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In seguito alla repressione della rivolta tibetana del 1959, il 31 marzo di quello stesso anno il Dalai Lama abbandonò il Tibet insieme a circa 80.000 persone per chiedere asilo politico all’India, che, da parte sua, rispose prontamente a quelle richieste. Ed infatti, nonostante il paese sia stato quello ad aver per primo riconosciuto la piena sovranità cinese nel 1954, esso ebbe interesse a condannare quell’occupazione allo scopo di allertare l’opinione pubblica mondiale in una fase durante la quale si trovava in aperto conflitto contro la Cina (Norbu 2001, p. 208).

In particolare, non appena i tibetani arrivarono in India vennero collocati in appositi campi costruiti nel West Bengala e nello stato del Missamari dove ricevettero interventi di prima assistenza in attesa di essere trasferiti altrove in maniera permanente. Nonostante ciò, moltissimi di loro morirono in quella fase a causa dei repentini cambiamenti climatici e alimentari cui dovettero assoggettarsi, ragione per la quale, dopo poco, il Dalai Lama propose al governo indiano di reinsediare i profughi in luoghi più freddi e ad altezze più elevate. Assecondato in

tali richieste, dalla fine degli anni ’60, vennero costruiti 95 campi lungo il confine Nord dell’India (in Darjeeling, nell’Himachal Pradesh, nel Sikkim e in Kashmir), dove, appunto, i tibetani iniziarono la loro lunga marcia verso la ricostruzione e l’autorganizzazione.

Si è trattato - come meglio vedremo in seguito - di esperienze portate avanti con grande determinazione, grazie anche al sostegno ricevuto dal governo americano, all’opera del Central Tibetan Relief Commitee (CTRC) e di agenzie internazionali come CARE e la Croce Rossa Internazionale, ma, soprattutto, grazie all’apertura del governo indiano, al suo approccio estremamente flessibile e dialogico facilitato, in questo, dall’assenza di un rigido quadro legislativo di riferimento in materia di asilo e rifugiati.

Occorre notare, infatti, che l’India è uno dei pochi paesi nel mondo che non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra giudicando la definizione di rifugiato che è là contenuta come una definizione marcatamente eurocentrica, espressione di una visione dei diritti e delle libertà di stampo essenzialmente occidentale. Ancora oggi il paese si rifiuta, inoltre, di rivedere la sua posizione rilevando come, nello stesso momento in cui venisse considerato “paese terzo sicuro” (safe third country), si aggraverebbero a suo carico gli oneri previsti in materia di protezione internazionale a causa della la sua peculiare posizione geografica: e cioè, vista la vicinanza che vi è ad aree toccate da alcuni dei più importanti spostamenti migratori forzati che si registrano in questo momento nel mondo. Spostamenti come quelli che interessano oggi la Birmania, l’Afghanistan, il Tibet, il Bangladesh, lo Sri Lanka ed il Nepal (Dhavan 2004).

Tanto meno esiste in India una regolamentazione nazionale certa che si occupi di disciplinare la materia dell’asilo politico, per cui i rifugiati sono di fatto sottoposti alle medesime disposizioni che regolano la posizione degli stranieri. Si tratta, in particolare, delle disposizioni contenute nel Foreigner Act del 1946, secondo cui si considera “straniero” colui che non possiede la cittadinanza indiana, e si tratta poi di alcune disposizioni di rilievo costituzionale dettate in materia di libertà.

Anche nei confronti degli stranieri, si applica infatti quanto previsto dall’art. 21 della Costituzione, dove è sancito il principio secondo cui nessuno può essere privato della vita o libertà se non secondo le procedure previste dalla legge. E,

come previsto dalla Suprema Corte, la più alta Corte dello stato - dopo una serie di pronunce che si muovevano, invece, nella direzione opposta -, da tale norma discende la regola per cui il potere del governo di espellere gli stranieri non può considerarsi assoluto e illimitato ma, in questo caso, occorre invece dimostrare che si tratti di una decisione “giusta, ragionevole e ponderata”. E cioè, nel caso specifico dei rifugiati, la Suprema Corte, occupandosi di sviluppare una serie di riflessioni sul rapporto che l’ordinamento indiano intrattiene con quello internazionale, è giunta a riconoscere il carattere immediatamente vincolante sul territorio dello stesso principio del non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, prevedendo, per l’appunto, che non possono essere respinti verso i territori di provenienza quegli stranieri che potrebbero da ciò riceverne una minaccia per la propria vita o libertà a causa della loro razza, religione, nazionalità, delle loro opinioni politiche, ovvero della loro appartenenza ad un dato gruppo sociale.

