Come abbiamo fin qui potuto vedere, se nel periodo della Guerra fredda l’Occidente ebbe interesse a costruire i rifugiati come “categoria morale” ricorrendo a dispositivi di potere-sapere che stressavano la relazione tra l’essere rifugiati e l’esigenza di ottenere protezione internazionale presso uno paese diverso da quello d’origine, è chiaro che, in seguito alla caduta del muro, tali pratiche abbiano subito un intenso processo di ripensamento lasciando il posto a criteri d’intervento del tutto nuovi rispetto al passato.
A questo proposito occorre notare, innanzitutto, che nonostante la fine del bipolarismo e le speranze riposte in quel passaggio epocale, guerre civili senza fine, massacri inter-etnici, e dappertutto piccoli conflitti dimenticati hanno continuato a mietere vittime e a provocare milioni di profughi. Tuttavia, se durante quella fase ogni regione (e dunque ogni rifugiato) rivestiva una sua rilevanza strategica potendo finire nella sfera di influenza della potenza rivale, con la fine
della Guerra fredda è accaduto, invece, che si siano fatte avanti nuove “zone grigie di disinteresse internazionale”. Zone che, nelle parole di Conesa, indicano la presenza di una geografia del mondo “inutile”, opposta ad un “mondo utile” su cui soltanto si concentra l’interesse dei potenti (Conesa 2001).
Di ciò se ne trova conferma ove ci si soffermi, appunto, sull’evoluzione subita dal sistema internazionale d’asilo e, soprattutto, sui significati che vengono oggi accostati all’etichetta dei rifugiati.
Numerosi studi chiariscono, infatti, che chi fugge dai conflitti globali di questa attualità è ora del tutto ignorato dai governi degli altri paesi, ovvero, continuamente rappresentato, e, dunque, diffusamente percepito, quale vera e propria minaccia per la sicurezza nazionale e internazionale. Nel linguaggio dei media1, come in quello politico istituzionale, i profughi lasciano la propria terra
sono perlopiù ritratti, cioè, come “afflussi in massa” di inaudite dimensioni (Robinson 1998), come mala fide refugees (Morice 2004), ovvero, di fronte al tramonto del welfare e al crescente divario che va delineandosi tra le classi ricche e quelle più povere, essi si impongono allo sguardo impaurito dell’opinione pubblica come “pericolosi avversari” che concorrono allo sfruttamento delle già scarse risorse economiche e naturali delle società di destinazione (Bauman 1998)2.
Questo nuovo ordine del discorso iniziò a delinearsi, in realtà, già dal principio degli anni Ottanta quando, in seguito all’irrigidimento dei tradizionali
1 Svolgendo uno studio sul modo con cui i media affrontano la questione dei rifugiati, Mares
afferma che, quando visti da lontano, i profughi sono ritratti quali vittime senza colpa di conflitti sanguinosi, meritevoli di compassione e assistenza, mentre egli rileva che tale visione subisce un radicale mutamento non appena essi inizino a dirigersi verso i paesi più sviluppati, reclamando il riconoscimento dello status. E’ in quello stesso momento, rileva Mares, che i richiedenti asilo perdono il velo d’innocenza iniziale, per essere trasformati, nel linguaggio performativo dei media, da oggetti passivi di compassione in attori poco attendibili. (2003, pp. 330-349).
2 Secondo un vasto filone di studi, è la rimessa in discussione dei tradizionali principi
solidaristici posti a fondamento del welfare state, con la conseguente attribuzione al singolo individuo, decontestualizzato dal contesto d’origine, della piena responsabilità delle proprie azioni e della propria condizione di vita, a indurre stati e popolazioni ad esprimere continua preoccupazione per i costi economici e sociali determinati dalle domande d’asilo. E cioè, secondo questa visione, ricorrerebbe un meccanismo di causazione circolare dove, in sostanza, l’opinione pubblica influisce sulla decisione politica alle prese com’è con una ristrutturazione in senso neoliberale dello stato sociale e, dunque, con la percezione dei rifugiati come rivali nell’accesso al mercato del lavoro, mentre, viceversa, i sistemi di polizia studiati per contrastare l’arrivo dei profughi, li andrebbero a confermare ogni giorno come minaccia sociale.
canali d’ingresso, parte della domanda d’entrata finì per scaricarsi sulle procedure d’asilo. Anche se poi tutti concordano nell’affermare che solo dopo il crollo del muro è stato possibile assistere ad un pesante e repentino inasprimento delle politiche d’asilo, e, come nota ancora Morice, al declino stesso della categoria dei rifugiati (Morice 2004).
