Nonostante le sue origini greche, fino a non molto tempo fa il concetto di diaspora è stato prevalentemente utilizzato per riferirsi alla fuga degli ebrei dalla propria terra, e, insieme, all’attuale condizione dei soggetti di cultura ebraica che continuano a risiedere altrove rispetto ad Israele. Ed infatti, è solo dal principio degli anni ’90 che gli studiosi fanno ricorso a tale categoria per descrivere più genericamente quelle popolazioni che, colpite da eventi traumatici, riescono a mantenere sentimenti e un’identità unitaria nonostante la loro dispersione geografica (Tölölyan 1991, pp. 4-5).
Più precisamente, come leggiamo nel Dizionario degli studi culturali, la categoria di diaspora indica:
“ (…) movimenti forzati di gruppi che hanno una cultura condivisa, ovvero si ritiene che si possa parlare di diaspora quando ci si trovi di fronte a emigrazioni forzate determinate da motivi esterni – povertà, persecuzione, discriminazioni – che lasciano solitamente i soggetti con la nostalgia della terra d’origine, a cui anelano a tornare” (Zaccaria 2004, p. 455).
Nella sua genealogia della diaspora, Mellino giustamente evidenzia che i primi segni della volontà di ricorrere a tale nozione per analizzare la condizione migrante contemporanea risalgono a quando Myron Weiner discusse di “diaspore incipienti” per segnalare contemporaneamente due diversi processi: da un lato, il fallimento del progetto assimilazionista culturale intrinseco allo stato moderno, e, dall’altro, la presenza di un gran numero di lavoratori stranieri che, catturati all’interno di un perenne stato di ambiguità politico-legale e ai limiti della marginalità, tendevano ad esprimere un alto grado di affezione e lealtà nei confronti della madrepatria nonostante la lunga residenza all’estero (Weiner 1986, p. 47 cit. in Mellino 2003). Va evidenziato, però, che un vero e proprio salto paradigmatico nel tentativo di riformulare e allargare la categoria di diaspora si è registrato solo quando Robin Cohen dimostrò nel suo Global Diasporas come la condizione diasporica può dirsi comune a numerose culture.
In particolare, prendendo in considerazione le diverse forme che la diaspora può assumere, Cohen, nel suo lavoro ha distinto le diaspore prodotte dagli imperi e dalle colonizzazioni da quelle prodotte dalla necessità di spostarsi per cercare lavoro (come nel caso degli operai e dei dirigenti delle odierne corporazioni transnazionali), fino a giungere poi alle diaspore culturali dove il termine è inteso come sinonimo di sradicamento, in opposizione ad agli approcci essenzialistici delle culture e delle identità. Diversamente da altri autori che forniscono oggi definizioni piuttosto ampie della categoria8, Cohen, pur avendo incluso al suo
interno un vasto numero di esperienze, generate da processi migratori non necessariamente forzati, ha mantenuto tuttavia una chiara distinzione fra il fenomeno del transnazionalismo e quello diasporico, analizzando quest’ultimo in termini prevalentemente descrittivi.
Secondo lo studioso, infatti, perché un certo gruppo possa essere qualificato come diaspora deve ricorrere una serie piuttosto rigida di requisiti ricavati evidentemente dall’esperienza diasporica del popolo ebraico, e che in particolare riguardano: a) la dispersione da una terra madre, spesso traumatica, in direzione di due o più regioni diverse; b) alternativamente, l’espansione dalla madre terra dovuta alla ricerca di opportunità di lavoro, commercio o, comunque, legata ad altre ambizioni di tipo colonialistico; c) la presenza di una memoria collettiva e di un’idea mitica della madrepatria, della sua localizzazione, della sua storia e della sua grandezza; d) l’idealizzazione di una supposta casa ancestrale, e la volontà di garantirne il mantenimento, la restaurazione, la sicurezza e la prosperità, o anche pure la sua stessa creazione; f) lo sviluppo di un movimento di ritorno che suscita generale approvazione; g) una forte coscienza della propria specificità etnica che dura nel tempo e che viene fondata su di una storia comune
8 Van Hear, ispirandosi alle considerazioni svolte da Cohen, propone invece di affiancare la
categoria della diaspora al fenomeno più ampio del transnazionalismo, asserendo che si tratta di fenomeni che possono facilmente nascere da una molteplicità di fattori, da spostamenti migratori insieme volontari e forzati ma che, anche secondo Van Hear, richiedono il concorso di alcuni requisiti minimi, per quanto più fluidi però rispetto a quelli indicati da Cohen. In particolare, secondo Van Hear, perché possa discutersi di diaspora deve esservi una popolazione che, dispersa dalla terra madre, si sia riterritorializzata in due o più paesi diversi. Secondariamente, la presenza all’estero deve avere carattere duraturo, per quando l’esilio non necessariamente deve essere definitivo, ma può includere spostamenti fra la terra madre e quella ospite. In terzo luogo, occorre che vi sia qualche tipo di scambio – sociale, economico, politico, culturale – fra le diverse popolazioni di emigrati che compongono la diaspora. Van Hear, (1998, pp. 6 e 47).
