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Gran parte dei sudanesi che arriva in Europa dal Mediterraneo attraversa i Centri di Permanenza Temporanea situati in Sicilia, Puglia e Calabria. Come dicevo, in questi primi passaggi, il potere politico interviene per decidere se lasciare entrare queste persone, le categorie entro cui raggruppare le loro vicende biografiche, ovvero se identificarle e subito dopo rimpatriarle in Libia, o nei luoghi dai quali esse presumibilmente provengono.

Nel tentativo rivolto a controllare l’ipotesi di questo lavoro - relativa alla possibilità di riconoscere i rifugiati come categoria autonoma nel quadro

sociologicamente più ricco della migrazione - valutando le cause della migrazione e le condizioni di soggiorno dei sudanesi in Italia, ho condotto la mia ricerca sul campo fra Roma e Palermo: le città dove si concentra la maggior parte di loro.

Palermo è una città che conta circa 700.000 persone e un numero incalcolabile di stranieri che ha deciso di fissare qui la propria dimora sebbene si tratti di uno dei territori più poveri d’Italia, afflitti da alti tassi di disoccupazione e da un potere politico mafioso che non stenta a scomparire.

Arrivare a Palermo, in Sicilia, è un po’ come arrivare in Africa. Nelle strade del centro antico, nei mercati di Ballarò e della Vucceria, a cui la città deve in parte la sua fama nel mondo, ci si trova immersi nei i colori, nei suoni, negli aromi di cibi e spezie che sono quelli dei suk e delle medine africane. E’ in questi luoghi, più che altrove, che domina la figura dei migranti: call-center e internet- point, bazar, tavole calde, parrucchiere e barbieri, macellerie, banchetti ortofrutticoli e ricoperti di merci provenienti da tutto il mondo, rivelano la presenza un’importante capacità di auto-impresa e aggregazione da parte di chi ha lasciato il proprio paese per sfuggire alla guerra, o per cercare migliori condizioni di vita.

Ovunque, nei vincoli più antichi, senza una scansione precisa del tempo, si incontrano gruppi di stranieri (di numerosissime nazionalità), che chiacchierano fra loro nei pressi di luoghi di aggregazione creati, o rivendicati, dalle comunità di migranti presenti nella città e da quanti si spendono quotidianamente per il riconoscimento dei loro diritti: da quanti, cioè, con il proprio sostegno professionale e morale, provano a contrastare le gravi situazioni di marginalizzazione e invisibilità giuridica prodotte dalle attuali politiche di controllo migratorio. Perché è qui che soprattutto ce n’è bisogno.

Ed infatti, la massiccia presenza di organizzazioni di volontariato, di avvocati e attivisti che si mobilitano continuamente per la dignità e la libertà di movimento di ogni individuo ricorda che siamo in Italia e non in Africa. Anzi, siamo in Sicilia, un’isola collocata alle porte d’ingresso dello spazio giuridico Schengen, e circondata per questo da un mare cupamente militarizzato. Un’isola nota per le tante vite che ogni anno rimangono seppellite nelle acque che la circondano; per il Centro di Permanenza Temporanea di Lampedusa, ritratto dai media di tutto il mondo in situazioni di continua “emergenza” sebbene gli sbarchi in quell’isola, poco distante dalla Sicilia, possano considerarsi un fenomeno sistemico più che

eccezionale; per la presenza di numerosi campi di detenzione per migranti che, come a Lampedusa, in maniera solo simbolica, danno l’idea di contenere l’arrivo di “orde minacciose di disperati”, e che, invece, ogni 60 giorni, aprono i loro cancelli abbandonando senza diritti e senza nome migliaia di uomini e donne provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo.

Come dicevo, l’attività di ricerca condotta a Palermo ha risposto al tentativo di indagare le condizioni di vita che connotano l’inserimento economico e sociale dei profughi del Derfur all’interno di questo contesto, accordando maggiore preferenza all’analisi relativa alle dispute e alle frizioni che si sono accompagnate a questa presenza per comprendere più da vicino le istanze che hanno prodotto tali mobilitazioni, e come queste siano riuscite a ricreare un diverso tessuto sociale di affermazione e rivendicazione.

