Come dicevo, i vistosi cambiamenti geopolitici internazionali che si sono accompagnati alla caduta del muro, hanno avuto un impatto estremamente pregnante sulla figura dei rifugiati e sull’intero sistema internazionale d’asilo attorno ad essa costruito.
Soprattutto, le categorie fin ora esaminate diventano il segno tangibile di trasformazioni giuridiche e cognitive che puntano ad assumere le migrazioni forzate come l’effetto prodotto dal concorso responsabile di cause perlopiù
interne allo stato d’origine, ma che, dal collasso del Blocco Sovietico, giustificherebbero ora (e anzi imporrebbero) il ricorso a metodologie di protezione non più di tipo legale, ma da effettuare invece in loco per incidere sugli stessi fattori che determinano i flussi.
Da questo punto di vista, la Commissione Europea, in un comunicato del 1999, esplicitamente affermò che:
“Tutti i conflitti armati possono minacciare gli interessi politici ed economici dell’Unione Europea. Se una parte considerevole dell’Africa sprofonda nel caos e nella violenza, gli attuali problemi in materia di rifugiati, droga commercio d’armi e altre attività criminose, e di possibili attacchi terroristici, possono divenire gravi preoccupazioni per la sicurezza dell’Europa. L’Unione Europea non può rimanere indifferente di fronte al crescente numero e alla crescente intensità dei conflitti armati in Africa. La risposta a questi conflitti dovrebbe fondarsi sui generali obiettivi di contenimento, protezione e risoluzione dei conflitti, (…) prevenire che questi si diffondano in altri paesi (…) e salvaguardare gli interessi economici europei e gli investimenti effettuati in Africa” (CEC 1999, p. 7).
Costretto ad assecondare gli interessi dei suoi principali finanziatori - il governo degli Stati Uniti soprattutto (Unhcr 2000, trad. it., p. 166) -, non deve sorprendere dunque che l’Unhcr abbia rivisto in questi ultimi anni le sue posizioni premendo sugli stati affinché essi transitino da un approccio mirato all’inclusione dei rifugiati, ad un approccio rivolto, invece, a contenerli entro aree prossime a quelle di origine: in termini più eleganti, ad auspicare che il sistema internazionale d’asilo valuti la possibilità di sposare un modello “proattivo” d’intervento capace di assicurare il diritto al rientro rapido e sicuro dei profughi tramite il coinvolgimento diretto dei governi nella stabilizzazione delle condizioni economiche, politiche e sociali dei loro paesi.
Sono ormai anni, infatti, che l’Alto Commissariato lo si vede direttamente impegnato nelle aree di crisi, dove porta avanti compiti relativi all’installazione e alla gestione dei campi profughi, tanto da avere esposto non di rado i suoi stessi funzionari a situazioni di grave pericolo e, talvolta, mortali. Ma, come dicevo, il contributo svolto dall’Unhcr negli ultimi tempi è stato soprattutto quello di partecipare alla formulazione, alla specificazione di nuovi concetti - quello, per
esempio, di “in-country protection”, di “protezione temporanea”, di “corridoio umanitario” - che mentre assicurano ai paesi occidentali la possibilità di contenere i profughi lontano dai propri confini, offrono loro la possibilità di conquistare nuove aree di influenza strategica.
