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La terza e ultima componente del dispositivo umanitario mondiale, seguendo l’analisi svolta da Agier, è l’allontanamento dei siti dell’assistenza. E cioè, come abbiamo visto, mentre mutano la tipologia e le finalità delle pratiche di cura pensate nei confronti dei rifugiati, mutano anche i luoghi della cura, là dove, oggi ritroviamo soprattutto il “campo” quale dispositivo preferenziale di territorializzazione delle popolazioni in esilio.

La tendenza a controllare i rifugiati attraverso la misura del campo non è in realtà una vera e propria novità, trattandosi di una strategia a cui si è più volte fatto ricorso: per esempio, dopo la creazione dello stato d’Israele nel 1948, quando i profughi palestinesi vennero collocati nei campi profughi (ancora esistenti) in Libano, e, che è inoltre stata impiegata durante gli anni della Guerra fredda, quando gli Stati Uniti contribuirono alla creazione dei campi profughi afgani in Pakistan, ovvero quando incoraggiarono i Khmer rossi a controllare i campi profughi cambogiani situati lungo il confine tailandese con lo scopo di bloccare l’avanzata del regime di Phom Penh.

Da poco più di un decennio, tuttavia, il ricorso al campo nel regime d’asilo internazionale rimanda ad un fenomeno di gran lunga più esteso, di carattere globale, che si ritrova all’interno dei regimi democratici e di quelli autoritari, nel Terzo Mondo e nei paesi più sviluppati, nei paesi basati sul libero mercato e in quelli invece caratterizzati da un’economia controllata. I campi dell’attualità sono quelli in cui rinchiudere gli apolidi, i migranti in via d’espulsione, le popolazioni aborigene, i rom, le classi marginali. Tuttavia, di fronte al dato che vede oltre 35 milioni di rifugiati rinchiusi in campo di vario genere (Bookman 2002, p. 2), sembra che nel governo delle migrazioni forzate, attraverso la moltiplicazione di de facto refugees e di sotto-categorie giuridiche rispetto a cui è deliberatamente esclusa ogni possibilità d’inclusione e riconoscimento, il campo abbia assunto dimensioni di gran lunga più estese.

militarizzata, come quelli allestiti dopo gli attentati dell’11 settembre tra il Pakistan e l’Afghanistan, ovvero come quelli collocati in Sudan per gli sfollati provenienti dall’Eritrea. Ed ancora, si tratta dei campi costruiti dall’Unhcr nel Ciad in seguito alla crisi del Darfur; dei campi dei profughi saharawis in Algeria, dei ruandesi, in Uganda e in Tanzania; dei campi che l’Australia ha costruito nelle isole del Pacifico per procedere allo smistamento extraterritoriale delle richieste d’asilo, o che l’Europa, di nuovo per “motivi umanitari”, si sta apprestando a costruire nell’Africa settentrionale; e, ovviamente, si tratta di tutti i campi deputati alla detenzione amministrativa dei richiedenti asilo che, nell’ultimo decennio, l’Occidente ha disseminato all’interno dei suoi stessi confini.

Il campo, nel caso dei rifugiati, si pone innanzitutto trasversalmente alle diverse opzioni politiche che ricorrono nel regime d’asilo. E’ cioè una misura insieme d’isolamento, palliativa, e di intervento interno ostacolando la fuga degli esuli in rotta verso i paesi più ricchi - puntano evidentemente a questa funzione i centri collocati alle porte dell’Occidente, dove i richiedenti asilo sono trattenuti durante tutta la fase di accertamento del loro status giuridico -; scoraggiando la produzione delle domande d’asilo; assicurando il rimpatrio degli sfollati assistiti da misure di protezione temporanea - per esempio, hanno funzionato in questo senso i campi di prima accoglienza allestiti in Italia durante la crisi nell’ex- Jugoslavia, là dove, l’internamento degli albanesi nel 1991 nello stadio di Bari è stato evidentemente pensato come “la fase preparatoria di una espulsione di massa” (Rivera 2003, p. 54; Dal Lago 1999, p. 186).