A Palermo si contano circa 300 sudanesi, prevalentemente uomini con un’età compresa fra i 18 e i 40 anni, che da poco più di quattro anni, in continua crescita e alternanza, hanno fissato in questa città la propria dimora. Dal punto di vista abitativo, nella città vi sono due centri che, più di tutti, si occupano di offrire accoglienza ai rifugiati: quello fondato da Padre Meli presso l’oratorio di “Santa Chiara”, e vi è poi la Missione “Speranza e Carità” gestita dal Missionario Biagio Conte.

In occasione del mio primo sopralluogo sul campo, nel settembre del 2004, mi fermai in un piccolo hotel che si affacciava sulla Missione di Biagio Conte per osservare più da vicino cosa avvenisse al suo interno, e aggirare così le strette regole disposte all’ingresso.

In realtà, dopo poco mi accorsi che non c’era poi molto da osservare. Nulla accadeva lungo tutto l’arco del giorno: solo pochi ospiti sembravano affaccendati a lavare i propri panni, gli altri discutevano con i volontari che vi lavorano all’interno mentre la maggior parte si allontanava nelle prime ore della mattina, per rientrare in gruppo verso le 8 di sera. Il centro, in sostanza, era circondato da un’aura misteriosa e silenziosa che rimandava a dimesse case di cura, a luoghi d’internamento in cui gli abitanti sono trattati come corpo estraneo all’intera città. Come mi spiegò Luca Cumbo, assistente sociale palermitano, questo spazio nacque, del resto, per dare solidarietà a malati terminali, ai marginali, ai bisognosi, a gente che la città ha sempre rifiutato ed era la stessa assenza di

suoni e bambini, di spazi ricreativi, e poi la rigidità dei controlli all’accesso, che ancora evocano una struttura “carceraria” guardata con sospetto e sfavore dalla città.

La lunga strada che i migranti percorrono ogni giorno, all’entrata e all’uscita dal centro, è divenuta oggetto, infatti, di episodi di razzismo estremamente gravi come io stessa potei rilevare vedendo che i migranti che la attraversavano erano spesso insultati, oggetto di scherno, tiro a segno verso cui indirizzare uova e pomodori: vittime di episodi di razzismo che sono episodi di un razzismo di fatto istituzionalizzato nella misura in cui non concedono a chi ne è vittima gli strumenti per rivendicare la propria dignità.

Secondo Biagio Conte la metamorfosi e il sovraffollamento della Missione, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, risale principalmente al 2002:

“Quando entrò in vigore la legge Bossi-Fini, le maglie degli ingressi si chiusero, i CPT iniziarono ad esplodere, mentre a Palermo e all’uscita dai “campi” tutti iniziavano a sapere che c’era un posto sicuro dove trovare “rifugio”. Iniziai così a rispondere ad un’emergenza che non avrei mai prima immaginato, a dettare le regole della convivenza, per il bene di tutti, anche se lo so che fuori in tanti mormorano”8.

In realtà, la consistente presenza di rifugiati sudanesi presso la Missione sembra essere dovuta non tanto all’incremento dei flussi nel paese, già in corso da più di un decennio (Pugliese 2002), quanto, soprattutto, all’introduzione nel 2003 del Sistema Eurodac: un sistema disciplinato a livello comunitario, attraverso il quale si procede al riscontro immediato delle impronte digitali di quanti facciano richiesta d’asilo in Europa per garantire l’attuazione del disposto normativo contenuto nel Regolamento di Dublino nella parte in cui, in particolare, costringe i rifugiati a presentare domanda nel primo paese dell’Unione che essi attraversino una volta fuggiti dai loro paesi di origine.

