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Sin dal suo arrivo in India, il Dalai Lama non solo negoziò attivamente le determinanti che avrebbero dovuto informare l’insediamento dei rifugiati in esilio, ma, nel 1960, egli stabili a McLeodganj, nell’Himachal Pradesh, la sede di quella che viene normalmente indicata come l’Amministrazione Centrale Tibetana: un organo che si è imposto nel tempo come vero e proprio “Governo in Esilio” in

quanto dotato di Ministeri e Sottoministeri, basato sull’elezione diretta del Primo Ministro e, dal suo insediamento, auto-proclamatosi come la sola struttura legittimata a: a) rappresentare il popolo tibetano; b) fissare le modalità dell’accoglienza e riabilitazione dei profughi; c) restaurare l’indipendenza nel Tibet.

Grazie a tale articolata organizzazione, i tibetani, in quasi cinquant’anni di esilio, hanno potuto affermarsi come “minoranza” all’interno di un contesto rispetto al quale si sono posti in un rapporto di riverenza gerarchica, ma rifiutando percorsi di piena assimilazione, ovvero di sottomessa marginalizzazione. Una minoranza pertanto deterritorializzata in quanto caratterizzata dalla perdita del legame con la terra di origine, entro cui le persone non hanno cessato di possedere però “le proprie località”.

Ed infatti, il nodo fondamentale della diaspora tibetana ha riguardato, anzitutto, la questione di come ricostruire il Tibet come nazione presso un paese terzo attraverso la continua rivendicazione della propria specifica e differente identità, secondo quanto bene emerge dalle parole pronunciate dal Dalai Lama in occasione di un’intervista rilasciata nel 2003:

“Dal mio punto di vista – disse - la questione dell’esilio riguardò molto più che la semplice necessità della sopravvivenza fisica. In Tibet venne soprattutto minacciata la nostra stessa identità. Il nostro unico, ricco e antico patrimonio culturale, rischiò di essere completamente distrutto insieme alla nostra vita, alle strutture sociali, alle istituzioni monastiche; tutti i capisaldi della nostra educazione e cultura furono messi sotto sopra. Il compito degli esiliati non fu pertanto quello di mettere solo il mondo a conoscenza di ciò che accadeva in Tibet, e di chiedere aiuto perché ciò cessasse, ma soprattutto di organizzarsi per preservare quelle tradizioni nel miglior modo possibile” (H.H. Dalai Lama 2004, p. v – traduzione nostra).

Già queste poche, iniziali, parole sintetizzano in modo efficace tutta la peculiarità di questo spostamento, dove il nodo affrontato dall’Amministrazione Centrale ha avuto evidentemente a che fare con la necessità di garantire la sicurezza e l’integrazione economico-sociale dei rifugiati in un contesto radicalmente diverso rispetto a quello dal quale essi provenivano. Ma, soprattutto, la questione posta dal Governo in Esilio è stata quella relativa alla necessità di garantire e promuovere la “riabilitazione” in India, spirituale e culturale, dei profughi, e di farlo propagandando i principi del nazionalismo. In particolare, il

principio che assegna ad ogni popolo il diritto di diventare padrone del proprio destino (Tuccari 2001). E questo anche perché, mi spiegò il responsabile dell’Unhcr in India, Mr. Lennart Kotsalainen, tale visione non occasionò alcuno scontro con il governo indiano:

(Intv. Kotsalainen , giugno 2005)

“Quando i primi esiliati giunsero in India, solo in pochi conoscevano l’hindy o l’inglese, cosa che rendeva estremamente difficile, soprattutto per i più anziani, la possibilità di un loro vero inserimento economico e sociale. Questa evidenza finì per spingere lo stesso governo indiano a voler garantire, da un lato, uno schema di intervento compatibile con la preservazione della cultura e delle tradizioni proprie all’identità tibetana. Mentre, dall’altro lato, riconoscere il Dalai Lama come soggetto legittimato a intercedere in nome del suo popolo consentì all’India di delegare in maniera certa le responsabilità e i compiti dell’Amministrazione Centrale nell’accoglienza dei rifugiati.

Ed infatti è l’Amministrazione Centrale che si occupa di accertare l’identità dei nuovi arrivati e il loro diritto a risiedere sul territorio”.

Posto di fronte all’esodo in massa dei tibetani, l’allora Primo Ministro indiano Jawaharlal Nehru non solo riconobbe, cioè, all’Amministrazione Centrale il diritto di dotarsi di una sua autonoma organizzazione politica (per quanto essa non sia stata ufficialmente riconosciuta) e di procedere essa stessa all’identificazione dei “nuovi arrivati”, ma, distaccandosi dal paradigma assimilazionista - che, come è noto, ha costituito invece la prospettiva egemone in Occidente fino a tutti gli anni ’60 - egli sposò un approccio pluralistico che riconobbe ai profughi il diritto di mantenere la loro lingua e le loro tradizioni, fino ad ammettere la costituzione di un sistema di istruzione per i più giovani completamente autonomo e, però, pienamente riconosciuto3. Un sistema che, in questo mezzo secolo che è

trascorso, si è rivelato l’arma che di più ha consentito la “fissazione” e, dunque, la continua trasmissione dell’“identità” tibetana, facilitando in modo estremamente rilevante lo sviluppo di un sentimento nazionale e, dunque, il tentativo dei profughi di riorganizzarsi in India come vera e propria comunità nazionale deterritorializzata. Ovvero, più correttamente, come diaspora nei termini in cui

3 Oggi si contano circa 82 scuole tibetane, divise fra l’India il Nepal e il Bhutan. Esse

appartengono a quattro differenti categorie in rapporto alla loro piena o parziale autonomia dal governo indiano, e i loro obiettivi centrali riguardano: a) la trasmissione di una moderna educazione che metta in grado gli studenti di confrontarsi adeguatamente con le sfide imposte dall’attuale scenario globale e di poter provvedere un giorno alla ricostruzione del Tibet; b) lo sforzo di consentire la preservazione della ricca tradizione culturale, religiosa e identitaria tibetana. Per un approfondimento, si v., T. Rigzin (2004, pp. 266- 278).

tale categoria viene descritta da Cohen (1997), decifrabile in tutta la sua specificità solo a partire dal senso di perdita che i profughi portavano e portano tutt’ora con sé, e da come esso è stato ritematizzato e tradotto nella definizione degli interessi del Governo In Esilio.

6.4 L’insediamento presso il Tibetan Refugee Self-Help Centre: “Fieri

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