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Come abbiamo fin ora rilevato, l’attuale governo delle migrazioni forzate prevede una rete di postulati e tecnologie di controllo che puntano a scoraggiare l’arrivo di “nuovi profughi” facendo leva su misure che, non di rado, consistono nell’invio di eserciti militari e contingenti di peacekeeping internazionale presso le aree in cui hanno origine gli spostamenti.

Si parla, perciò, di un campo d’intervento politico di tipo umanitario che segnala i rifugiati come caso particolare all’interno del più vasto fenomeno delle migrazioni internazionali, dove, in particolare, l’aggettivo umanitario si giustifica tanto alla luce delle guerre intrattenute dall’Occidente in nome dei rifugiati, che alla luce della razionalità che caratterizza le pratiche di cura impiegate oggi nei loro confronti.

Soffermandoci su queste ultime, va innanzitutto rilevato come, rispetto al passato, oggi vi siano numerosi attori sociali chiamati a concorrere nell’assistenza e nella riabilitazione dei rifugiati. Ed infatti, se prima era prevalentemente lo stato e le sue strutture di welfare che dovevano garantirne l’”integrazione”, nella scena attuale appaiono invece militari, funzionari dell’Unhcr impegnati nel bel mezzo di conflitti armati, centinaia di Organizzazioni Non Governative, istituzioni locali, associazioni di volontariato laiche o religiose, che,

nota polemicamente Agier, non fanno altro però che conciliare l’inconciliabile andando incontro alla travolgente richiesta di smaltire fastidiosi rifiuti umani, appagando al tempo stesso l’aspirazione alla rettitudine morale.

Per Agier, infatti, è a questi obiettivi che si ispirano le tre componenti che caratterizzano l’attuale paradigma umanitario.

La prima di queste componenti (che abbiamo esaminato nei paragrafi precedenti) prevede l’esistenza simultanea di una serie di guerre, violenze collettive, disordini e minacce che conducono le popolazioni civili verso la morte o la fuga. Guerre più o meno rapide ed “efficaci” o, al contrario, latenti, interminabili, sporche o a “debole intensità” che, non essendo mai messe in relazione, sono oggetto di interventi isolati, definiti caso per caso, di competenza della polizia e non invece della politica. La seconda componente dell’umanitario è data, invece, dal contenuto dell’intervento stesso che accompagna da vicino le guerre e le violenze e si presenta come loro trattamento adeguato. Le vittime sono, cioè, mantenute “al minimo” della vita, ossia nutrite rispettando le norme della mera sopravvivenza, ma sono anche tenute sotto controllo affinché non abusino di questi interventi. La terza e ultima componente del dispositivo umanitario mondiale è l’allontanamento: i siti dell’umanitario debbono cioè trovarsi ai margini, lontano dai luoghi in cui ordinariamente viviamo, ai confini della vita sociale e della vita tout court (Agier 2005, pp. 50-51).

Soffermandoci, in particolare, sulla seconda componente di questa strategia, e cioè sul tipo di trattamento che viene riservato ai rifugiati, occorre innanzitutto notare come, nei siti dell’umanitario, i rifugiati continuino ad essere ritratti come “vittime”, come “bisognosi”, ma ciò che cambia è che ora si tratterebbe di vittime solo “temporaneamente” tali in virtù della convinzione che la comunità internazionale può rapidamente garantirne il ritorno a “casa”. Questa convinzione, per quanto demagogica, giustifica il passaggio da pratiche di cura tese all’integrazione o all’assimilazione dei rifugiati, ad operazioni di confinamento reale o virtuale, che, durante tutto il tempo dell’“emergenza”, sospendono i loro diritti economici, politici e sociali in vista del rimpatrio, là dove appunto assunto come l’unica soluzione possibile “per il loro “reinserimento” normale nel normale ordine delle cose” (Agier 2005, p. 55).

sorvegliano gli spostamenti, che si occupano della somministrazione dei pasti, che offrono nuovi dati alle statistiche internazionali in merito alla presenza di rifugiati, immersi all’interno di questo contesto, finiscono per tramutarsi essi stessi in agenti dell’esclusione, avvalorando l’ipotesi sposata da chi ravvisa nelle stesse strutture assistenziali offerte ai rifugiati il loro principale problema.