Progressivamente, altre garanzie sono state estese poi ai rifugiati cosi come agli stranieri in generale. Si tratta del diritto d’uguaglianza (art. 14 cost.); del diritto già menzionato contenuto nell’art. 21; del diritto di praticare e professare liberamente la propria religione e di quei diritti che, di volta in volta, vengono disciplinati da specifiche leggi municipali, mentre spetta ai distretti locali il compito di rilasciare le cosiddette “registration card” (RC) a coloro i quali non siano cittadini indiani (Chimni 2002).

Tali previsioni, tuttavia, continuano ad essere considerate ancora poco rassicuranti da parte dell’Unhcr, che sollecita infatti di continuo il governo indiano affinché esso proceda alla ratifica della Convenzione ribadendo come la posizione di chi è rifugiato nel paese continui a rimanere assoggettata a valutazioni di carattere meramente discrezionale. E questo, si noti, nonostante l’India, dallo stesso momento in cui raggiunse l’indipendenza, ha saputo mostrare grande sensibilità in tutti i casi in cui si siano verificati episodi di esodo in massa rispondendo, nonostante i limiti delle sue risorse, ai bisogni di volta in volta espressi da coloro i quali hanno cercato asilo sul territorio. Lo fece nei confronti dei cosiddetti partion refugee provenienti dall’est Pakistan in seguito alla fine dell’imperialismo britannico (si trattò di circa 7 milioni di persone); più tardi, non chiuse i propri confini neppure di fronte all’esodo degli oltre 10 milioni di rifugiati

causati dalla lotta che portò nel 1970-71 l’Est Pakistan alla piena indipendenza, e, dunque, alla nascita dello stato del Bangladesh; ancora oggi accoglie ogni giorno migliaia di rifugiati provenienti dal Nepal, dallo Sri Lanka, dalla Birmania. Ma, soprattutto, l’impatto benefico che ha prodotto l’assenza di un “eccesso normativo”, bene lo si intravede ove ci si soffermi sulla vicenda dei tibetani.

Il governo indiano, dal suo canto, ha infatti svolto un ruolo fondamentale e imprescindibile nel loro processo di “riabilitazione” e autorganizzazione offrendo a Dalai Lama terre per il suo popolo e disponendo elevate cifre di denaro per la costruzione di immobili e infrastrutture negli insediamenti che si sono via via andati formando. Allo stesso tempo, però, e in virtù di tale approccio, i tibetani hanno potuto a loro volta realizzare eccellenti riscontri sul piano economico concentrandosi, in particolare, nelle attività manifatturiere e nell’agricoltura. Attività che gli hanno permesso di dotarsi di strutture sociali estremamente efficienti (scolastiche, religiose, dedite all’assistenza dei nuovi arrivati e degli anziani), ma che hanno allo stesso momento riqualificato e valorizzato il territorio indiano grazie alla rimessa a coltura di terre prima dimesse che, oggi, contribuiscono in modo rilevante al fabbisogno alimentare dell’India. Tenendo presente che negli insediamenti agricoli sottoposti al controllo dell’Amministrazione Centrale Tibetana vivono ormai due milioni di persone, e che molti indiani vi hanno in questi anni trovato un sicuro impiego.

Tra il governo in esilio presieduto dal Dalai Lama e quello indiano, in questi cinquant’anni, si è sviluppato cioè un clima cordiale di collaborazione e co- progettazione che ha garantito riscontri positivi per entrambi, al di là di convenienze dettate dal panorama politico internazionale e grazie invece al rispetto incondizionato dei principi di solidarietà e di convivenza pacifica che dovrebbero sempre informare le relazioni fra popoli e territori.

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