Prima di analizzare le misure di controllo che lasciano intendere tale declino, è utile riassumere le cause generalmente indicate dagli studiosi come le determinanti di questo sviluppo.
a) Nel campo delle relazioni internazionali, notiamo anzitutto che coloro i quali avevano intravisto nella figura dei rifugiati uno strumento utile per interferire sullo scenario geopolitico mondiale, leggono l’attuale processo di irrigidimento delle politiche d’asilo come conseguenza prodotta dalla fine della Guerra fredda, e, dunque, del venir meno dell’interesse che gli stati mostravano di voler impiegare la figura dei rifugiati a riprova dell’antidemocraticità dei governi di provenienza. E cioè, afferma Zolberg, la circostanza per cui la previsione di un sistema favorevole fosse stata legata alla necessità di screditare i sistemi comunisti dell’epoca ha fatto si che i rifugiati, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, divenissero tutto ad un tratto “non più necessari e perciò non più benvenuti”. (Zolberg 1989).
b) I governi nazionali e le organizzazioni internazionali impegnate nella regolazione degli spostamenti forzati giustificano invece il passaggio - tutt’ora in corso - verso modalità d’intervento più rigide e selettive rispetto al passato stressando le mutate dinamiche che oggi caratterizzano gli spostamenti migratori forzati.
Dopo anni di sostanziale disinteresse, i numerosissimi studi condotti sull’argomento tendano il più delle volte a sottolineare, infatti, gli elementi di radicale differenza che si riscontrano nei “nuovi rifugiati” rispetto agli esuli della Guerra fredda, dove tale differenza avrebbe principalmente a che fare con: a) le finalità economiche piuttosto che politiche perseguite dalla maggior parte dei nuovi richiedenti asilo; b) il carattere delle guerre contemporanee in quanto conflitti intrastatali, che, diversamente da quanto non avveniva nel tradizionale
schema di guerre tra stati, condurrebbero all’esodo forzato e concomitante di migliaia di persone; c) le accresciute possibilità di movimento generate dalla rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni che, anch’esse, peserebbero in maniera determinante sulla dimensione incontrollata dei flussi (Chimni 1998, p. 356).
Più di tutti, in particolare, è stato l’Unhcr ad aver contribuito a legittimare e diffondere questa diversa immagine dei “nuovi rifugiati”, affermando in un gran numero di rapporti e pubblicazioni che i processi migratori forzati vanno oggi ricondotti al concorso responsabile di nuove cause, questa volta legate a dinamiche etniche, tribali, o comunque prettamente interne allo stato d’origine (UNHCR 2000, 283). Ma soprattutto, scrive l’Unhcr nel Rapporto del 2000, alludendo implicitamente al fenomeno dei cosiddetti bogus refugee:
“Uno dei maggiori problemi che attualmente si pongono a tutti i paesi industrializzati, nell’adempimento dei loro obblighi verso i profughi, è quello del fenomeno dei “flussi misti” di rifugiati e altri migranti, nonché il fenomeno correlato delle “migrazioni con più motivazioni”. Molte persone, infatti, abbandonano il paese d’origine per un insieme di ragioni d’ordine politico, economico e d’altro genere” (p. 155).
Secondo Newman, in realtà, si tratta di costruzioni linguistiche che vanno lette come la risposta alla percezione del rischio che gli stati oggi hanno delle migrazioni, forzate e non. Le guerre interstatali, afferma Newman, non hanno infatti prodotto nella storia meno morti e sfollati di quanto non facciano i contemporanei conflitti intrastatali, mentre l’incremento nelle statistiche del numero dei rifugiati - costantemente invocato dall’Unhcr a partire dagli anni ’90 - senza dover alludere a forme lineari di cambiamento, secondo lo studioso potrebbe essere spiegato alla luce della mancanza di dati attendibili sulla consistenza del numero dei rifugiati negli anni passati. Scrive Newman:
“Chiaramente, persecuzioni civili e fenomeni di esodo – all’interno e al di fuori delle frontiere – sono una caratteristica cruenta dei conflitti contemporanei. Tuttavia, è importante chiarire se questi rappresentano effettivamente l’insorgere di un nuovo fenomeno rispetto al passato (la Guerra Fredda) o se si tratta semplicemente di fluttuazioni riconducibili a specifici
incidenti o conflitti” (Newman 2003, pp. 13-14).
Queste parole sono oggi confortate dai più recenti dati sul numero dei rifugiati nel mondo, là dove, essi registrano un netto calo nelle domande d’asilo (circa il 35% in meno rispetto al principio degli anni ’90). Questa evidenza, tuttavia, non ha impedito che il processo che ha assunto i rifugiati quale nuovo oggetto di sapere abbia comunque finito per imporsi.
d) Interrogandosi sulle cause che hanno portato in poco più di un decennio allo stravolgimento delle politiche nazionali e internazionali d’asilo chiamate a regolare l’accoglienza dei rifugiati, sembrano in realtà cogliere più di tutti nel segno quegli studi che ricollegano tali trasformazioni alla ristrutturazione dei rapporti sociali capitalistici determinata dal passaggio dal fordismo al postfordismo3.