Guardando all’impatto dei campi nel governo delle migrazioni forzate, numerosi sono i dilemmi etici e gli aspetti critici evidenziati dai ricercatori che se ne interessano.

Sotto un profilo pratico, molti studi segnalano con timore il processo di crescente militarizzazione che è possibile osservare al loro interno, i rischi che ciò comporta per tutti coloro i quali vi operano all’interno, ma anche la loro inefficacia politica2. Sul piano dei benefici che ne discendono per gli stati, i 2 Per esempio, nel 1996, la Croce Rossa Internazionale lucidamente si interrogava

sull’umanità e soprattutto sull’efficacia di tale forma di intervento affermando che: “In Bosnia, le agenzie umanitarie hanno dovuto affrontare situazioni assai complesse – provando ad offrire aiuto alle persone in “safe” havens vicini o all’interno delle aree d’origine hanno finito spesso per esporle ad attacchi esterni. Dall’altro lato, la mobilitazione di persone ha fatto dei programmi umanitari uno strumento di “pulizia etnica”. Un altro dilemma è se poi questi interventi hanno salvato delle vite offrendo ai politici il tempo di negoziare, o se

commentatori notano invece che la deteritorializzazione delle procedure d’asilo attraverso l’impiego del campo, offre agli stati la possibilità di svincolarsi dal rispetto degli impegni assunti, sul piano internazionale, in materia di diritti umani. E questo, senza che venga compromessa la loro facciata liberale e democratica. Infine, l’istituzionalizzazione di campi deputati all’esternalizzazione delle pratiche di riconoscimento, permette agli stati che se ne facciano promotori la possibilità di omologare e standardizzare le politiche di controllo in funzione esclusiva dell’immigrazione economica.

Interrogandosi sulla funzione “biopolitica” del campo, molti studi rintracciano in questa presenza il segno della radicale trasformazione che è possibile osservare nelle strategie del controllo sociale da quando assistiamo alla crisi della società industriale e al consolidamento di un sistema economico sempre più integrato a livello transnazionale.

In particolare, ciò che si rileva è che per via dei massicci spostamenti di popolazioni provenienti dall’Est in seguito al collasso del Blocco Sovietico, ma, soprattutto, a causa della mutata composizione del lavoro nelle economie post- industriali, sempre più persone si siano venute a trovare in una posizione di eccesso rispetto alle capacità inclusive del capitale, inducendolo appunto a ricorrere alla forma del campo per governarla coerentemente con i suoi interessi di valorizzazione e riproduzione.

Nelle parole di Rahola, riferendosi alla sua esperienza con i profughi albanesi, i campi del presente si spiegano “come estremo gesto reazionario di fronte alla crisi di un modello e di una società inclusiva”: e cioè, si tratta di dispositivi di territorializzazione sintomo di un’operazione culturale che, dopo aver costruito in termini “minacciosi” l’oggetto da sopprimere, procede alla sua “eliminazione”.

Anche all’interno dei campi ricorre infatti un controllo di tipo post- disciplinare, che, abbandonati gli ideali riabilitativi del welfare state e la necessità di garantire una forza-lavoro permanente cui tali ideali erano piegati, tende ora alla semplice eliminazione e segregazione di intere classi di soggetti: quelli appunto considerati a rischio, sgraditi e in eccesso (Rahola 2003, p. 90).

semplicemente hanno dato ai politici una scusa per non impegnarsi attivamente nella ricerca di una soluzione alle cause politiche originarie delle crisi” (citato in Roberts, 1998, p. 385).

