• Non ci sono risultati.

Come ho avuto occasione di evidenziare trattando il caso del Tibetan Refugee Self-Help Centre, i tibetani che arrivarono in India nei decenni passati non incontrarono alcuna difficoltà nella regolarizzazione del loro status, ma anche nell’individuazione di accettabili opportunità di inserimento economico e sociale.

Grazie all’intermediazione dell’Amministrazione Centrale, ai finanziamenti “interessati” delle potenze occidentali, ma anche grazie alle politiche pubbliche del governo indiano, essi ricevettero, infatti, “registration card” che li riconoscevano come rifugiati mentre venivano coinvolti in programmi di insediamento basati sulla responsabilizzazione e la valorizzazione delle competenze di ciascuno, sulla presenza di istituzioni che offrivano solidarietà e sostegno sforzandosi, al contempo, di controllare i comportamenti quotidiani, l’educazione, le pratiche religiose dei rifugiati (Schnapper 2001).

Come bene emerge dalla disputa che oggi riguarda i sostenitori del “middle way approach” e quelli dell’indipendenza, invece, la crescente delusione nel

constatare la mancanza di disponibilità al dialogo delle autorità cinesi e della comunità internazionale sta provocando instabilità e dissenso non solo verso la Cina ma anche fra gli stessi rifugiati. Inoltre, nuovi elementi di instabilità discendono dall’inasprimento delle politiche d’accoglienza adottate dal governo indiano e da quello in Esilio tibetano.

Negli ultimi anni sono stati registrati infatti alcuni casi di rimpatrio forzato, e comunque, chi giunge oggi in India solo difficilmente può aspirare ad un regolare permesso di soggiorno.

Questo diverso approccio, come rilevavo nelle pagine precedenti, si spiega in parte alla luce delle migliori relazioni politiche ed economiche che la Cina intrattiene con il resto del mondo, sicché, anche nel caso dell’India, appare riscontrabile quello slittamento di cui discutevano nella parte teorica di questo lavoro. E cioè, si riscontra un “mutamento semantico radicale” che, in nome di economie sempre più interconnesse, vede convergere a livello planetario misure di controllo e principi d’intervento tesi a garantire la liberalizzazione degli scambi, ma contemporaneamente impegnati a limitare la libertà di movimento di quanti siano percepiti come “scomodi”, in eccesso rispetto alle condizioni della valorizzazione richieste per l’espansione del capitalismo globale (Vitale 2005).

Questo “tempo omogeneo”12, accomuna appunto i “nuovi profughi” sfollati

dai conflitti di questa attualità, assoggettandoli a un discorso che il più delle volte non inibisce realmente la fuga, ma che occulta le motivazioni che ne stanno a fondamento, che produce spazi entro cui non è impossibile accedere, purché lo si faccia senza diritti e senza nome.

A questi problemi che nascono da politiche d’asilo più restrittive, si somma poi la circostanza per cui lo stesso Governo in Esilio - che, come abbiamo visto, si occupa di intercede con quello indiano nella richiesta dei documenti di soggiorno per i rifugiati - non guarda più all’arrivo di nuovi rifugiati in modo favorevole. Secondo quanto ufficialmente disposto nel 1995, l’approccio che oggi si vuole intrattenere nei loro confronti è, infatti, un approccio che essenzialmente spinge per il ritorno in patria, secondo uno schema cosi articolato:

a) per i monaci tra i 16 e i 25 anni che giungono dal Tibet è

previsto un periodo di insegnamento di sei mesi, al termine del quale essi devono sostenere un esame e, in caso di fallimento, debbono ritornare in Tibet, o comunque provvedere da sé alle proprie esigenze;

b) I laici e gli altri studenti sono divisi in due categorie: dai 6 ai 13 anni, essi sono ammessi alle scuole tibetane; dai 14 ai 17 gli studenti continuano a frequentare il Tibetan Children’s villane; dai 18 ai 30 anni, essi possono ottenere solo un anno di istruzione e poi fare ritorno in Tibet.

Da questo schema si evince che non è prevista alcuna politica d’accoglienza nei confronti di coloro che abbiano più di 30 anni, e comunque, pure negli altri casi, è sempre incoraggiato il ritorno, là dove, nelle parole di Thubten Samphel del Department of Information and International Relations:

“Continuare a fuggire dal Tibet vuol dire in pratica fare il gioco dei cinesi. Loro pensano sofisticate strategie di reinsediamento, che puntano a farci sentire stranieri in casa nostra. Andare via oggi significa perciò rafforzare questa strategia, consegnargli su un piatto d’argento la nostra terra”.

Nonostante gli ostacoli opposti dal governo indiano assieme a quello tibetano, migliaia di tibetani continuano, invece, a lasciare la propria terra per sottrarsi alle insidie e alle limitazioni di un regime politico che stigmatizza la loro identità, che la emargina, quando non la reprime del tutto. Ciò che cambia, però, è che i nuovi arrivati che abbiano superato una certa età non trovano più l’appoggio che necessitano per regolarizzare la loro presenza, né insediamenti presso i quali sistemarsi poiché, il più delle volte, affollati e in condizioni igieniche precarie:

(Intv. Tashi, giungo 2005)

“Quando sono arrivato pensavo di andare incontro ad una nuova vita, di riunirmi ai miei connazionali, di rivedere il Dalai Lama, di poter ricevere un’adeguata istruzione. Ma niente di tutto ciò è accaduto. Per ottenere i documenti occorre trovare un instead father, ma ci vogliono 8.000 rupie ed è difficilissimo mettere tutti questi soldi insieme. In queste condizioni, però, non posso lavorare alle dipendenze del governo, in nessuna delle sue NGO, e neppure posso muovermi da qui perché ho sempre paura. I controlli in questi anni sono notevolmente aumentati e una volta sono

venuti anche nel posto dove lavoro, una piccola sartoria, a vedere se avevamo tutti i documenti, ma in quel caso mi hanno avvisato i miei amici e, così, sono riuscito a scappare”.

(Intv. Tanka, giungo 2005)

“La nostra storia è la storia di un popolo destinato a soffrire. Lasciamo la nostra terra pieni di sensi di colpa e di frustrazioni ma nella convinzione di poter aiutare le nostre famiglie e il Governo in Esilio, fino a quando lo stesso governo ci dice, invece, che non ha più bisogno di noi. E cosi ci troviamo in uno stato di limbo, senza un buon lavoro, senza speranza, e non sai più cosa fare…. se tornare o lasciare anche l’India, se prendertela con il Governo in Esilio o se con il popolo indiano. Se solo fossimo arrivati qualche anno come sarebbe diversa la nostra situazione!”.

In sostanza, quello che accade oggi con i nuovi rifugiati che eccedono il progetto politico di insediamento ridisegnato dall’Amministrazione Centrale è che essi pensano all’India come ad un paese pieno di risorse e di opportunità. Non appena arrivano, tuttavia, si apre al loro sguardo una situazione assai diversa, a tratti ostile, aggravata dalla circostanza per cui i tibetani che lasciano il loro paese “clandestinamente” sono raramente possono contare su una adeguata istruzione. Ciò fa si che gran parte di loro la si ritrovi in mercati affollati e nelle strade di Dharamsala dove portano avanti, senza alcun sostegno del Governo in Esilio, attività poco remunerative soprattutto nel campo del piccolo commercio, della ristorazione veloce, ovvero lavorano come manodopera dequalificata nelle attività del terzo settore.

Questo stato di cose contribuisce a ché essi vengono guardati con sfavore dai loro stessi connazionali, che, infatti, spesso rintracciano nella loro presenza la causa dell’ostilità crescente del governo indiano, ma anche dell’aumento della disoccupazione:

(Intv. Democratic Party, luglio 2005)

“Il problema con i nuovi rifugiati è che parlano solo cinese o solo tibetano, ma nel nostro governo hanno bisogno di chi conosce entrambe le lingue. E poi non hanno abilità, vengono perlopiù dalla campagna e per questo difficilmente trovano lavoro presso l’Amministrazione centrale. Il punto è che noi non abbiamo politiche specifiche per loro….non ci sono industrie, non c’è più posto nell’agricoltura a patto di non entrare in diretta competizione. Oggi poi è diventato importantissimo connetterci con la popolazione indiana, e, dunque, conoscere l’indy, ma per i nuovi arrivati questa cosa qui è troppo difficile”.

Come ci insegna la più recente storia delle migrazioni internazionali, di fronte a politiche che si fanno più rigide e selettive, si moltiplicano le forme di stigmatizzazione, inferiorizzazione e sfruttamento, e però, allo steso tempo, si fanno anche avanti continui gesti di insubordinazione e originali tecniche di accesso e valorizzazione (Sivini e al. 2005). Una di queste tecniche, nel caso dei nuovi arrivati a Dharamsala, riguarda il tentativo di procurarsi “sponsor” da parte di singoli o associazioni, che, per un motivo o per l’altro, mostrino compassione e solidarietà:

(Intv. Jampa, luglio 2005)

“Gli sponsor possono provenire da persone vicine alla causa tibetana, che apprezzano il Dalai Lama, e poi dalle migliaia di turisti che ogni anno raggiungono il governo in esilio. E come puoi vedere ci sono infatti tanti giovani tibetani che si avvicinano più del dovuto, che si rendono molto piacevoli, perché alla fine sperano di creare compassione in te e ottenere uno sponsor. Ci sono persone che si impegnano a mandare anche 50 dollari al mese per diverso tempo, e questo però è un gesto di solidarietà da una parte, ma è anche molto pericoloso perché il rischio è che si perda il valore del lavoro, che si abbia l’illusione di poter vivere una vita così. Poi c’è il risveglio, ed è sempre duro…quando finisce lo sponsor, quando senti che hai lasciato la tua famiglia, la tua terra per non produrre niente, che non sei in grado di portare avanti i tuoi obiettivi così come avevi sperato, molti ripiegano nell’alchol, nella droga, o semplicemente nell’apatia. Ne ho visti tanti…..e oggi è arrivato anche il problema dell’aids”.

Oggi gran parte dei tibetani che giungono in India sono costretti a vivere per lunghi periodi nell’indigenza, una circostanza che spinge molti di loro a ripiegare nella droga e nell’alcolismo come si evince dalla nascita di istituti di medicina tibetana espressamente rivolti ad intervenire su queste situazioni. Si diffondono, allo stesso tempo, pericolosi meccanismi di dipendenza come quelli descritti da Jampa riferendosi al problema degli sponsor internazionali, anche se, a ben guardare, questa strategia si rivela un sistema multidirezionale in grado di produrre una vasta gamma di effetti, non sempre negativi, che possono finire per incidere tanto sul paese di provenienza che sulle prospettive dell’insediamento:

(Intv. Tanka, giungo 2005)

“Ricevo aiuti da un gruppo di amici francesi che ho conosciuto tre anni fa, quando vennero a Dharamsala. Una volta sono stato io a chiedergli dei soldi, quando erano già partiti, per mandarli a mia sorella affinché potesse iscriversi all’Università. Ma da quel momento sono loro ad aver deciso spontaneamente di mandarmi un piccolo contributo quando ne

hanno la possibilità. Si tratta di più persone che si sono messe insieme e che mi chiedono di indirizzare il loro risparmi a chi, come me, può averne bisogno. Loro si fidano di me e io rispondo a mia volta aiutando i più poveri e più soli, e, ovviamente, la mia stessa famiglia”.

E cioè, accanto allo sconforto, è interessante notare come coloro i quali affrontano oggi maggiori difficoltà di inserimento si sforzino di valorizzare le opportunità di incontro e scambio internazionale che sicuramente offre Dharamsala per integrare in modo informale il proprio reddito e migliorare la propria qualità della vita13. Come dicevo, si tratta di tecniche che possono

produrre forme pericolose di autovittimizzazione, ma che proiettano ancor di più Dharamsala all’interno di importanti flussi internazionali rendendola una “comunità” ben più aperta all’“Altro” di quanto invece non sia vero nel caso del Tibetan Refugee Self Help Centre del Darjeeling.

Ed infatti, mentre nel Darjeeling erano solo pochi quelli capaci di comunicare in una lingua diversa da quella madre, nel mercato di Dharamsala, tutti i più giovani tibetani, per lo più irregolari, usano abilmente l’inglese mentre si accostano a stili di vita di impronta chiaramente occidentale. D’altro canto è lo stesso Governo in Esilio a prestare grande attenzione alle conoscenze linguistiche dei suoi membri ravvisando nella comunicazione una delle strategie fondanti della sua lotta non violenta contro Pechino:

(Intv. Tibetvolunteer.org, luglio 2005)

“Noi diamo lezioni di computer e d’inglese quasi prevalentemente ai nuovi arrivati. Alle persone che rimangono fuori dal sistema d’istruzione preposto dal nostro governo (…).

Per noi è un lavoro molto importante perché queste persone conoscono le condizioni di vita in Tibet meglio di chiunque altro e il nostro obiettivo è quello di fornirgli gli strumenti perché possano esprimere liberamente la loro testimonianza. Noi stessi li incoraggiamo, peraltro, a partecipare a seminari e convegni, organizziamo discussioni aperte a tutti, che riscontrano sempre grande interesse. E comunque, da noi lavorano soprattutto volontari internazionali perciò già questo basta perché un gran numero di persone che arriva a Dharamsala solo per trovare un lavoro va via con molta più consapevolezza e irritazione verso il governo cinese”.

13 Da questo punto di vista occorre tenere presente che Dharamasala non è solo la capitale

della diaspora del popolo tibetano, ma un punto di riferimento per tutti i buddisti del mondo. Peraltro, le rinomate e apprezzate conoscenze della medicina tibetana fanno oggi Dharamala un punto di riferimento per numerosi malati gravi e terminali, ma anche per professionisti che operano in questo campo.

L’Organizzazione non governativa Tibetvoolunteer.org riconosce apertamente di essere interessata ad avvicinare i nuovi rifugiati, perlopiù gli irregolari, in quanto portatori di saperi che si rendono indispensabili all’approfondimento delle condizioni di vita in Tibet. Se non ci fossero nuovi arrivati, nelle loro argomentazioni, non solo verrebbe meno la possibilità di costituire lobby in esilio motivate come quella che ruota attorno al Ghucusum Movement, ma verrebbe meno la possibilità di ricevere testimonianze dettagliate e analoghe a quelle che io stessa ho potuto raccogliere all’interno del Reception Centre, evidenziando, sotto un altro profilo, il chiaro paradosso che si trova a vivere il governo tibetano.

Come dicevo, i rifugiati più svantaggiati subiscono ma anche reagiscono a questo stato di cose sfruttando le risorse immateriali che si rendono disponibili a Dharamsala; sfruttando, in particolare, il fatto di trovarsi in un contesto che punta a valorizzare le loro cognizioni linguistiche, ma reimpiegandole oltre che per diffondere consapevolezza attorno all’evoluzione delle condizioni economico- sociali nella società di partenza (in aderenza a quanto previsto dagli organismi preposti a questo lavoro), per sollecitare sponsor internazionali, per integrare il loro reddito, per aiutare le famiglie rimaste in patria, per andare incontro alla scommessa dei matrimoni misti:

(Intv. Tenam, luglio 2005)

“Ricevo degli aiuti da una ragazza che è anche la mia fidanzata. Lei, come me, vuole che io lasci l’India e che la raggiunga in Giappone. Per questo mi dà una mano a mettere i soldi da parte per acquistare la cittadinanza indiana e il visto necessario per lasciare il paese. O forse un giorno ci sposeremo e andrò a vivere in Giappone, ma non sarà un tradimento verso la mia comunità. Molti tibetani vivono oggi in Giappone. Se non hai documenti non ha più senso continuare a vivere qua, anzi mettiamo in difficoltà il nostro governo e la nostra gente agli occhi del popolo indiano. Andando via potrò essere molto più utile di quanto non lo sia qui”

.

Documenti correlati