Situato a nord dell’Himalaya, tra l’India e la Cina, il Tibet ha una superficie di circa 2,5 milioni di Kmq. La popolazione è attualmente stimata in 6 milioni di abitanti, contro più di 7 milioni di coloni cinesi insediati sul territorio. La questione relativa, però, all’indipendenza tibetana è oggetto di una annosa disputa tra quanti, da una parte, affermano che solo a partire dal periodo imperiale britannico venne messa in discussione la sovranità cinese sulla regione, e coloro i quali sostengono, invece, che il Tibet era una uno stato a sé, pienamente indipendente, fino all’occupazione del 1949.
L’India, in particolare, fu il primo paese a riconoscere il Tibet come parte della RPC nel 1954 (si tratta del Panchsheel Agreement), e, secondo gli avversari della tesi secessionista, se prima della Guerra fredda anche Washington si muoveva lungo questa direzione, non appena iniziò l’avanzata del partito comunista cinese tale indirizzo mutò radicalmente.
Ciò a cui si allude, in questo caso, è che nell’immediato dopoguerra la questione tibetana iniziò ad essere manipolata dagli Stati Uniti nel tentativo di porre le condizioni per un cambiamento di regime a Pechino. Ne sarebbe riprova il fatto che guerriglieri tibetani vennero addestrati nel Colorado e poi paracadutati
in Tibet fino al disgelo dei rapporti con Mao nel 1971. In questo contesto, seguendo tale ricostruzione, si sarebbe appunto sviluppato il nazionalismo tibetano e, più tardi, la nota rivolta del 10 marzo del 1959, conclusasi con l’esilio in India di quella che allora era, e tutt’ora rimane, la massima autorità politica e temporale del popolo tibetano: Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama.
Se questa ricostruzione finisce il più delle volte per denunciare il Dalai Lama come il capo di una rivolta reazionaria, anticomunista e marcatamente filo- occidentale, altri studiosi ricordano invece come fu egli stesso ad accettare durante il periodo dell’imperialismo britannico la collaborazione delle truppe cinesi. Queste, tuttavia, non appena giunsero in Tibet iniziarono a dedicarsi alla distruzione dei monasteri e a reprimere le prime fiamme dell’insurrezione tibetana finché, nel 1951, il Dalai Lama accettò un accordo secondo il quale il governo cinese si impegnava a riconoscere l’autonomia della Tibet e il suo potere temporale, ottenendo in cambio competenza esclusiva in materia di affari internazionali e, soprattutto, che le truppe tibetane si riorganizzassero attorno all’Esercito di Liberazione Popolare (si tratta del cosiddetto “17-point Agreement”)1. Anche questo patto, tuttavia, fu disatteso tanto che, prima nel
1956, e poi nel 1959, Pechino scatenò una delle sue offensive più sanguinose contro il popolo tibetano ricorrendo a 150.000 soldati e a bombardamenti a tappeto (Kharat 2003, pp. 281-320).
Le stime, a prescindere dalle due diverse interpretazioni, ci dicono che su seimila templi e monasteri censiti prima del 1959 non ne resta intatto neanche uno; che un milione e duecentomila tibetani, un quinto della popolazione, morirono come risultato dell’occupazione cinese; altri 70.000 tibetani furono deportati nei campi di lavoro (laogai), mentre, fino ad oggi, quasi 1 milione di persone ha lasciato il Tibet per raggiungere i diversi insediamenti tibetani che, in questi cinquat’anni di esilio, si sono andati formando. Ancora oggi, inoltre, riassumendo quanto ci viene riportato da Amnesty e da Human Rights Watch, organizzazioni riconosciute a livello internazionale per l’indipendenza e serietà del proprio operato, spesso rigorose negli stessi confronti dello governo statunitense,
1 Questo accordo, in realtà, comprende solo la parte centrale, quella meridionale e il west del
Tibet, mentre non rientrano in ciò che la Cina definisce come “Tibet Autonomous Region” le due regioni del Kham e dell’Amdo sebbene, afferma Norbu, si tratti di zone che riguardano una società di fatto culturalmente omogenea (2001, pp. 201-202).
si rileva che:
• centinaia di prigionieri tibetani siano detenuti in campi di lavoro forzato, dove la tortura è pratica comune. Tenendo presente poi che la Cina continua a vantare il primo posto in materia di esecuzioni capitali;
• proseguono campagne di aborti forzati e sterilizzazioni di massa delle donne tibetane;
• ogni libertà di informazione, espressione ed ogni forma di dissenso continuano ad essere proibiti, mentre l’odierna apparenza di libertà religiosa sarebbe stata inaugurata per soli fini di propaganda e turismo;
• nelle scuole l’insegnamento della lingua e della storia tibetana è, rispettivamente, emarginato e vietato;
• esistono numerose miniere di uranio dove la manodopera è tutta tibetana, mentre diverse persone che vivono nei villaggi vicini alle basi atomiche, ai luoghi d’interramento delle scorie nucleari e alle miniere di uranio, sono gravemente malate;
• la Cina porta avanti una politica di trasferimento di coloni cinesi che ha reso i tibetani una minoranza nel loro stesso territorio, tant’è che vi sono sette milioni e mezzo di coloni cinesi contro sei milioni di tibetani. E, entro il 2020, è previsto l'insediamento di quaranta milioni di coloni cinesi in Tibet, nonostante l'articolo 22 del Codice sui Crimini contro la Pace e la Sicurezza dell'Umanità, ratificato dalla Cina nel 1983, sancisce apertamente che “il cambiamento della composizione demografica del territorio occupato è un crimine di guerra di eccezionale gravità”2.
A partire da questi ultimi dati, in sintonia con quanto rileva Žižek, è possibile comprendere come la strategia cinese, più che sulla semplice costrizione militare, conti oggi sulla colonizzazione etnica ed economica di Lhasa. Scrive Žižek:
2 Numerose risoluzioni dell'ONU deplorano le violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali
commesse in danno del popolo tibetano a sostegno del suo diritto all'autodeterminazione (n.1353 del 1959, n.1723 del 1961, n.2079 del 1965), mentre dalla fine degli anni ‘80 e lungo il corso degli anni '90 si sono moltiplicate le prese di posizione del Parlamento Europeo, dei parlamenti nazionali, e dei diversi governi che sollecitano il rispetto dei diritti umani in Cina ed in Tibet.
“ (…) ciò che l’immagine mediatica dei brutali soldati e poliziotti cinesi che terrorizzano i monaci buddisti nasconde è l’ancor più devastante trasformazione socio-economica in stile americano: in un decennio o due, i tibetani saranno ridotti alla condizione dei nativi americani nelle riserve statunitensi” (Žižek 2005, p. 127).
L’incessante diaspora del popolo cinese e di quello tibetano continuano a testimoniare, del resto, la presenza di una situazione estremamente gravosa in Cina sotto il profilo del rispetto dei diritti umani, ponendo appunto alla nostra attenzione la figura dei rifugiati e, insieme a questa, una serie di interrogativi che, nel caso specifico dei tibetani, riguardano le cause della loro migrazione; il tipo di percorso intrapreso; le istanze e le modalità di riorganizzazione di cui i profughi si fanno portatori; quelle con cui vi si rapporta l’intera comunità internazionale; le trasformazioni che tali modalità hanno subito nel passaggio dal fordismo al postfordismo.