A partire dalla entrata in vigore di questo sistema nel settembre del 2003, in sostanza, è accaduto che i profughi provenienti dal Sudan, consapevoli di poter regolarizzare la propria permanenza solo in Italia, abbiano accettato di arrestare qui il loro cammino per affrontare i problemi tipici di una prima fase migratoria: problemi legati all’impellenza della casa, del lavoro, dell’apprendimento di una

nuova lingua, ma aggravati in questo caso dall’assenza di una comunità diasporica preesistente e di un sistema d’accoglienza lontanamente dignitoso:

(Intv. Said, settembre 2004)

“All’inizio non avevo una chiara idea di dove volessi andare, pensavo alla Gran Bretagna, ma in generale pensavo che una volta in Europa avrei potuto vivere normalmente, in una libera democrazia. Tutti pensiamo che l’Europa sia un posto splendido, dove non c’è guerra, solo pace e armonia. Solo oggi ho capito che non è cosi: forse in Inghilterra si sta meglio, perché i miei amici che vivono là mi dicono di vivere bene, di avere una casa e un lavoro. Ma questo non è vero in Italia: qua è peggio dell’Africa. E’ in questo posto, però, che devo fermarmi. Cosi mi ha detto la polizia quando ero a Crotone”.

Il percorso migratorio compiuto da Said, in Italia ormai da 4 anni, indica un percorso che si è configurato spazialmente in virtù delle traiettorie seguite dai trafficanti di vite che operano in Africa e, soprattutto, in funzione di politiche migratorie che, mentre circoscrivono in maniera sempre più rigida le migrazioni regolari, regolano in maniera altrettanto rigida la situazione di fatto dei rifugiati che giungano nello spazio Schengen.

Per i sudanesi che arrivano in Sicilia, cioè, attendere un’intervista, prepararla nel giusto modo, ottenere un regolare permesso di soggiorno, sono passaggi che non alludono solamente a delle tappe intermedie, ma veri e propri obiettivi di lungo periodo da realizzare, dall’entrata in vigore del Regolamento di Dublino, appunto in Italia, pur consapevoli dei limiti e delle ipocrisie di un paese che si dice fondato sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma di cui i migranti in larga misura non godono:

(Intv. Said, settembre 2004)

“Quando mi hanno lasciato andare mi hanno detto di aspettare che mi chiamasse la Commissione solo che io nel frattempo non avevo nessun posto dove andare, per questo mi sono fermato nella stazione di Crotone, ho dormito là qualche giorno e solo quando ho capito che nessuno mi avrebbe aiutato sono andato verso il Nord. Gli africani che erano con me nel campo dicevano che al Nord si vive bene, che è la zona più ricca d’Italia, ma per me è stato tutto difficilissimo: mi sono trovato a dormire per strada, non sapevo cosa mangiare, ogni notte ancora pensavo alla guerra, alla mia famiglia, dispera chissà dove e chissà perché. Allora ho capito che non sarei potuto sopravivere in quelle condizioni.

Nel frattempo però ho anche capito l’Italia: che devo organizzarmi da solo in questo paese, che devo aspettare l’intervista della Commissione, perché anche se non tanto mi piace, qui posso avere un permesso. Poi

ho capito che ci sono molti altri sudanesi che vivono a Palermo. Nelle stazioni incontri tanti africani e loro ti spiegano cosa fare, ti dicono di non preoccuparti perché per tutti all’inizio è stato così. Allora ho deciso di venire a Palermo, di andare da quel Biagio (Conte)”.

(Francuà, settembre 2004)

Io dicevo che volevo andare in Gran Bretagna ma a Tiburtina mi hanno detto di lasciarci perdere, perché tanto mi avrebbero riportato qui. Ho incontrato tanti sudanesi che dalla Gran Bretagna sono stati riportati qui, e ora per loro le cose sono difficilissime. Se la Commissione non gli darà fiducia, non lo so cosa faranno”.

Lo spaesamento e lo sconforto che si accompagnano all’esilio, la vulnerabilità prodotta dalla guerra, da un estenuante viaggio, e poi, dall’impatto con la routine burocratica della società di arrivo, nel caso dei rifugiati sudanesi, ha finito per delineare, dunque, rotte alquanto specifiche. E cioè, rotte ben diverse da quelle che seguono coloro i quali intraprendono il viaggio in circostante meno traumatiche, richiamati da amici e parenti già all’estero, e in funzione di un ritorno più o meno vicino nel tempo che induce a considerare irrilevante, o comunque non vitale, l’ottenimento dello status: nelle parole di Corrado, a guardare la richiesta d’asilo come ad un mezzo utile solo “per godere di un periodo seppur limitato di regolarità” (Corrado 2005, pp. 152-154).

