presidente americano Truman come parte della guerra ideologica condotta contro il Blocco Sovietico, e di cui il regime d’asilo che le Nazioni Unite iniziavano a prospettare ne costituiva appunto l’asse portante.

Occorre rilevare infatti che, nonostante il disposto dell’art. 14 della Dichiarazione dei diritti fondamentali del 1948 (che sancisce, in maniera però non vincolante, l’obbligo degli stati di garantire agli esuli forme di protezione ed assistenza svincolate da considerazioni di carattere politico), la concessione del diritto all’asilo continuò a prescindere lungo tutto il periodo della Guerra fredda dalle esigenze di protezione espresse dai richiedenti, rimanendo vincolata alla volontà dei singoli governi di procedere al riconoscimento dello status di rifugiato. Come ho detto, ciò avveniva principalmente sulla base di valutazioni di carattere politico e militare: in pratica, in virtù delle relazioni intrattenute con i paesi d’origine, seguendo l’ordine geopolitico fissato in occasione della Conferenza di

Yalta, vista anche la possibilità che gli stati avevano di legittimare tale operato invocando le riserve di natura geografica e temporale inizialmente apposte alla Convenzione.

Fino al Protocollo aggiuntivo di New York del 1967, l’applicazione della Convenzione fu infatti limitata ai soli rifugiati europei che avevano subito persecuzioni per i fatti antecedenti al primo gennaio 1951. E, inoltre, essendo lo stato l’agente persecutore nel regime totalitario sovietico, fu ritenuta norma quella di considerare rifugiati solo coloro che venivano perseguitati dallo stato di appartenenza anche se nulla, nota giustamente Delle Donne, fosse stato specificato al riguardo (Delle Donne 2004, p. 37).

I richiedenti asilo riconosciuti come rifugiati si trovavano sottoposti poi, nei paesi di primo asilo ovvero presso quelli verso cui venivano reinsediati, a precise pratiche di integrazione ed accoglienza che si proponevano di trasformarli, di assimilarli gradualmente come cittadini, e, soprattutto, come normale forza lavoro (Vitale 2005, p. 26).

Queste finalità bene si evincono, per esempio, dalle note espresse dalle Nazioni Unite nel 1950, quando si procedeva alla costituzione dell’Unhcr:

“I rifugiati avranno una vita indipendente nei paesi presso i quali troveranno dimora. Fatta eccezione per i casi più difficili, i rifugiati non saranno più sostenuti dalla comunità internazionale come oggi lo sono. Saranno integrati nei sistemi economici dei paesi d’asilo e da soli provvederanno ai loro bisogni e a quelli delle loro famiglie. Questa che verrà sarà una fase di insediamento e assimilazione dei rifugiati” (cit. in Crisp 2004, p. 3).

Analoghe poi sono le considerazioni svolte da Harrell-Bond richiamandosi alla esperienza da lei vissuta presso la Federazione clericale di Los Angeles negli anni Cinquanta, dove si occupò dei rifugiati che con difficoltà si conformavano alle norme e alle aspettative di coloro che ne avevano finanziato l’arrivo:

“I rifugiati che scappavano dal comunismo non erano considerati indifesi. Erano europei. Nel contesto della Guerra Fredda rappresentavano voti in più per la democrazia liberale. L’accoglienza dei rifugiati era anche influenzata dagli appelli postbellici che avevano enfatizzato l’eccezionale potenziale dei

rifugiati in arrivo per la crescita delle economie ospitanti.

Lo Stato si preoccupava quindi di offrire ai rifugiati un supporto sociale e psicologico e di assisterli nel processo di adattamento nelle “nuove terre”. Anche quando, dopo la guerra, le forze alleate si trovarono nella situazione di doversi occupare di sessanta milioni di rifugiati, la tendenza fu sempre quella di dare la responsabilità dell’amministrazione dei campi nelle mani dei rifugiati stessi (…)” (Harrell_Bond 2005, p. 24).

Di questo percorso d’insediamento basato sulla logica dell’integrazione attraverso il mercato del lavoro dà conto oggi soprattutto Aihwa Ong in un suo recente lavoro - Da rifugiati a cittadini – incentrato sulle tecnologie di governo quotidiane, sui codici, i programmi, le pratiche della medicina, degli assistenti sociali, della polizia che, lungo il corso degli anni Ottanta, il governo degli Stati Uniti applicò nei confronti degli esuli cambogiani.

Ong nel suo studio ha ricostruito in maniera estremamente abile, infatti, l’architettura di quella che ella stessa definisce come una vera e propria pedagogia della cittadinanza diretta a trasformare i rifugiati in individui liberi, individualisti, autonomi e fiduciosi nelle proprie capacità, perché è attorno a questo modello di soggetto, chiarisce la studiosa, che ruotava e ruota ancora oggi l’intera articolazione del modello di cittadinanza americana.

Grazie al suo lavoro di ricerca apprendiamo, così, che i rifugiati, nel loro cammino verso l’integrazione, dovevano essere prima di tutto addestrati, apprendere la cultura dominante del paese d’asilo, impossessarsi di un’ideologia di autonomia individuale il cui principio in sostanza chiedeva di non pesare sullo stato, di divenire imprenditori di se stessi, di prendersi cura di sé all’interno di un nuovo mondo. Ma, paradossalmente, capiamo che tale “paternalismo pubblico”, mentre si proponeva di cancellare elementi o tratti percepiti come “primitivi”, produceva stereotipi etnorazziali funzionali alla segmentazione della forza lavoro attraverso schemi preesistenti che identificavano i gruppi in base alla razza, all’etnia, alla moralità e al potenziale di mercato (Ong 2005, p. 77).

In particolare, rileva Ong, secondo una pratica nota come “correzione- sorvaglianza”, i ricercatori che scrivevano i rapporti sui rifugiati fornivano agli operatori sociali e agli insegnanti alcune classificazioni etnorazziali che mettevano in collegamento, in modo causale e semplicistico, le presunte

caratteristiche culturali dei rifugiati con il loro potenziale occupazionale. E, in questo modo, nonostante i rifugiati vietnamiti e cambogiani provenissero dalla stessa serie di conflitti conseguenti all’intervento americano nel Sudest asiatico, i cambogiani erano differenziati dai vietnamiti e dagli immigrati cinesi in quanto contrassegnati come gli esponenti meno vincenti della “razza” asiatica: privi delle qualità per diventare minoranza-modello e, per questo, orientati a ricoprire i gradini più bassi del mercato del lavoro:

“In quanto esposti a una specie di “annerimento (blackening)” ideologico, opposto allo “sbiancamento (whitening)” degli immigrati vietnamiti e di etnia cinese (stereotipo degli imprenditori che si fanno da sé), i rifugiati della Cambogia e del Laos hanno finito, nella percezione diffusa, per avere più cose in comune con gli altri immigrati poveri e di colore, come etiopi, afgani e persino centroamericani, con cui si ritrovavano spesso gomito a gomito in lavori mal pagati” (cit., p. 81).

Verosimilmente, le tecnologie di governo di cui discute Ong erano in parte differenti da quelle sperimentate in Canada, in Europa o anche in Australia, laddove, del resto, le tecniche destinate alla produzione del soggetto-cittadino mutano continuamente in funzione dei diversi ordinamenti, dei periodi storici e dei contingenti interessi nazionali.

Ciò nondimeno, il lavoro della Ong può essere utilizzato per individuare le modalità che più caratterizzavano l’integrazione dei rifugiati durante il bipolarismo nei paesi occidentali: il fatto che, in primo luogo, si trattò di politiche “calcolate”, essenzialmente rivolte all’integrazione degli esuli in fuga dal comunismo, e, invece sfavorevoli a quanti non rientrassero nel programma globale anticomunista; che si trattava di sistemi che guardavano all’esilio come ad una esperienza destinata a concludersi con l’acquisizione della cittadinanza del paese di destinazione; che, nei paesi di primo asilo ovvero in quelli presso cui i rifugiati venivano reinsediati, erano previste precise politiche di welfare, funzionali al loro disciplinamento e alla loro trasformazione in forza lavoro massiccia e permanente.

