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Attività diverse

§ 2.3 GLI ENTI DEL TERZO SETTORE

2.3.3 Attività diverse

L’art.6 del Codice permette ai soggetti iscritti al RUNTS di svolgere attività diverse rispetto a quelle menzionate in precedenza, a condizione che l’atto costitutivo e lo statuto lo consentano, e che queste siano secondarie e accessorie rispetto all’attività di interesse generale. Da ciò deriva un duplice livello di attività:

• quelle di interesse generale, obbligatoriamente principali o esclusive, di natura alternativamente commerciale o non commerciale ex art.55 TUIR e, quindi, idonee a qualificare l’ente come commerciale o non commerciale ex art. 73 TUIR;

• quelle secondarie e strumentali rispetto alle attività indicate nell’art.5, la cui natura potrebbe essere alternativamente commerciale o non commerciale ex art. 55 TUIR a patto, però, che resti immutata l’eventuale natura fiscalmente non commerciale dell’ente in conseguenza della non principalità/non esclusività dell’impresa commerciale esercitata.

In merito, la circolare n.20/2018 chiarisce che “qualora l’ETS intenda esercitare attività diverse, lo statuto dovrà prevedere tale possibilità, senza tuttavia che sia necessario già in sede statutaria inserire un puntuale elenco delle attività diverse esperibili: la loro individuazione potrà infatti essere successivamente operata da parte degli organi dell’ente, cui lo statuto dovrà, in tale ipotesi, attribuire la relativa competenza”. Viene riproposta, quindi, la tradizionale prospettiva dell’attività istituzionale dell’ente, da cui deriva l’applicazione dei vantaggi fiscali186. Vista la fondamentale importanza dell’argomento, appare quantomeno utile, se non necessario, rievocare proprio la disciplina degli enti non commerciali, dove il discrimine è dato dallo svolgimento o meno di attività commerciale. Come si è avuto modo di vedere nel primo capitolo, l’inquadramento di tale attività è contenuto all’interno degli articoli 55 e 143 del Tuir. Il primo definisce redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali, intese come esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell'art. 2195 del Codice civile. Il richiamo a tale norma implica l’applicazione dell’abitualità di cui sopra anche alle attività industriali dirette alla produzioni

186 La nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 3734/2019 chiarisce che l’attività di culto non possa

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di beni e servizi, alle attività di intermediazione nella circolazione dei beni, alle attività di trasporto, a quelle bancarie o assicurative, nonché alle attività diverse, ausiliarie delle precedenti. L’art.143 stabilisce invece che “per gli enti non commerciali non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 del Codice civile rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione”, limitando di fatto la portata dell’art.55 menzionato in precedenza. Come corollario, l’art.149 prevede che “indipendentemente dalle previsioni statutarie, l'ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d'imposta”.

Dunque, per quanto attiene agli enti non commerciali, la discriminante è pacificamente riconducibile alla distinzione tra attività istituzionale e attività commerciale, quest’ultima svolta in via accessoria e strumentale al conseguimento dell’oggetto sociale. Tuttavia, per il Terzo Settore questa relazione non sembrerebbe applicabile, poiché la differenziazione è data dalla prevalenza delle attività di interesse generale rispetto a quelle diverse, e non dal peso delle attività commerciali svolte dall’ente. Invero, è dato per assodato che gli ETS possano svolgere le attività di interesse generale con modalità commerciali, e che la distinzione tra attività commerciale e non commerciale abbia rilevanza solo al fine di stabilire la caratterizzazione fiscale dell’ente, che rimane comunque all’interno del settore. La più grande novità della riforma va ricercata proprio nel cambiamento di questa prospettiva, con l’individuazione di criteri e limiti diversi, necessari per la definizione delle attività accessorie. A tal fine, l’art.6 del Codice prevede che queste attività secondarie siano definite successivamente in via qualitativa e quantitativa “tramite decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, una volta sentito il parere della cabina di regia di cui all’art.97 del Codice”.

Se non sussistono incertezze riguardo al carattere accessorio di tali attività, è altrettanto vero che la definizione degli aspetti maggiormente significativi apporti un grado di complessità non indifferente, anche in relazione alle conseguenze che ne potrebbero derivare: il mancato rispetto della prevalenza per due esercizi consecutivi determina infatti la cancellazione d’ufficio dal Registro, la perdita della qualifica, e la conseguente devoluzione del patrimonio.

Proprio per tale motivo, il legislatore delegato dovrà tenere in stretta considerazione non solo i ricavi che derivano dall’attività accessoria, ma anche il valore normale delle prestazioni rese a titolo gratuito o ad un corrispettivo inferiore a quello normale, in funzione del fatto che spesso le attività di interesse generale siano svolte proprio seguendo questa modalità.

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Considerato il lento cammino della riforma, un passo in avanti è stato sicuramente l’insediamento della cabina di regia187 il 7 marzo 2019, che dopo aver esaminato la bozza di decreto ministeriale ha giudicato soddisfacenti i criteri in esso contenuti. Nello specifico, l’ente potrà scegliere alternativamente che le entrate corrispettive derivanti da attività secondarie non eccedano il 30% di quelle complessive, oppure che i ricavi totali non oltrepassino il 66% dei costi in capo all’ente. In virtù della particolarità del non profit, alcune precisazioni si rendono quantomeno necessarie. Infatti, in questo caso i ricavi comprendono, oltre alla vendita di beni o servizi, anche le entrate derivanti da quote associative, erogazioni liberali, testamenti, contributi pubblici, attività di raccolta fondi e cinque per mille. I costi, invece, devono includere tassativamente anche il lavoro reso dai volontari188, sulla base del calcolo delle ore di attività prestate e della retribuzione oraria lorda prevista dalla corrispondente qualifica dei contratti collettivi189, le erogazioni gratuite di denaro o di beni e servizi, nonché la differenza tra il valore normale dei beni acquistati e il loro costo effettivo. In relazione al primo punto, sembra opportuno far notare come “non esista alcuna giurisprudenza recente in merito alla definizione e alla determinazione quantitativa di “costi figurativi”, e nemmeno alcun riscontro di natura fiscale190”. Inoltre, il decreto non chiarisce come si debbano valutare le prestazioni

volontarie nel caso in cui non esista un contratto collettivo di riferimento.

Al netto di queste problematiche, nel caso di superamento del limite scelto dal singolo ente, sono previsti trenta giorni di tempo, successivi all’approvazione del bilancio, per inviare una segnalazione agli uffici competenti del RUNTS, con la possibilità di recuperare il corretto rapporto nell’esercizio successivo. In caso di ulteriore sforamento dei limiti, come si è avuto modo di vedere, si procederà alla cancellazione dell’ente.

Da tale conseguenza si evince chiaramente come il tema della prevalenza dell’attività di interesse generale sia quantomeno vitale per la sussistenza di tutti coloro che appartengono al mondo del Terzo Settore.