I profughi giunti solo recentemente dal Darfur si vedono vagare infatti tra marciapiedi e stazioni (Said), senza una meta sicura, senza un sicuro progetto, consapevoli solo di dover rimanere a vivere in Italia, anche se poi, pian piano, accade che essi inizino a ritrovarsi fra loro, a sostenersi e indirizzarsi reciprocamente nella ricerca di un posto letto all’interno dei pochi centri di accoglienza, ovvero dei casali occupati, che è possibile rintracciare sul territorio:

(Intv. Mohammed, settembre 2004)

Quando sono arrivato a Lampedusa mi hanno preso le impronte e poi, dopo poco, mi hanno portato a Crotone. Al campo di Crotone ho ricevuto inizialmente 200 euro, e poi, prima di andar via, mi hanno dato altri 500 euro insieme ad un permesso di soggiorno valido per tre mesi (come richiedente asilo, N.d.R.). All’epoca però non conoscevo nessuno. Io volevo rimanere a Crotone e ho provato dirglielo. Nella nave che mi ha portato in Italia non c’erano miei amici, solo africani che non conoscevo. Ma loro comunque mi hanno dato i soldi e mi hanno detto di andare via. “Vai dove vuoi!” mi hanno detto, “ma vai via, se no ti riportiamo nel campo”. Quindi sono ho preso un treno e sono andato a Villa San Giovanni. Alla stazione di Crotone ho incontrato una persona, un africano come me, che mi ha detto che andava a Palermo, da Biagio

Conte e che là anch’io avrei trovato da mangiare e da dormire”. (Intv. Fadil, settembre 2004)

“Quando siamo usciti dalla questura, eravamo in cinque, e abbiamo camminato a lungo senza sapere bene dove stessimo andando, e poi abbiamo chiesto a qualcuno dov’era la stazione di Agrigento. Avevo con me 100 dollari, li ho cambiati, e abbiamo preso un biglietto per venire a Palermo. Ho chiesto all’autista dove l’autobus stesse andando, e lui mi ha detto “a Palermo, nel Sud Italia”. Allora ho detto agli altri ok, va bene…e così sono arrivato, ci siamo fermati alla stazione, e quando abbiamo incrociato una persona di colore gli abbiamo chiesto di aiutarci. Noi eravamo in 5 e mi ha detto che eravamo troppi, che viveva in una casa piccolina, che non poteva portarci là, ma che avrebbe potuto prendere la macchina e portarci nella chiesa di Biagio Conte”.

Questo continuo passaparola, insieme agli effetti prodotti dal Regolamento di Dublino, come dicevo in principio, hanno portato a far sì che la struttura di Biagio Conte a Palermo, nel giro di poco tempo, si sia imposta quale principale punto di riferimento per i rifugiati Sudanesi in fuga dal conflitto nel Darfur.

Nel caso di Fadil, egli mi spiegò che da Biagio trovò in maniera del tutto casuale una nuova “casa”, degli avvocati che lo aiutarono ad impugnare l’espulsione che gli era stata in principio notificata e poi le informazioni giuste per trovare un lavoro. Al tempo del nostro incontro Fadil non si lamentava del fatto, come facevano molti suoi connazionali, che i dormitori erano alquanto affollati, né della rigida normativa che vigeva all’interno della Missione (dentro non è tollerato portare alcol o amici, viene espulso chi torna dopo mezzanotte, chi ruba o commette atti di violenza). Ed infatti, il suo problema sembrava essere solo quello di non tornare nel suo paese, e, soprattutto, di disfarsi di quel permesso, non si sa perché soltanto “umanitario”, guardato per questa ragione con rabbia e frustrazione:

(Intv. Fadil, settembre 2004)

“Finalmente è passato un mese, sono andato in questura e ho trovato il permesso PER MOTIVI UMANITARI! Gli ho chiesto perché, gli ho spiegato di nuovo i miei problemi, che io non posso tornare nel mio paese, che lì c’è la guerra, che non serve a nulla un permesso di un anno. Insomma, avevo subito capito che questo foglio non è buono e, infatti, già una volta è scaduto. Quando ho chiesto la prima volta il rinnovo del permesso, ho portato il contratto dell’azienda per cui lavoro come operaio, la Telecom, e di nuovo mi hanno dato il permesso soltanto per un anno. Ho aspettato 5 mesi e ora il permesso è di nuovo valido solo per un anno, ora mancano solo 7 mesi e di nuovo scadrà.

documento non fa per me, che è pericoloso, sempre da rinnovare, e poi ancora da rinnovare. Dall’inizio, da quando ho sentito che hai sempre bisogno di rinnovare questo documento, ho avuto paura. Cosa succede, mi sono chiesto, se a un certo punto non me lo rinnovano più? Dove vado io? non posso certo tornare nel mio paese! Non so perché non mi hanno voluto dare l’asilo politico, la mia storia è giusta, è quella vera. Gli ho detto e dimostrato che sono stato anche in galera per quasi due mesi; capita a quasi tutti i ragazzi del Darfur quando crei problemi contro il presidente”.

Come mi spiegò più tardi un medico del Cetro Astalli di Roma - una fra le più grandi strutture in Italia deputata all’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo - fra i principali problemi con cui gli operatori sono chiamati a confrontarsi vi è proprio quello che si verifica quando i rifugiati vedono tradite le loro aspettative in merito alla regolarizzazione del loro permesso di soggiorno:

(Intv. Centro Astalli, Marzo 2005)

“Sono le aspettative che cambiano completamente nel caso dei rifugiati: chi viene qui arriva con un carico di sofferenze, di violenze inimmaginabile, ma anche pieno di aspettative, perché ormai ci sono antenne ovunque, anche nei luoghi più remoti, e tutti i rifugiati arrivano in Europa sicuri di trovare più diritti, quelli che non gli vengono riconosciuti nel loro paese. Aspettative queste che vengono tradite però non appena arrivano, e quando viene tradita un’aspettativa, molti mi descrivono la stessa sensazione, mi dicono che hanno la sensazione di affogare, che gli viene a mancare l’unico salvagente cui potevano aggrapparsi: quello dei diritti”.

Queste parole assumono grande pregnanza nella misura in cui ci consentono di aggiungere un tassello in più in merito al discorso sopra affrontato sulle aspirazioni, sulle “ragioni di un percorso”, che si rendono visibili nel caso di chi è costretto a fuggire dal proprio paese di fronte al ricorso di drammatiche vicende politiche e sociali.

Se è vero, cioè, che il riferimento solo vago e sommario a parenti e conoscenti già in esilio in Italia, come la decisione di fermarsi in un paese ostile e sconosciuto solo in virtù del conseguimento di un sicuro status di protezione internazionale, sono fattori che ci inducono a pensare a spostamenti caratterizzati da più ristretti (se non nulli) margini di iniziativa, allo stesso momento, la ricerca di libertà e tutela che connotano le aspirazioni dei rifugiati, e a cui si riferisce il medico del Centro Astalli; la rivendicazione da parte di Fadil di uno status pleno iure; sono elementi che ci restituiscono immagini di soggetti ancora agenti e

consapevoli della loro stessa storia. Uomini e donne che arrivano in Europa alla ricerca di libertà a causa della natura ideologica e politica dei regimi al potere, dove l’islam non c’entra perché si tratta prevalentemente di rifugiati mussulmani che rifiutano consapevolmente la guerra ma anche la vita nei luoghi dell’umanitario secondo quanto chiaramente emerge dalle parole qui di seguito riportate:

(Intv. Said, settembre 2004)

Mia madre e i miei fratelli piccoli sono andati nel Ciad, anch’io potevo farlo, ma per quelli della mia età è un posto pericolosissimo. Là puoi trovare la polizia sudanese, tante volte riescono ad entrare anche i janjawid, perché non è facile riconoscerli…può capitare che anche gli africani si mettono dalla parte dei janjawid, e se ti vengono a prendere nei campi per andare con loro nell’esercito, o vai oppure sei morto. Io lo so per certo, è capitato tante volte e nessuno può farci niente. Per questo mia madre mi ha detto di scappare, mi ha detto era la cosa migliore per tutti, che dovevo lasciarla nel Ciad e venire in Europa. L’ho fatto solo perché la mia famiglia me l’ha chiesto, ma soffro troppo perché ho sempre paura per loro. Da quando sono partito la situazione è solo

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