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Per oltre mezzo secolo il Sudan è stato teatro di un conflitto tra la sua parte settentrionale arabo-mussulmana e quella meridionale cristiano-animista che ha portato alla morte di 2 milioni di persone e prodotto oltre 5 milioni di profughi. Sulla base di queste cifre, la guerra civile nel Sudan può essere considerata forse la più lunga e cruenta guerra civile che mai vi sia stata in Africa, scoppiata già prima dell’indipendenza del paese e aggravatasi soprattutto quando, nel 1983, il regime di Gaafar Muhammad Nimeiri lo divise in tre distinte regioni, imponendo l’arabo e la legge coranica nel Sud come connotati essenziali dello stato.

Qui, tuttavia, egli si trovò di fronte ad una popolazione prevalentemente cristianizzata che, perciò, reagì al Fronte Nazionale Islamico di Nimeiri riorganizzandosi nel Sudan’s People Liberation Movement/Army: un gruppo politico composto da uomini e donne provenienti da tutto il Sudan che, per oltre 37 anni, si sono opposti al regime imposto dal Nord fino a quando, nel gennaio 2005, le due parti sono finalmente addivenute ad un accordo transitorio di sei anni durante il qual è previsto che il Sud possa godere di maggiore autonomia politica.

La tenuta di questo accordo, tuttavia, è ancora da verificare tenendo presente che oggi esso si trova pesantemente minacciato dallo scoppio di un nuovo conflitto nelle regioni del Darfur: un conflitto già definito dalle Nazioni Unite

come “la peggiore emergenza umanitaria attualmente in corso nel mondo” (Panozzo 2005).

Per comprendere le ragioni di questo nuovo conflitto occorre ripercorrere le vicende storiche e politiche che hanno caratterizzato la regione nel secolo scorso. In particolare, si deve considerare che per circa tre secoli il Dar Fur è stato governato da un sultanato autonomo, mentre, solo nel 1916 è entrato a far parte del Condominio anglo-egiziano. A partire da quel momento, viste le caratteristiche etniche della regione – abitata da circa trenta gruppi diversi, molti dei quali di origine africana, anche se tutti in larghissima maggioranza islamizzati – e la posizione geografica al confine con l’Africa equatoriale francese, gli inglesi decisero di chiudere il Darfur e di attuare un’amministrazione indiretta basata sulla concessione di determinate parti del territorio a ogni singolo gruppo etnico. Solo le popolazioni completamente nomadi rimasero senza un terreno stabilito, ma per decenni esse poterono continuare a spostarsi e a pascolare il proprio bestiame sulle terre di altre popolazioni, affidandosi a un diritto consuetudinario stabile e duraturo.

A partire dagli anni Ottanta, però, le continue siccità, la desertificazione, l’espansione delle imprese agricole meccanizzate e l’abbandono decennale da parte di Khartoum, unito al gran numero di armi in circolazione nella regione, sono mutamenti che hanno iniziato a provocare una serie di conflitti locali tra agricoltori sedentari e allevatori nomadi. Tuttavia, mentre gli scontri tra gli agricoltori per lo più africani e gli allevatori arabi si incancreniva, il centro iniziava a sposare una politica di netto favoritismo nei confronti di coloro che venivano considerati e si consideravano arabi, offrendo allo SPLM/a l’opportunità di allearsi con le popolazioni locali del Darfur al fine di garantirsi reciproco supporto. Tenendo presente che, come in tante altre aree periferiche, già durante la metà degli anni Sessanta anche nel Darfur si costituì un partito politico regionale di opposizione, il Fronte per lo sviluppo del Darfur, la cui azione si caratterizzava in quanto appunto diretta a chiedere più tutele per una regione cosi particolare e dimenticata.

Negli ultimi vent’anni, dall’instabilità di questo quadro ne sono derivate lotte e schermaglie estremamente cruenti, sebbene è solo dal febbraio del 2003 che il conflitto ha subito un’escalation tale da catturare l’attenzione di tutta la comunità

internazionale.