Secondo Harrel-Bond, queste strutture poggiano infatti sull’assunto che i beneficiari dell’assistenza rappresentano una massa debole, omogenea e indifferenziata. Sono strutture che affrontano con scetticismo la possibilità che i rifugiati possano progredire verso l’autosufficienza, accrescendone, in ultima analisi, la vulnerabilità e la dipendenza:

“L’assistenza è ovviamente necessaria per impedire che masse di persone muoiano di fame. Ma se si fornisce aiuto, vi è il pericolo che ancora più persone saranno indotte ad attraversare il confine. E’ necessario trovare un delicato equilibrio. L’aiuto dovrebbe essere distribuito equamente su base individuale, e l’assistenza non dovrebbe essere così generosa da far apparire i rifugiati più ricchi dei loro ospiti. In pratica, il livello dei rifugiati sembra essere quello dei più poveri della società ospite. Se vi è un’eccessiva assistenza i rifugiati rifiuteranno di lavorare per se stessi; se ve ne sarà troppo poca troppi periranno e sulla comunità umanitaria verrà gettata una cattiva luce. L’isolamento e l’alienazione degli operatori umanitari dalla realtà locale impedisce loro di vedere la falsità di questi assunti, e alimenta la convinzione che siano le razioni alimentari scarse, qualche lamiera di plastica per ripararsi, delle stoviglie, una zappa e un panga (un tipo di machete) a indurre centinaia di migliaia di persone a fuggire dalle proprie patrie d’origine alla ricerca di una serenità da rifugiati mendicanti” (Harrel-Bond 2005, p. 29)

Insomma, i principi che orientano oggi l’aiuto umanitario sembrano distaccarsi radicalmente da quelli che si imponevano invece alla nostra attenzione quando i rifugiati venivano considerati vittime del comunismo ma, allo stesso tempo, attori capaci di contribuire in maniera importante allo sviluppo delle economie occidentali. E che per questo venivano incamminati lungo un percorso stadiale al termine del quale, come abbiamo visto, essi si trasformavano in cittadini.

Nei luoghi dell’umanitario che infestano questa attualità i rifugiati sono infatti sottoposti a dispositivi di controllo non più produttivi, ma tesi invece a garantirne

l’incapacitazione e il confinamento: dispositivi che, attraverso appunto il linguaggio dell’umanitario, depoliticizzano le cause dell’esodo, compromettendo al tempo stesso le iniziative locali che si muovono nel senso dell’autorganizzazione e che, secondo ancora Harrel-Bond, costituiscono invece l’unica risposta fattibile nel senso di una corretta assistenza.

Se da un lato queste valutazioni dovrebbero fare più a lungo riflettere tutti coloro i quali dedicano la propria vita all’assistenza dei rifugiati, dall’altro, esse stesse meritano però un approccio più critico, in grado di riportare a galla la profonda ambiguità che si accompagna a queste forme di controllo biopolitico postdisciplinare. Le osservazioni di Harrel-Bond non sembrano, infatti, tenere nel giusto conto il fatto che, se da una parte proprio quella molteplicità di attori che interviene oggi nel governo delle migrazioni forzate si impone come ramificazione elementare della sovranità biopolitica globale, d’altro canto spesso accade che è proprio nell’incontro con questi attori, sfruttando le loro risorse, i loro circuiti informativi, che i rifugiati ritrovano la possibilità di accedere a quegli spazi di visibilità che i governi, invece, vorrebbero precludergli.

Da questo punto di vista può essere utile recuperare, infatti, le considerazioni svolte da Ignantieff quando, senza mai negare che molte Ong sono più particolariste e meno responsabili di quanto pretendano, afferma che molte altre svolgono invece una funzione essenziale, monitorando gli abusi commessi contro i diritti umani e portandoli alla luce, impedendo agli stati firmatari delle convenzioni di scendere al di sotto della soglia consentita, o almeno smascherando il divario tra le promesse e la pratica, la retorica e la realtà (2003, p. 15).

Nel caso specifico dei rifugiati - come meglio vedremo nella parte empirica di questo lavoro - può appunto accadere, cioè, che i cooperanti siano in grado di individuare espressioni di protagonismo, resistenze provenienti dal basso, e contribuire, talvolta anche inconsapevolmente, all’apertura di porte clandestine, parzialmente invisibili al potere e che il potere vorrebbe in ogni modo reprimere. E’ questa appunto l’ambiguità degli aiuti umanitari di cui discute Marcon in uno studio sul terzo settore quando afferma che vi sono due modelli alternativi, che si oppongono fra loro: uno ha dalla sua il mercato, lo stato e grandi media, mentre l’altro fa leva invece sulla politica e sul radicamento sociale e, fra mille

contraddizioni, lavora schierato strategicamente contro il modello neolibersita (Marcon 2002, p. 164).

3.3 L’attualità del campo nelle migrazioni forzate: i rifugiati come

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