e sulla credenza di un fato comune; h) una relazione spesso complicata con la società ospite, riconducibile ad un senso di scarsa accettazione ovvero alla credenza che una nuova calamità potrebbe colpire il proprio gruppo di appartenenza; i) un senso di solidarietà verso i connazionali che si trovano in altri paesi; l) la possibilità di condurre una differente, ricca e creativa vita all’interno di un nuovo paese (Cohen 1997, pp. 25-29).
In seguito agli studi compiuti da Cohen, discutere oggi di diaspora vuol dire soffermarsi su ampi processi di dispersione, volontari o forzati, e, contemporaneamente, sulla capacità che i protagonisti di tali esperienze dimostrano di mantenere acceso, nei contesti di arrivo, un forte senso di appartenenza, di concepirsi come un gruppo culturalmente omogeneo dando vita a pratiche economiche e culturali che sfumano i confini degli stati-nazioni come quelli della cittadinanza tradizionale. E cioè, come evidenzia Schnapper, a prescindere dall’indicazione degli specifici requisiti e delle condizioni che debbono ricorrere affinché sia possibile qualificare un gruppo di migranti o rifugiati come diaspora, le caratteristiche costitutive della diaspora descrivono un processo in cui entrano in gioco livelli spaziali differenti, nella veste di vincoli o più spesso di risorse mobilitabili per la costruzione di una regione di prassi e significati condivisi. La cultura della diaspora, secondo i suoi studi, si fonda infatti sulla presenza di istituzioni che si sforzano di controllare i comportamenti quotidiani, l’educazione dei giovani, le pratiche religiose, la conclusione di matrimoni all’interno del gruppo transnazionale, d’organizzare la solidarietà, feste e manifestazioni specifiche, religiose e /o nazionali, di mantenere scambi reali o simbolici con gli altri luoghi della diaspora (Schnapper 2001, pp. 187-204).
Nonostante le differenze di questi due approcci teorici, possiamo dire complessivamente che sia Choen che Schnapper utilizzano la categoria di diaspora per riferirsi a processi apparsi anche secoli fa ma che, notano entrambi, rinvigoriti come sono dalla crisi degli stati-nazione, implicano oggi più fitti intrecci di relazioni fra la terra d’origine e quella di ricezione. Nelle loro interpretazioni, inoltre, si tratta di processi che vengono perlopiù guardati con fiducia e ottimismo nella convinzione che essi possano in qualche modo rimediare ai gap fra tendenze locali e globali determinati della globalizzazione, veicolando questa stessa verso un suo ulteriore sviluppo:
“Molti membri di una comunità diasporica sono bi o multilingue. Essi possono supplire a ‘ciò che manca’ nelle società che visitano o dove si stanziano. Spesso sono i più capaci di comprendere ciò che il proprio gruppo condivide con glia altri gruppi, e quando le sue norma culturali e le sue abitudini sociali comportano dei rischi per i gruppi maggioritari. Tale consapevolezza costituisce la principale componente di ciò che la cultura ebraica chiama ‘sechal’, e senza la quale la sopravvivenza stessa di un gruppo potrebbe essere a rischio. E’ forse proprio a causa di questa necessità di essere sensibili che gli usi che circondano i gruppi diasporici, indipendentemente dai risultati conseguiti sul piano commerciale o finanziario, sono spesso sovra-rappresentati nelle arti, nei media, nell’industria dello spettacolo. Conoscenza e consapevolezza sono cresciute facendosi cosmopolitismo e humanism, ma allo stesso tempo non sono stati messi a repentaglio quei valori culturali tradizionali che supportano la solidarietà ed hanno sempre supportato la ricerca di educazione ed illuminazione. La consapevolezza della precarietà della propria condizione può anche spingere i membri della diaspora ad abbracciare cause civili e legali ed attivarsi su questioni come diritti umani e giustizia sociale.” (Cohen 1997, p. 170).
Appare utile sottolineare come il passaggio da una concezione che legava la diaspora alla persecuzione religiosa del popolo ebraico a quella secondo cui si tratta più in generale di forme di appartenenza diverse da quelle contemplate dal modello degli stati nazione, è avvenuto grazie all’apporto delle analisi elaborate nell’ambito degli studi culturali. In particolare, in virtù di quelle analisi che hanno riletto la storia della schiavitù dei popoli africani in Occidente come diaspora afro- americana, là dove, nonostante la dislocazione e i maltrattamenti, rileva Gilroy, non si è mai spenta la nostalgia della terra d’origine così come la rivendicazione di una specifica identità culturale e politica (Gilroy 2003).
Lungi però dal segnale processi di riappropriazione di un’identità a-storica, sempre uguale a se stessa, l’identità diasporica degli afro-americani, negli studi di Gilroy, fa riferimento a posizioni di tensione e sospensione fra il “da dove vieni” e “dove sei ora”, a espressioni culturali ibride e sincretiche di cui egli, però, non pratica alcuna apologia, riconducendole sempre a precise esperienze sociali di oppressione e sopraffazione, alle strutture razziste che pervadono il tessuto sociale dall’apparizione della schiavitù. Ed infatti, nella prospettiva anti-anti
essenzialistica di Gilroy, il termine diaspora non può essere depurato dai traumi sedimentati nella memoria, originati dal terrore, dalla discriminazione, dall’oppressione razziale. E cioè, nei suoi studi il tema della diaspora è un tema che chiede di indicare i molteplici percorsi transnazionali, le pratiche di costante rinegoziazione e riconfigurazione di culture, appartenenze e identità determinati dai processi di spaesamento e frammentazione prodotti dal colonialismo e dall’ideologia espansionistica occidentale.
Da questo punto di vista, nota però Mellino, mentre negli studi di Anderson e Appadurai e in generale nelle scienze politiche il concetto di diaspora è utilizzato per indicare l’emergenza di nuove forme di nazionalismo e separatismo, nelle analisi di Gilroy, esso è definito essenzialmente in opposizione alle identità nazionali moderne, diffuse e prodotte dagli stati-nazione, ma anche in opposizione all’attuale dibattito sul multiculturalismo quando finisce per ingabbiare i soggetti ad identità tanto essenzialistiche quanto inventate (Mellino 2005, p. 166).
Analogamente a quanto fa Gilroy, il lavoro di Aihwa Ong sui rifugiati cambogiani si muove in questa direzione quando ricostruisce ciò che è stata da lei definita come pedagogia della cittadinanza tentando di indicare, però, le resistenze e le forme di controproduzione culturale determinate dalle pratiche soggettive attraverso le quali gli esuli, lungo il corso degli anni Ottanta, rinegoziavano attivamente la loro posizione nella società americana in funzione delle diverse razionalità biopolitiche con le quali erano chiamati a confrontarsi: soprattutto, con la razionalità che li fissava alla fine dell’asse black-witheness lungo la quale si articola l’accesso alla cittadinanza americana, in virtù degli stereotipi etno-razziali legati alla loro nazionalità di partenza9.
Ong discute appunto di pratiche di resistenza, di tensioni, di zone di indeterminatezza, di processi di produzione e riproduzione del sé in cui
9 Da questo punto di vista è per esempio interessante il capitolo che ricostruisce i complessi
rapporti tra operatori sanitari e rifugiati: i primi, impegnati ad insegnare ai cambogiani verità a loro sconosciute e riguardanti la loro esistenza di corpi (da addomesticare e disciplinare in funzione degli stereotipi biopolitici americani); i secondi, che si sottoponevano e, anzi, richiedevano quelle tecniche per perseguire, però, i loro obiettivi all’interno della fitta rete burocratica americana (per esempio, relativi alla ricerca di sussidi o alla necessità di fornire la prova di una trascorsa persecuzione), ma che continuamente ne rinegoziavano e deviavano gli effetti, palesando una vera e propria battaglia per l’identità, nuove forme di produzione culturale, di invenzione del sé che non si assestavano sui principi di autonomia e individualità che regolano il modello della cittadinanza americana, (2005, p. 41).
l’esperienza dei rifugiati riusciva a sottrarsi parzialmente agli effetti normalizzanti degli schemi governamentali, sottolineando perciò tutta l’ambivalenza dei processi di produzione del cittadino, e riconoscendo soprattutto all’individuo un ruolo di estrema rilevanza nella propria soggettivazione e nel proprio auto-governo (Ong 2005, pp. 15-47).
Riflettendo e comparando l’esperienza diasporica dei rifugiati cambogiani e quella dei manager cinesi10, diversamente da Gilroy, la studiosa si mantiene però
a distanza da una narrazione collettiva fondata sull’appartenenza razziale ovvero sulle condizione dell’essere rifugiati, notando come di fronte alla segmentazione del mercato del lavoro e alla dilatazione dei confini della cittadinanza americana, le pratiche di libertà poste in essere dai rifugiati cambogiani più poveri e quelle poste in essere, invece, da quelli più istruiti e privilegiati11, mostrano come
l’alterità non si dia mai in modo puro, ma solo e necessariamente entro determinate costruzioni.
Secondo Ong, nella nostra realtà sociale esistono, infatti, molteplici regimi di controllo che non ci permettono di rintracciare una singola categoria di “esclusi”, ovvero, una forma totalizzante di cittadinanza ma, piuttosto, “concatenamenti concreti” prodotti da queste razionalità convergenti: molteplici posizionamenti che alludono a flessibili e ibride forme di appartenenza ed esclusione in funzione dei diversi ambienti sociali (Ong 2005, p. 30).
10 Nel suo interessante saggio su La cittadinanza flessibile dei cinesi in diaspora, Ong ha
tentato di indagare su come il collocarsi flessibile dei soggetti della diaspora cinese ai margini degli imperi politici e capitalisti influenzi le loro relazioni familiari, la loro autorappresentazione e il modo in cui gestiscono le regola politiche e culturali dei diversi paesi che toccano nei loro itinerari. In questo quadro Aihwa Ong usa il termine “cittadinanza flessibile” per riferirsi “alle strategie (e ai loro effetti) con cui manager, tecnocrati e professionisti cercano di raggirare i diversi regimi degli stati e nello stesso tempo di trarne beneficio, selezionando luoghi diversi in cui investire, lavorare e risistemare la propria famiglia, notando più in generale come:“In contrasto con la descrizione di Edward Said, che vede gli oggetti dell’orientalismo come partecipanti silenziosi nei progetti egemonici dell’Occidente, io riscontro invece un ruolo attivo dei soggetti asiatici nel modo in cui prendono parte in modo selettivo ai discorsi orientalisti che incontrano viaggiando nei mutevoli territori dell’economia globale. La loro produzione controculturale, tuttavia, non deve essere interpretata come una semplice riproduzione del “modo in cui siamo situati dall’Occidente”, ma come una manovra complessa che sovverte le idee del sé nazionale e dell’altro dominanti nelle aree transnazionali”, (2002, p. 117).
11 “Per gli immigrati svantaggiati - scrive infatti Ong - la cittadinanza non significa posseder
più passaporti o individuare opportunità economiche, affari immobiliari o università da sogno nelle città globali, quanto piuttosto capire le regola per cavarsela, destreggiarsi e sopravvivere nelle strade e negli altri spazi pubblici della città americana. Questi immigrati sono assoggettati, in modo molto più pressante rispetto a quelli privilegiati, a una varietà di tecnologie umane che concorrono, senza riuscirvi del tutto, a renderli minoranza etnica, soggetti che lavorano, esseri morali”, (2005, p. 7).