A partire dal 2003, secondo una strategia già seguita nel Sud Sudan, il governo di Khartoum ha armato infatti le milizie arabe janjawid legittimandole a ricorrere alla strategia della “terra bruciata” contro i due principali gruppi ribelli che si sono nel frattempo costituiti in opposizione al governo - si tratta del Sudan Liberation Army (SLM/a) e del Justice and Equality Movement (JEM). Una strategia, quella della “terra bruciata”, che rimanda ad una guerra combattuta “per procura” da milizie informali che attaccano, bruciano e radono al suolo villaggi e campi, che commettono violenza sulle donne affinché abbiano una discendenza araba, inseguendo come fine ultimo “non solo la vittoria sugli avversari, ma soprattutto la disgregazione totale delle comunità oggetto degli attacchi” (Panozzo 2005, p. 145).

Queste violenze, accompagnate e seguite da frequenti bombardamenti governativi, negli ultimi tre anni hanno già provocato circa 200.000 morti, oltre due milione di sfollati e drammatiche carestie (HRW 2004), rivelandosi in grado di “liberare” i terreni che il governo intende utilizzare per l’ampliamento di progetti agricoli meccanizzati e per estrarre il petrolio. Ed infatti l'oro nero c'è, come ne ha dato conferma il ministero dell'energia sudanese annunciando di aver iniziato le perforazioni dal sottosuolo del Darfur nell’estate del 2005. Tutto ciò, mentre proseguono abusi e torture1 a cui non hanno posto fine né le numerose

risoluzioni già adottate dalle Nazioni Unite dal luglio del 2004 – risoluzioni che subordinano l’invio di migliaia di “caschi blu” sul territorio al consenso del governo sudanese, andando incontro alle resistenze opposte dai paesi che intrattengono con esso buoni scambi commerciali - né l’accordo di cessate il fuoco firmato nel maggio 2006 tra il governo sudanese e la fazione dell’Esercito di Liberazione del

1 E’ quanto si evince dalla nota del febbraio 2006 su La posizione dell’UNHCR sui richiedenti

asilo sudanesi provenienti dal Darfur. E’ pubblicata sul sito dell’organizzazione:

www.unhcr.it. Inoltre, secondo quanto riportato sul sito dell’Unhcr Italia: “Attualmente l'UNHCR dispone di tre uffici in Darfur - ad El Geneina, capitale del Darfur occidentale, a Zalingei nella parte orientale e a Nyala, nel sud – e sta lavorando per rafforzare la propria presenza con l’apertura di altri sei uffici nel Darfur occidentale e di un ufficio ad El Kasher, nel nord. Inoltre l’Agenzia dispone di un team itinerante di operatori, che si sposta tra i villaggi del Darfur occidentale, particolarmente nella zona di confine con il Ciad, per monitorare le condizioni degli sfollati e per cercare di raccogliere indicazioni relative a possibili flussi di rifugiati verso il Ciad. Compito del team mobile è anche quello di assistere le persone che manifestino l'intenzione di fare ritorno alle proprie case. In Darfur occidentale inoltre l'UNHCR e le agenzie partner hanno istituito 23 centri per fornire sostegno alle donne sfollate che hanno subito gravi traumi”.

Sudan facente capo a Minni Minawi.

Tale scenario, peraltro, oggi può essere pericolosamente aggravato dalle tensioni internazionali che si stanno verificando fra il governo del Ciad, dell’Eritrea e quello del Sudan, là dove, è in questi paesi che i sudanesi hanno cercato asilo negli ultimi vent’anni continuando a battersi contro il regime militare di Omar al- Beshir. Ed infatti, oggi politici e intellettuali sudanesi della NDA si trovano praticamente in ogni parte del mondo: oltre che nei paesi citati, anche in Egitto, il Libia, negli Stati Uniti, in Olanda, Inghilterra e, da pochi anni, anche in Italia. Questo spiega perché studiosi e intellettuali tendano generalmente a riferirsi ai sudanesi in esilio come a comunità diasporiche legate dalla terra d’origine, da un “nemico comune”, e dalla speranza del ritorno (Grabska 2005).

Particolarmente attivi in esilio sono soprattutto i partiti e i movimenti che compongono la National Democratic Alliance, un gruppo di cui fa parte anche l’SLM, e che ha il proprio quartier generale ad Asmara, la capitale eritrea. Considerando che circa 200.000 rifugiati si trovano da oltre tre anni nei campi profughi là costruiti per mano dell’Unhcr, mentre la popolazione sudanese già risulta tra le prime tre sia nella statistica relativa al numero dei rifugiati e dei richiedenti asilo nel mondo, che in quella relativa invece al numero delle Internally displaced persons (U.S. Committee for refugees 2004).

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