Ciò che in questo caso si tende a sottolineare è che l’imponente fase di crescita economica che caratterizzò il contesto occidentale negli anni del dopoguerra pesò in maniera decisiva nella spinta che allora vi fu verso la predisposizione di sistemi d’asilo piuttosto aperti. E questo anche perché gli spostamenti dei rifugiati, a causa del regime di frontiere chiuse allora praticato dall’Unione Sovietica, erano a quel tempo essenzialmente composti da pochi individui ed altamente specializzati. Una circostanza che facilitò, appunto, la loro integrazione come normali immigrati, e cioè, più correttamente, come normale forza lavoro.
Di fronte alla ristrutturazione della produzione su nuove basi tecnologiche e organizzative4, come evidenzia Vitale, si fanno strada invece procedure e linee
3 Questo termine viene qui utilizzato per indicare “un modello sociale il cui modo di
produzione non è più dominato da forme di accumulazione verticalmente integrate e di distribuzione della ricchezza contrattate tra rappresentanze collettive e supervisionate dallo stato, bensì da forme di accumulazione flessibili, capaci di integrare, di mettere in rete, modi, tempi e luoghi di produzione tra loro molto diversi: dalla fabbrica robotizzata alla cascina Hi Tech, dal distretto industriale alle maquilladoras messicane, ai templi della finanza globale”, A. Zanini e U. Fadini (2001, p. 11).
4 Si tratta di un passaggio di fase che Fiocco invita a leggere come linea di fuga seguita dal
capitale di fronte alla crisi di governabilità provocata dalla potenza dell’operaio massa negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Ma che, secondo la studiosa, contemporaneamente evidenzia un nuovo contesto entro cui le forze antagoniste all’espropriazione capitalistica proveranno ad esprimere la propria soggettività, sviluppando le condizioni per un nuovo mutamento sociale. V. Fiocco (1998).
d’azione che, mentre illuminano l’emergenza di un nesso storicamente determinato fra il controllo biopolitico della popolazione globale e quello della regolazione dei processi migratori, regolano il movimento delle persone nello spazio a tutto svantaggio della figura dei rifugiati. La posta in gioco, afferma la studiosa, riguarda il controllo della riproduzione del proletariato mondiale in qualità e quantità adeguate alle condizioni storicamente date della valorizzazione, e tale obiettivo sarebbe appunto attuato mediante la costituzione di un regime migratorio sovranazionale pensato per scindere in maniera certa e definitiva la figura del lavoratore migrante da quella del rifugiato, le cause economiche da quelle non economiche dell’emigrazione (Vitale 2005, pp. 11-38).
Per il capitale globale, secondo Vitale, tale netta scissione fra migrazioni economiche e umanitarie esprime, infatti, un doppio vantaggio:
“Da una parte (essa) concorre a costituire l’attuale regime dei diritti umani, del quale i rifugiati costituiscono una pietra angolare (Schindlmayr 2003), sottraendo definitivamente le problematiche “umanitarie” alla logica statuale, per affidarle a quella sfera d’intervento politico (economico, politico, militare) sovranazionale che, mentre qualifica anche la guerra con l’aggettivo “umanitario”, “decentra” l’intervento (repressivo e normalizzante) verso le aree di provenienza dei rifugiati. Dall’altra costituisce, contemporaneamente, un regime che permette la mobilità esclusivamente a quelle “risorse umane” utilizzabili per la crescita e lo sviluppo, definiti a livello globale” (Vitale 2005, pp. 27-28).
L’obiettivo di governare gli spostamenti internazionali “sul piano economico, in modo produttivo, e, su quello politico, in maniera ordinata” manda evidentemente in crisi l’equazione che secondo alcuni si dava tra globalizzazione e sviluppo, confermando invece la validità di quelle analisi che si trovano impegnate a discutere di un processo di transizione globale intento a suddividere i migranti in due distinte categorie: quelli utili e quelli inutili (Dietrich 2004, p. 111)5
. Rispetto a questi ultimi, entrerebbero in gioco diverse forme di smaltimento
5 Parla in maniera analoga Rahola di un’ideologia entro cui i rifugiati “sfollati da quelle
catastrofi umanitarie “che fanno da corollario a tutte le sciagure “naturali” e i conflitti “locali” che infestano il mondo postcoloniale” prendendo le forme di una “disoccupazione strutturale”, di un’eccedenza di forza lavoro rispetto alle esigenze del ciclo di produzione e accumulazione del capitale che assume tratti permanenti”, (2003, p. 15).
come, per esempio, la detenzione in massa che asseconda gli interessi delle lobby del business e del sicuritarismo, ma anche misure o non-misure che lasciano morire come avvenne, per esempio, nel 1994, quando il Consiglio di sicurezza dell’ONU lasciò che 800.000 tutsi venissero massacrati secondo un piano di genocidio diretto dal governo centrale (Palidda 2000).
2.2 Il regime internazionale d’asilo come regime di non-accesso: