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L’Italia è l’unico paese in Europa che non dispone di una legge organica in materia d’asilo, ma esiste comunque un complesso apparato di norme e ordinanze amministrative chiamate a regolamentare l’istituto.

Le principali disposizioni di riferimento, in particolare, si trovano: nell’art. 10 della Costituzione italiana; nella legge 39 del 1990 come recentemente modificata dalla legge n. 189 del 30 luglio 2002, e dal relativo decreto di attuazione del 16 settembre 2004, n. 303; nelle fonti di derivazione comunitaria che hanno efficacia immediatamente vincolante sul territorio nazionale, e, dunque, nel Regolamento Dublino II (in GUCE del 25-2-2003) che, in particolare, si occupa di stabilire i criteri e i meccanismi per la determinazione dello Stato membro competente per l'esame della domanda d'asilo; e, ovviamente, nella Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata dal paese nel 1954, e, a partire da quel momento,

immediatamente vincolante.

I dati indicati nel rapporto 2004 curato dalla Caritas su “Rifugiati e richiedenti asilo in Italia” indicano la presenza di 12.386 rifugiati (contro gli oltre 900.000 ospitati in Germania), dei quali 8.580 riconosciuti in base alla Convenzione del 1951, e 3.806 titolari di protezione umanitaria. La maggior parte delle oltre 100mila domande d'asilo presentate in Italia dal 1990 al 2000 è stata inoltrata, secondo questi dati, da persone provenienti da Albania, Repubblica Federale di Jugoslavia (oggi Serbia-Montenegro), Iraq, Romania e Turchia. Nel periodo 1993-1997 a 58.500 persone provenienti dalla ex Jugoslavia e a 10.000 dalla Somalia è stato poi garantito uno status di protezione temporanea.

Le condizioni che regolano l’arrivo dei profughi in cerca di asilo in Italia, a prescindere dalla loro nazionalità, sono condizioni che i responsabili coinvolti all’interno di progetti di prima e seconda accoglienza, non indugiano a definire come “critiche” per l’assenza di un quadro normativo coerente, per la scarsità di risorse destinate dal governo centrale, e, soprattutto, a causa dell’entrata in vigore, nel 2002, della nuova legge sull’immigrazione Bossi-Fini. E cioè, di una legge che ha consacrato un indirizzo politico di “tolleranza-zero” nei confronti di chiunque giunga irregolarmente nel paese (il 90% dei richiedenti asilo), esigendo l’incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro.

Come rileva Ada Cavazzani, tale previsione ha alimentato la necessità per i migranti di ricorrere a forme diverse di ingresso, tra cui anche la richiesta d’asilo, portando ad una applicazione ancora più rigida delle procedure che regolamentano la concessione dello status di rifugiato. Un inasprimento, questo, che è coerente con le trasformazioni che hanno investito il regime internazionale di asilo nell’ultimo decennio, e che è poi comprovato dal bassissimo tasso di accoglimento delle richieste, inferiore al 10 per cento. Anche se poi, continua Cavazzani, si tratta di misure che, lungi dal bloccare i flussi di ingresso per essere le barriere sistematicamente aggirate, hanno solo prodotto un aumento progressivo delle forme irregolari di immigrazione, conducendo, a gravi situazioni di disagio e marginalizzazione anche fra i rifugiati (Cavazzani 2005, pp. 18-20).

In particolare, nei Centri di Permanenza Temporanea e Accoglienza (Cpta) istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, e, cioè, nei centri di Lampedusa, Agrigento, Trapani, di Lecce e Crotone entro cui i migranti

vengono collocati nelle ore successive agli sbarchi2, si procede all’identificazione

dei migranti e di quelli che abbiamo prima definito come profughi senza qualità: vale a dire potenziali richiedenti asilo che solo in pochissimi casi vengono ammessi alla procedura prevista ai fini del riconoscimento dello status.

Secondo un rappresentante del Consiglio Italiano Rifugiati (CIR)3, ciò che

infatti più frequentemente accade è che:

“Sulla base dei tratti somatici dei migranti si decide chi possa essere o meno considerato richiedente asilo, e, in questo caso, vengono subito esclusi egiziani, palestinesi, arabi, siriani, che, invece, potrebbero fuggire dal loro paese sulla base di motivi di persecuzione. Senza dire che quando si verificano casi di sovraffollamento a Lampedusa, e si vuole dare un chiaro segnale a chi organizza i traffici dalla Libia, o comunque un segnale di fermezza per non sfigurare di fronte ad un opinione pubblica che si è fatta sempre più esigente e spaventata, si procede ad espulsioni in massa sulla base di procedure di identificazione soltanto sommarie, che non vogliono neppure prendere in considerazione il fatto che possano esservi potenziali richiedenti asilo”.