E’ importante notare come le ricerche compiute in questi anni sul tema della diaspora - sia quando enfatizzano gli aspetti di controproduzione e resistenza culturale che connotano tale categoria, sia quando invece indicano in maniera più o meno emergenziale la nascita di nuove reti di relazioni transnazionali e di nuove forme di nazionalismo - ci permettono di recuperare una dimensione produttiva e non solo repressiva del potere che, invece, è rimasta perlopiù inesplorata nel caso delle migrazioni forzate. E cioè, tanto le considerazioni svolte da Anderson, Appadurai, Cohen e Schnapper sulle caratteristiche delle relazioni diasporiche e sulle strutture economico-sociali che possono sempre più facilmente prendere avvio da esperienze migratorie traumatiche e forzate, tanto le pratiche di rinegoziazione culturale di cui discutono Ong e Gilroy riferendosi alla diaspora afro-americana e alla diaspora delle popolazioni del Sudest asiatico, sono capaci di mettere in luce processi ambivalenti e contraddittori, forme di resistenza che danno sostegno all’idea di un potere che agisce sulla vita ma che, proprio in questo, incontra il suo limite essenziale.
Si tratta di relazioni che, come negli ultimi scritti di Foucault, proprio perché presuppongono un certo grado di libertà, prevedono possibilità di resistenza introducendo elementi di discontinuità, non previsti, manifestando “eccedenze” che il potere potrà poi riafferrare e classificare, riportare a normalità, ma all’interno di un quadro che è ormai mutato. Una resistenza, una pratica di libertà che sia espressione di singolarità ricorre infatti quando, dice Foucault, a partire da una certa problematizzazione del sé, a partire dal riconoscimento dei giochi strategici, dei processi di controllo ed esclusione che insistono sulla propria vita e sulla propria identità, si giunge ad un ribaltamento in proprio favore di tale identità, e, contemporaneamente, al ribaltamento di una certa situazione (Foucault 1998, pp. 273-294).
Come accade per chiunque, anche nel caso dei rifugiati si tratta di processi e scatti di soggettività mai scontati, che possono finire per consolidare gli effetti di potere e i giudizi stigmatizzanti ai quali essi tentano di sottrarsi, prendendo talvolta le sembianze di identità e legami comunitari intransigenti e reattivi (Borgois 2005). Ciò nondimeno, tali percorsi indicano la necessità di riconcettualizzare da capo la figura dei rifugiati e l’esperienza della fuga per come essa va configurandosi all’interno di questo nuovo scenario diasporico e
transnazionale: uno scenario dove intere fasce di popolazione vengono ogni giorno espropriate dei più elementari diritti di sussistenza ma, allo stesso tempo, caratterizzato da importanti elementi di novità e turbolenza, da enormi e inattese potenzialità riconducibili agli effetti prodotti dall’evoluzione massmediale e dalla conseguente apertura di arene politiche locali e transnazionali entro cui si affacciano desideri, lotte, comportamenti, possibilità di organizzazione e appartenenza che sono del tutto nuove e ancora solo in parte analizzate (Hardt- Negri 2002).
La persuasione attorno a cui appunto ruota questo lavoro, nella sua parte empirica, è che ricercare la pretesa di libertà che sta alla base della fuga e che persiste, malgrado e contro tutte le condizioni avverse anche nei luoghi di arrivo, ci consente di rintracciare pezzi di realtà altrimenti perduta, omessa, trascurata, quelle “zone grigie” di cui parla Virno nel suo libro. Zone presso cui appunto si dà lo scarto tra la regola e l’esperienza empirica della sua applicazione (Virno 2005).
Capitolo Quinto
Le ipotesi, il metodo, i casi della comparazione
“Are you a refugee?”
“No, the term refugee has a very specific meaning for me. That is to say, poor health, social misery, loss and dislocation. That does not apply to me. In that sense, I’m not a refugee. But I feel I have no place. I’m cut off from my origins. I live in exile. I’m exiled”.
(E. Said, An Exile’s Exile, in Power, Politicis and Culture; Sage, New Delhi, 2002, p. 457)