Una considerazione, questa, che non mette in crisi l’idea dei rifugiati quale “arma” da giocare strategicamente nello scenario geopolitico internazionale, ma

che la arricchisce evidenziando allo stesso momento il loro costituirsi come “popolazione” chiamata a contribuire in maniera rilevante a quella fase di ricostruzione ed espansione del capitalismo, e che è stata per questo oggetto di una vera e propria “scienza”. Una scienza dove non compare, però, solo lo stato come centro nevralgico del potere, ma dove figurano invece disparati organi pedagogici, saperi e metodologie d’intervento in quanto vera e propria “microfisica del potere” chiamata, come abbiamo visto, a sorvegliare i corpi dei rifugiati, a correggerli per aumentarne le potenzialità, a posizionarli nello spazio secondo un ordine seriale, dove secondo l’età, le prestazioni, la condotta, ciascuno finiva per occupare uno specifico rango. Quello che, secondo Foucault, appunto caratterizza la tattica disciplinare11:

“Essa permette insieme la caratterizzazione dell’individuo come individuo, e l’ordinazione di una data molteplicità” (Foucault 1993, p. 162),

in modo tale che, afferma lo studioso:

“ (…) il prodotto delle diverse forze si trova maggiorato dalla loro

11Foucault, in Sorvegliare e Punire, individua nel passaggio dal Medio Evo alla modernità la

comparsa di un regime disciplinare caratterizzato dall'imposizione di tecniche che investono in modo particolare i corpi degli individui, localizzandoli, esaminandoli e bloccandoli nel movimento allo scopo di assicurarne la docilità, l’obbedienza, e, soprattutto, l’utilità. Nello specifico, Foucault scopre che la tecnica disciplinare distribuisce, innanzitutto, i corpi nello spazio, sorvegliandoli continuamente all’interno di istituzioni “panoptiche” come sono, per esempio, l’ospedale, la scuola, il carcere o la fabbrica. Le discipline danno luogo cioè a sorveglianze infinitesimali, a controlli istante per istante entro “un luogo eterogeneo rispetto a tutti gli altri”, ma insieme “analitico” e “cellulare” dove si “tratta di stabilire delle presenze e delle assenze, si sapere come e dove ritrovare gli individui” attraverso il principio del quadrillage: affidando cioè ad ogni individuo il suo posto e ad ogni posto il suo individuo. Questi posizionamenti sono posti, però, gli uni rispetto agli altri entro una relazione che è di funzionalità rispetto ad un fine preciso, sicché l’essere in uno specifico posto di una fila significa essere classificati, categorizzati a partire dalla propria funzione, (1993, p. 155). Nel corso del XVIII secolo, tuttavia, a parere di Foucault, al paradigma disciplinare si giustappone la cosiddetta “biopolitica”. Mentre le tecnologie disciplinari calibrano il loro intervento sul corpo individualizzato, la biopolitica assume invece come suo specifico referente la vita della popolazione, il corpo in quanto appartenente ad una specie biologica. In tal modo, la vita in quanto tale, con i connessi problemi di natalità, mortalità, igiene e profilassi, entra a pieno titolo nel campo della decisione politica e dell’esercizio del potere. Il funzionamento del bipotere, spiega Foucault, non esclude il ricorso alle discipline, ma ciò che egli intende marcare è come, attraverso l’adattamento dei fenomeni biologici ai processi dell’economia e della produzione, sia venuto a costituirsi un soggetto politico prima sconosciuto: la popolazione. Sul punto, si veda in particolare l’ultimo capitolo della Volontà di sapere e i corsi pubblicati in Bisogna difendere la società.

combinazione calcolata” (p. 183).

Sono queste pratiche di potere, insieme agli schemi classificatori della Convenzione, ad avere determinato l’emergenza di un preciso campo di visibilità all’interno del quale, poi, le scienze mediche, statistiche, demografiche hanno a loro volta reperito le condizioni per definire ed esprimere le proprie regole organizzative, evidenziando a livello micro, singolarità smontate, normalizzate e ricomposte in “rifugiati”, a livello macro, “popolazioni” di rifugiati da difendere, da “far vivere”, da adattare ai processi dell’economia e della produzione mediante l’individuazione dei problemi igienici, securitari, demografici collegati, per l’appunto, agli spostamenti migratori forzati.

1.4 Rifugiati de facto: lo sviluppo del sistema internazionale d’asilo

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