L’individuazione dei richiedenti asilo sulla base dei loro tratti somatici, del resto, è una pratica che trova conferma anche nelle parole di una dei rappresentanti italiani di Medici Senza Frontiere4 ed in quelle di un giovane

avvocato siciliano che da tempo opera nel Cpt di Agrigento:

(Intv. Filippo, marzo 2005)

“E’ un mediatore culturale di nazionalità egiziana a decidere, all’interno del centro, chi può e chi non può presentare domanda d’asilo, e lo fa in maniera del tutto discrezionale secondo quanto mi viene normalmente riferito dagli “ospiti”.

Prima dell’entrata in vigore il 21 aprile del 2005, del “Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato” (il periodo al quale si riferisve invece questa inchiesta sul campo), ove nei Centri di Prima Accoglienza (Cpta) si veniva ammessi alla richiesta d’asilo, le Questure territorialmente

2 Come ha potuto testimoniare una importante ONG come Medici Senza Frontiera, le

condizioni di vita nei CPT in Italia sono estremamente difficili, frequenti sono le violazioni dei diritti umani, mentre telecamere, porte blindate, reti e gabbie, garantiscono la sicurezza al loro interno, sottoponendo i migranti a sistemi di vigilanza passiva 24 ore su 24. Tale rapporto, ovviamente, ha suscitato enormi proteste da parte del Ministero dell’Interno, che, infatti, ha successivamente rotto i rapporti con MSF e ristretto ulteriormente l’accessibilità nei centri.

3 Intervista effettuata nel marzo 2005 con Giorgio Bisagna, responsabile Cir di Palermo. 4 Intervista del 12 marzo 2005.

competenti provvedevano a rilasciare ai richiedenti un permesso di soggiorno della validità di tre mesi, rimettendoli in libertà subito dopo tale verbalizzazione, e comunque non oltre i 60 giorni previsti dalla legge. Nel caso contrario, quello maggioritario, i potenziali richiedenti asilo si trasformavano invece in “clandestini”5

a cui, pertanto, non restava che lasciare il paese e dirigersi altrove; rimanere in condizioni di irregolarità; ovvero, affidarsi ad un avvocato e impugnare di fronte al giudice competente il provvedimento d’espulsione.

Nei casi più fortunati di coloro che riuscivano ad essere ammessi alla procedura di riconoscimento dello status, prima dell’entrata in vigore del nuovo Regolamento, era previsto che fosse la Commissione Centrale con sede a Roma ad esaminare individualmente le domande, seguendo un procedimento che aveva una durata di circa un anno, un anno e mezzo. Sempre che, come frequentemente accadeva, il fascicolo del richiedente non venisse nel frattempo smarrito dalla Questura competente (ICS 2005).

L’intervista condotta dalla Commissione Centrale, e oggi dalle Commissioni Territoriali, poteva concludersi poi con: il riconoscimento dello status di Ginevra; il diniego della domanda, a cui era possibile ricorrere di fronte al giudice ordinario; il diniego dello status ex Convenzione, ma accompagnato dal rilascio di un permesso di soggiorno per “motivi umanitari” della durata di un anno, rinnovabile di anno in anno.

L’asilo umanitario, come si evince dalle osservazioni di un funzionario dell’Unhcr, è una misura di protezione sussidiaria a cui il sistema d’asilo italiano ricorre quando:

“ (…) dopo che sia stato effettuato un esame sul merito della domanda d’asilo, ma quando si esclude che quella persona rientri nei requisiti richiesti dall’art. 1 della Convenzione, però, per altri motivi, e nel rispetto del principio di non refoulement, si riconosce il bisogno di protezione. In sostanza, se c’è il fondato timore di persecuzione va applicata Ginevra, e non c’è nulla da discutere. Le forme di protezione sussidiaria ricorrono, invece, nei casi di guerra civile, quando la persona

5 Molte volte, come lamentava l’Unhcr, qualche avvocato riusciva tuttavia ad introdursi

all’interno del centro prima che l’espulsione venisse ufficialmente notificata, per uscire poi con decine di richieste d’asilo e obbligare gli addetti a rimettere in libertà i richiedenti così individuati. Una “strategia” che ha appunto determinato come reazione una nuova regolamentazione della materia, e, cioè, la successiva costituzione di Commissioni territoriali all’interno dei CPA, al cui interno ora direttamente si svolge la procedura di primo grado per il riconoscimento dello status. Fin ora, in particolare, è stata programmata l’istituzione di sette commissioni territoriali: a Gorizia, Milano, Roma, Foggia, Siracusa, Crotone e Trapani.

non rientra nel merino di qualcuno in particolare. Qui è difficile dire che ci sia il fondato timore di una persecuzione, anche se ricorre un conflitto basato su motivi etnici o religiosi, politici o sul concorso di questi motivi”6.

Queste argomentazioni ci aiutano a comprendere perché, alla maggior parte dei profughi provenienti da guerre civili e situazioni di violenza generalizzata, come nel caso dei profughi del Darfur che dal 2003 hanno iniziato cercare asilo in Italia, la Commissione Centrale, e oggi quelle Territoriali, rifiutano generalmente lo status disciplinato dalla Convenzione mentre la tendenza prevalente è quella di collocare i richiedenti all’interno della categoria degli “asilianti umanitari”.

Tuttavia, il problema concettuale che è emerso nelle interviste condotte con la gran parte dei sudanesi è che, nelle loro parole, nella loro specifica vicenda biografica, conflitto e persecuzione sembrano coesistere, non si contrappongono, ma si intrecciano invece e si completano reciprocamente. Questo perché può succedere che il conflitto stesso sia il metodo scelto dal persecutore per esercitare repressione o eliminare determinati gruppi: e cioè, può succedere che le persone vivono insieme situazioni di conflitto e di persecuzione, che l’essere coinvolti in un conflitto determini di per sé il fondato timore della persecuzione per motivi di razza, religione, opinioni politiche, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo.

Pur non essendovi un rapporto dicotomico tra conflitto e persecuzione individuale, come mi spiegò tuttavia il dott. Humburg, dell’UNHCR:

“ (…) spesso la tentazione, o il rischio, è che per chi provenga da una situazione di guerra civile, si dia solo la raccomandazione dell’umanitario, che dà diritto ad un permesso di soggiorno di un anno, e rinnovabile di anno in anno”.

Parole più severe nei confronti di questa pratica provengono però dal responsabile del Centro Astalli di Roma (sede italiana del Jesuite Refugee Service):

(Intv. padre Giovanni La Manna, marzo 2005)

“L’asilo umanitario è un espediente inventato, nel 1998, dal nostro

paese per sottrarsi ai vincoli che discendono dal riconoscimento dello status di rifugiato, perché l’asilo umanitario richiede che vi sia un rinnovo del permesso ogni anno, e sono tante le occasioni in cui accade che il rinnovo venga negato. E li si che la situazione diventa una situazione davvero disperata, senza via d’uscita”.

Occorre riconoscere che la situazione di quanti si trovino in possesso di un permesso di soggiorno per motivi umanitari evidenzia una situazione più favorevole rispetto a quella in cui si trovavano, invece, i richiedenti asilo prima della riforma della materia. In Italia, essi avevano infatti diritto ad un’assistenza finanziaria limitata a soli 45 giorni, mentre erano del tutto estromessi dal diritto al lavoro seppure si trattava di un’indicazione spontanea che iniziò a diffondersi all’interno delle Questure del paese. Una prassi consuetudinaria, cioè, che per questo fu duramente contestata da più parti, finché, spinti dalla società civile, i sindaci di alcune città iniziarono a distaccarsene e a criticarla apertamente.

Si trattò in quel caso di una chiara vittoria dei richiedenti asilo e delle organizzazioni che li sostennero in quella lotta, definitivamente riconosciuta nel nuovo Regolamento di attuazione della legge Bossi-Fini nella misura in cui esso esclude esplicitamente tale limitazione. Anche se la portata di questa riforma è sminuita dal fatto che il Regolamento ha di fatto reso “obsoleta” la stessa figura dei richiedenti asilo prevedendo che le loro domande siano direttamente esaminate all’interno dei Centri di Identificazione presso i quali sono confinati nelle ore immediatamente successive agli sbarchi, fino all’espletamento definitivo della procedura d’asilo.

Tenendo presente che, come accade per i Centri di Permanenza Temporanea, anche nei Centri di Identificazione non è consentito l’accesso né a giornalisti né a personale che non sia addetto a lavori, per cui non è dato sorvegliare in alcun modo ciò che accade a loro interno: e cioè, non è possibile accertare se coloro i quali si imbattono in un provvedimento di diniego siano di fatto ammessi dalle Commissioni Territoriali competenti alla procedura di ricorso contemplata dalla legge. In questi casi, evidentemente, il rischio è che essi possano essere rimpatriati nei loro paesi d’origine, ovvero, come più spesso accade, nei campi libici deputati al trattenimento di migranti sprovvisti di regolari permessi di soggiorno7.

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