Da questo punto di vista, occorre tenere presente infatti che, a partire dagli anni ’90, “i diritti umani”, la “dignità della persona”, l’“umanità”, sono state assunte dagli stati quali categorie in nome delle quali intervenire e schierare i propri soldati, legittimando il diritto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di porre rimedio anche alle situazioni di esodo forzato attraverso azioni e guerre di tipo umanitario. Tenendo presente che fu espressamente sulla base dei fenomeni di “pulizia etnica” e dei conseguenti processi di esodo avvenuti nel Kosovo che la Nato decise di dichiarare guerra alla Serbia nel 1999; e, ancora, che l’America e la Francia decisero di intervenire militarmente ad Haiti, nel 2004, sulla base della dichiarata necessità che allora si imponeva di frenare le cause e i processi di sfollamento che sconvolgevano in quel periodo l’intero paese. Di fronte all’ennesima tragedia del mare in cui hanno trovato la morte nel Canale di Sicilia profughi provenienti dalla Liberia e dalla Sierra Leone, l’Europa e la Libia si impegnarono invece, nel 2003, a siglare tra loro accordi di riammissione e cooperazione internazionale di nuovo in virtù di pretestuosi “motivi umanitari”. Pretestuosi poiché essi si sono di fatto limitati ad installare in Libia, un paese che non ha ancora ratificato la Convenzione di Ginevra, campi d’accoglienza dislocati in mezzo al deserto: “sportelli” attraverso cui procedere allo smistamento extraterritoriale delle domande d’asilo provenienti dal nord Africa1.
La volontà di manipolare il regime internazionale d’asilo per finalità né a- politiche né completamente umanitarie riguarda, peraltro, dinamiche interdipendenti per cui i rifugiati vengono da più parti utilizzati in maniera cinica, esasperando o prolungando guerre, miseria e sofferenza. I luoghi privi di interesse strategico, per esempio, sono spesso complici nel caratterizzare i flussi che lì si dirigano come crisi umanitarie ove questo implichi che siano le organizzazioni internazionali a doversene occupare. Ovvero, in questi casi, la presenza di profughi può diventare un efficace strumento attraverso il quale
1 Un ampia documentazione delle risoluzioni adottate in quei contesti e del ruolo che è stato lì
attribuito al “problema dei rifugiati” in relazione alla necessità dell’intervento interno, si trova in Loescher 2001, pp. 175-178.
potere accedere a sostanziosi finanziamenti internazionali, come è stato vero per il Burundi che, in cambio dell’installazione sul proprio territorio di oltre 50 campi per la sistemazione “forzata” dei rifugiati provenienti dal Ruanda, ricevette la ricompensa di 42 milioni di dollari, mentre la Banca Mondiale, nel 2000, assicurò al paese un credito di 35 milioni di dollari per “stabilizzare” la sua economia (Marcon 2002, p. 65).
In sostanza, attraverso il richiamo alla logica legittimante sull’universalità dei diritti dell’uomo che pervade questo nuovo “scenario giuridico globale”, è stato possibile assistere ad uno slittamento concettuale dal problema della protezione internazionale da offrire ai rifugiati a quello delle soluzioni da adottare nei loro paesi d’origine, che, come spiegavo precedentemente, ha portato ad enfatizzare il diritto al ritorno dei rifugiati e non più, invece, il loro diritto ad ottenere asilo politico in un altro paese. Scrive, appunto, Loescher:
“I governi non insistono più sul “diritto di fuggire” ma enfatizzano invece il “diritto a restare” e il “diritto a tornare”. Il principio fondamentale di questo nuovo orientamento è che è responsabilità dei governi assicurare ai propri cittadini di vivere una condizione umana e sicura, di garantire i rispetto dei loro diritti fondamentali. Cosicché essi innanzitutto non divengono rifugiati, o quantomeno possano tornare nel proprio paese in una condizione di sicurezza. Un altro principio è la percezione che la comunità internazionale possa evitare o migliorare gli spostamenti di rifugiati se viene presa l’iniziativa di ridurre o eliminare i rischi e le minacce che obbligano i rifugiati ad abbandonare il proprio paese e cercare asilo altrove” (Loescher 2001, p. 173).
Tale ingerenza umanitarista effettuata in nome dei diritti dei rifugiati si trova, oggi, al centro di un accesissimo dibattito che vede schierati i fautori dell’“universalismo giuridico” contro coloro che, invece, denunciano il rischio che la dottrina dei diritti dell’uomo possa sfociare in una sorta di “imperialismo dei diritti umani” in cui l’Occidente persegue interessi strumentali e inconfessabili (Gambino 2001). Come nota Marcon, infatti:
“Gli interventi umanitari sono all’insegna della semplificazione nel rapporto con i partner e con i governi locali: infatti nelle situazioni di emergenza l’intervento è “gerarchico” e non ha
bisogno di tante consultazioni con i “locali”. L’intervento umanitario è inoltre molto efficace politicamente: spesso è un ottimo strumento di intromissione negli affari interni di un altro paese. E funziona bene da copertura anche per le operazioni militari. Ovviamente, l’accezione “umanitaria” funziona molto bene anche come restilyng del vocabolario internazionale, quando si accompagna a un termine tremendo come “guerra” o a uno assai discutibile come “ingerenza”’ (Marcon 2002, p. 59).
Ed ancora, con specifico riferimento ai termini in cui si svolgeva il dibattito internazionale sull’emergenza dei profughi nel Darfur, scriveva Il Manifesto, anticipando ciò che sta avvenendo in questi giorni che:
“Da quando la fine del bipolarismo preclude ogni vera dialettica, esse (le grandi potenze) – di fatto, nelle condizioni attuali, gli Stati Uniti e l’Europa nelle sue varie espressioni – hanno anche la possibilità di dar corso ai loro verdetti…E’ molto difficile che nel discorso politico corrente ci si chieda perché in Africa ci siano i failed states o perché nel 1994 in Ruanda ci siano stati eccidi di quelle proporzioni. Tutto viene ridotto alla tempistica di ipotetici e “mitizzati” interventi dall’esterno per prevenire, impedire o rimediare…Questa volta l’obiettivo sarebbe il Sudan con riguardo all’emergenza umanitaria del Darfur. Sono presenti tutte le premesse giuste. C’è una situazione turbolenta sullo sfondo di una giurisdizione incerta ed eventualmente illegittima, ci sono le violenze, ci sono i profughi…Se poi l’intervento umanitario avesse successo, potrebbe scapparci anche una bella presenza militare in una zona nevralgica” (Il Manifesto, 25 luglio 2004).
Nella filosofia dell’ingerenza umanitaria molti osservatori ritrovano, insomma, i contorni di una sofisticata strategia che occulterebbe ambigui obiettivi di più ampia portata legati al desiderio di sbarrare i propri confini, e, contemporaneamente, di interferire sull’altrui sovranità. Ed è qui che si aprono di fronte a noi valutazioni etiche e politiche estremamente complesse se è vero che, soprattutto dopo l’11 settembre, la realtà sociale contemporanea non è più pensabile in termini di mondi, nazioni o comunità isolate, radicate e indipendenti fra loro, laddove, al contrario, l’obiettivo generale di questo nuovo “ordine globale” sembra essere quello dell’affermazione nel mondo dell’ideologia liberista, il cui successo è legato però all’accaparramento delle fonti energetiche. E cioè, nelle
parole di Sivini, all’imposizione di una nuova “geopolitica dell’energia” che trasferisce la vulnerabilità dell’Occidente, dovuta alla interdipendenza dalle risorse del Medio Oriente, sul piano di una possibile minaccia esterna (Sivini 2003, p. 36).
Il linguaggio utilizzato per concretizzare tali mire espansionistiche sembra essere appunto quello dei diritti umani, e proprio la figura dei rifugiati diventa spesso centrale per garantire la compatibilità che oggi si dà fra guerra e democrazia, nei luoghi d’origine o d’intervento, come in quelli di destinazione. Una circostanza che spiega perché gli stati non procedono a cancellarla dai propri ordinamenti per quanto poi tendano chiaramente ad assumerla come categoria minacciosa, dannosa per lo sviluppo economico, e, perciò, non più “meritevole” di riabilitazione secondo quanto invece avveniva lungo tutto il periodo di sviluppo fordista.