Linda Hitchcox, in un lavoro sui campi profughi del Sudest asiatico, già nel 1990 anticipava del resto tali conclusioni soffermando la sua analisi sulla perdita di indipendenza e di stima determinata dall’impatto degli interventi umanitari internazionali all’interno dei campi, e definendo questi ultimi, sullo sfondo delle analisi foucaultiane, come “istituzioni di controllo” (quindi, non più totali), dove il controllo, in particolare, pretende di lavorare in due direzioni:

“Innanzitutto, gli individui sono costretti a comportarsi come se fossero dipendenti e deboli, e ciò sta alla base del perpetrarsi di un’istituzione largamente composta da lavoratori il cui ruolo è quello di accudire le persone che hanno problemi e bisogno d’aiuto. (…)Il totale controllo e la correlativa dipendenza è poi raggiunta quando la persona non può più differenziare tra l’identità di rifugiato come essa è costruita all’interno del campo e la consapevolezza che lui o lei ha di se stesso quale individuo che è vietnamita” (cit. in Callamard 2002, p. 142).

Le analisi sulla fine, seppure tendenziale, della disciplina nei campi profughi sembra oggi trovare espressione paradigmatica nel concetto di “infinitive detention” adottato nei confronti dei richiedenti asilo in attesa di status, o in via d’espulsione, in Australia, negli Stati Uniti e in Inghilterra (Welch 2002). E cioè, se è vero che il governo della società - soprattutto a partire dal XIX sec. - ha sempre dovuto confrontarsi con la povertà, la marginalità, con la criminalità e la sovversione, all’epoca dello sviluppo neoliberista, venuta meno la centralità dell’operaio massa, ciò che emerge è che nuove categorie di persone considerate “improduttive” vengono assunte come “irrecuperabili”, non più passibili di riabilitazione attraverso le tecniche di normalizzazione che venivano tradizionalmente impiegate.

Ritroviamo qui disoccupati, donne, pensionati, soggetti diversamente abili, piccoli criminali recidivi, spacciatori e, soprattutto, i “nuovi rifugiati” che, secondo Bauman, di questa sovrappopolazione, sono l’esempio più significativo. Anche lui parla, infatti, di popolazioni in esubero, vite di scarto che non si adattano alla forma progettata: “difetti” dalla cui assenza o cancellazione la forma progettata avrebbe soltanto da guadagnare, diventando più uniforme, più armoniosa, più sicura e, nel complesso, più in pace con se stessa” (Bauman 2005, p. 39). I profughi dell’attualità, dice Bauman, sono i nuovi “dannati della terra”, “reietti”,

“fuorilegge di tipo nuovo”, assoggettati a dispositivi di gestione del rischio e di repressione che raggiungono la totalità delle coscienze e delle relazioni sociali:

“I rifugiati sono rifiuti umani, senza nessuna funzione utile da svolgere nella terra del loro arrivo e soggiorno temporaneo e nessuna intenzione o prospettiva realistica di assimilazione e inserimento nel nuovo corpo sociale. Dal loro attuale luogo di soggiorno, la discarica, non c’è ritorno e non c’è via d’uscita. (…) Una distanza abbastanza grande da impedire che i miasmi velenosi della decomposizione sociale raggiungano luoghi abitati dai loro abitanti autoctoni è il principale criterio di scelta dell’ubicazione dei campi permanentemente temporanei. Fuori da quei luoghi, i rifugiati sono un ostacolo e un fastidio; dentro, sono dimenticati. (…) Non resta nulla a parte le mura, il filo spinato, gli accessi controllati, le guardie armate. La somma di queste cose definisce l’identità dei rifugiati, o piuttosto cancella una volta per tutte il loro diritto all’autodeterminazione” (p. 97).

Capitolo Quarto

La fuga nel postfordismo

“La disubbidienza e la fuga non sono, peraltro, un gesto negativo, che esenti dall’azione e dalla responsabilità. Al contrario. Disertare significa modificare le condizioni entro cui il conflitto si svolge, anziché subirle. E la costruzione positiva di uno scenario favorevole esige più intraprendenza che non lo scontro a condizioni prefissate. Un “fare” affermativo qualifica la defezione, imprimendole un gusto sensuale e operativo per il presente”.

(P. Virno, Esercizi di Esodo, Ombre Corte, Verona, 2002, p. 181)

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