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Attività di Ricerca e Sviluppo e “Capitale Sociale”

Capitolo 1 – PANORAMICA SULL’INNOVAZIONE

1.2 Classificazione delle innovazioni

1.3.2 Attività di Ricerca e Sviluppo e “Capitale Sociale”

L’Italia presenta relativa debolezza negli investimenti in Ricerca e Sviluppo e nella collaborazione scientifica tra pubblico e privato e questo gap diviene ancora più evidente se paragonato a quello di molti paesi del Nord Europa.

La quantità di risorse stanziate dall’economia di un paese per le attività di R&S è reputata come una delle più rilevanti misure di input innovativo (Crespi, 2008) finalizzato alla crescita, soprattutto in economie knowledge–based come quelle attuali, nelle quali diviene essenziale la produzione di conoscenza. I trend di spesa in Ricerca e Sviluppo possono essere letti come una misura della competitività futura nonché del benessere dell’Europa, uno strumento di cui le nazioni dispongono per appropinquarsi alla crescita. Questo è uno dei motivi che hanno spinto l’Unione dell’Innovazione, che punta sullo sviluppo, a fissare l’ambizioso obiettivo di incrementare l’investimento in R&S entro il 2020.

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IUS 2011 (UNU - MERIT, 2012) riporta una spesa nel settore pubblico maggiore del 1% del PIL in Finlandia, Islanda e Svezia (oltre la media degli EU27, che si ferma allo 0,76%) contrapposta a una performance in Slovacchia, Bulgaria e Lussemburgo, che sta sotto la metà della media europea. Lo stesso andamento si ripete per i settori business, i quali vedono appena quattro nazioni (Danimarca, Finlandia, Svizzera e Svezia) spendere circa il 2% in R&S in rapporto al PIL; essi superano la media europea (1,23%) e in particolare i risultati di tredici paesi (tra cui non figura l’Italia) la cui intensità di spesa si pone sotto lo 0,50%.

Il panorama europeo appare quindi piuttosto variegato ma la ricerca diviene importante in ogni nazione, dal momento che la maggior parte della nuova conoscenza viene creata proprio nei laboratori di R&S, in particolar modo per le aziende science–based quali quella farmaceutiche, chimiche ed elettroniche.

L’Italia si trova al di sotto della medie EU27 per entrambi gli indicatori, con una spesa in R&S molto inferiore a quella dei paesi trainanti: l’ultimo report pubblicato dall’ISTAT (2011) inerente la Ricerca e Sviluppo italiana, rileva che il personale a tempo pieno addetto alla ricerca è diminuito del 5,3% nel 2009 rispetto all’anno precedente. Questo dato deriva dal diverso andamento nei vari settori istituzionali, che vedono un aumento degli incaricati nelle imprese, università e istituzioni non–profit, accompagnato da una considerevole riduzione nel settore pubblico.

Figura 8 - Spesa per R&S intra-muros per settore istituzionale, in milioni di Euro (Anni 2008 e 2009).

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È curioso rilevare che (con riferimento all’anno 2009), la quota più alta della spesa in R&S intra-muros14 è sostenuta dalle imprese, che hanno investito in attività di ricerca più di 10 milioni di Euro, circa il doppio di quella effettuata dalle università e il quadruplo di quella delle istituzioni pubbliche.

Per interpretare il divario che separa l’Italia dai paesi più avanzati in termini di investimento in attività di ricerca, occorre ripensare alle sue caratteristiche strutturali e culturali. Le piccole e medie imprese fanno da tessuto connettivo all’imprenditorialità della nazione, assegnando alla personalità dell’imprenditore un ruolo di estrema importanza. Tra i paesi occidentali è quello che presenta la più alta concentrazione di società con meno di 10 dipendenti (rappresentano circa il 95% del tessuto nazionale); tutto ciò è esaltato dal fenomeno dei distretti, al punto tale che alcune province situate nel Nord-Est esportano una quantità paragonabile ad intere nazioni europee (Stefanutti, 2010). Se da un lato ciò favorisce lo sfruttamento dei punti di forza delle singole realtà, dall’altro aiuta la proliferazione di soluzioni organizzative talvolta poco organiche o non gestite con approccio massimizzante. Gli osservatori vedono in questa caratteristica una delle maggiori debolezze nel sistema produttivo nostrano (Crespi, 2008) poiché ciò ne comprometterebbe la capacità innovativa, comportando un conseguente svantaggio rispetto alle performance internazionali, non essendo le piccole imprese in grado di sostenere ingenti costi fissi in attività di ricerca. Inoltre bisogna segnalare la mancanza di uniformità a livello italiano, con il 41,8 % della spesa nazionale in R&S, riconducibile ad appena tre regioni: Lazio, Lombardia e Piemonte (Istat, 2011).

La motivazione dimensionale va accompagnata a quella strutturale, dal momento che le maggioranza delle imprese è specializzata in settori caratterizzati da medio-basso contenuto tecnologico e alta intensità di lavoro.

Un fondamentale input per la realizzazione di sviluppo è il capitale umano. È stato dimostrato in varie occasioni come i lavoratori più istruiti abbiano una più alta propensione ad adattarsi all’adozione di nuove tecnologie oltre a sviluppare idee innovative (Rossi, 2012). Questo è il motivo per cui l’Unione Europea dà importanza alle politiche educative e della formazione, tramite una cooperazione volta

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La Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (2008) definisce spese ”intra muros” in R&S, quelle sostenute all’interno delle unità (imprese ed enti pubblici), con proprio personale ed attrezzature, indipendentemente di chi ha elargito il finanziamento. Le spese “extra muros” sono invece quelle commissionate a soggetti esterni (sia pubblici, che privati).

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all’innalzamento della qualità scolastica. L’innovazione va intesa in un’accezione più ampia di quella riguardante le qualifiche necessarie dal momento che l’informatizzazione e l’uso di Internet tendono a privilegiare le abilità manageriali ed intellettuali ma contemporaneamente a rendere ripetitivi molti processi intermedi. Molti paesi hanno risposto privilegiando un innalzamento delle qualifiche professionali ma in un mondo così imprevedibile ed in continua evoluzione, ciò che diviene davvero fondamentale è il continuo aggiornamento delle competenze ed abilità, al di là di nozioni standard applicate secondo manuale.

La competenza interagisce con l’innovazione, consentendole di emergere dal quotidiano tramite l’efficace combinazione di risorse e concetti. Ignazio Visco (2011), Governatore della Banca d’Italia, sostiene che solo privilegiando la generazione innovativa all’imitazione, la curiosità alla costanza, le economie potranno divenire mature ed in grado di uscire dal tunnel della crisi che ci coinvolge da qualche anno. In altre parole, le competenze determinanti nel 21° secolo, risiederanno nel coltivare pensiero critico, abilità nel problem solving, capacità d’innovare, efficacia nel comunicare nonché apertura alla collaborazione e al lavoro di squadra: per forza di cose, il tutto non prescindendo dalle necessarie conoscenze tradizionali.

Una società maggiormente istruita, più incline ad individuare i benefici della cooperazione e del distacco dall’illegalità, è anche più propensa a perseguire gli obiettivi comuni identificabili col “capitale sociale”. Esso svolge un compito essenziale, riducendo i costi di transazione e quindi facilitando gli scambi, con conseguente beneficio sullo sviluppo finanziario, la dimensione media aziendale e l’inclinazione ad innovare (motore della crescita economica).