Magistratura al femminile
L’ATTIVITA’ DEL CONSIGLIO SUPERIORE PER FAVORIRE LE CONDIZIONI DI LAVORO
Dott.ssa Evelina CANALE Componente CPOM
Nel prendere in esame l’attività del Consiglio per favorire le con-dizioni di lavoro delle donne magistrato e dunque per riequilibrare le situazioni di svantaggio di fatto, un dato emerge con particolare evi-denza. Dall’ingresso in magistratura delle prime donne, nel 1965, ci sono voluti ben 27 anni prima che l’organo di autogoverno acquisisse la chiara consapevolezza dell’esistenza di una “questione femminile”
all’interno della magistratura. La risposta a questa consapevolezza è stata la istituzione, nel 1992, del CPOM che si pone come il momento forte dell’attività del Consiglio volta a rimuovere la discriminazione in-diretta. Se la discriminazione diretta finisce nel 1965, è solo dal 1992 che inizia il percorso verso la parità di fatto, per far cessare anche la discriminazione indiretta, che è a sua volta frutto di ritardi e arretra-tezze culturali e, in definitiva, del “gender bies”, ovvero del pregiudi-zio di genere.
La istituzione del Comitato è stata naturalmente favorita dal cre-scente numero di donne che entravano in ruolo, (erano appena 475 negli anni 60/70, salite a 1.413 negli anni ottanta ed arrivate, nel 2003, a quota 3.598, vale a dire al 38% dell’organico), tuttavia essa non è stata una “gemmazione” spontanea dell’organo di autogoverno, ma il risultato di reiterate richieste in tal senso rivolte al CSM da un gruppo di donne molto determinate. (Basti pensare che un buon numero di Comitati Pari Opportunità si erano costituiti nelle diverse Ammini-strazioni Pubbliche, Università ed Enti di Ricerca, già a partire dal 1986).
Queste donne, provenienti dall’ADMI, Associazione Donne Magi-strato Italiane, della cui attività vi parlerà la presidente, Luisa Bianchi Bonomo, e tra le quali non posso non ricordare Silvia Governatori, ri-vendicavano l’applicazione della L. n. 151/1991 per l’affermazione, anche in magistratura, della cultura delle pari opportunità e delle azioni positive.
E la prima azione positiva attuata dal CSM, e quindi dall’organo di autogoverno, fu proprio la costituzione del CPOM.
C’è tuttavia da rilevare che, sul versante associativo, in cui la
pre-L’ATTIVITA’ DEL CONSIGLIO SUPERIORE PER FAVORIRE LE CONDIZIONI DI LAVORO
Dott.ssa Evelina CANALE Componente CPOM
Nel prendere in esame l’attività del Consiglio per favorire le con-dizioni di lavoro delle donne magistrato e dunque per riequilibrare le situazioni di svantaggio di fatto, un dato emerge con particolare evi-denza. Dall’ingresso in magistratura delle prime donne, nel 1965, ci sono voluti ben 27 anni prima che l’organo di autogoverno acquisisse la chiara consapevolezza dell’esistenza di una “questione femminile”
all’interno della magistratura. La risposta a questa consapevolezza è stata la istituzione, nel 1992, del CPOM che si pone come il momento forte dell’attività del Consiglio volta a rimuovere la discriminazione in-diretta. Se la discriminazione diretta finisce nel 1965, è solo dal 1992 che inizia il percorso verso la parità di fatto, per far cessare anche la discriminazione indiretta, che è a sua volta frutto di ritardi e arretra-tezze culturali e, in definitiva, del “gender bies”, ovvero del pregiudi-zio di genere.
La istituzione del Comitato è stata naturalmente favorita dal cre-scente numero di donne che entravano in ruolo, (erano appena 475 negli anni 60/70, salite a 1.413 negli anni ottanta ed arrivate, nel 2003, a quota 3.598, vale a dire al 38% dell’organico), tuttavia essa non è stata una “gemmazione” spontanea dell’organo di autogoverno, ma il risultato di reiterate richieste in tal senso rivolte al CSM da un gruppo di donne molto determinate. (Basti pensare che un buon numero di Comitati Pari Opportunità si erano costituiti nelle diverse Ammini-strazioni Pubbliche, Università ed Enti di Ricerca, già a partire dal 1986).
Queste donne, provenienti dall’ADMI, Associazione Donne Magi-strato Italiane, della cui attività vi parlerà la presidente, Luisa Bianchi Bonomo, e tra le quali non posso non ricordare Silvia Governatori, ri-vendicavano l’applicazione della L. n. 151/1991 per l’affermazione, anche in magistratura, della cultura delle pari opportunità e delle azioni positive.
E la prima azione positiva attuata dal CSM, e quindi dall’organo di autogoverno, fu proprio la costituzione del CPOM.
C’è tuttavia da rilevare che, sul versante associativo, in cui la
pre-senza maschile è più radicata, si registra un ritardo ancora più visto-so: la Commissione per le Pari Opportunità è stata infatti istituita al-l’interno dell’ANM soltanto nel 2000.
La delibera del 22 ottobre 1992, istitutiva del CPOM, segna l’atto di nascita del nuovo orientamento di “mainstreaming” di genere nella progettazione e nella realizzazione
delle attività del Consiglio: con esso il CSM si pose finalmente degli obiettivi programmatici di un certo respiro in vista dell’attuazio-ne di azioni positive per la realizzaziodell’attuazio-ne del principio di uguaglianza sostanziale tra i sessi anche per quel che concerne la Magistratura.
Il CPOM è tecnicamente nato da una norma di autoregolamenta-zione del Consiglio con lo scopo di individuare le iniziative necessarie per eliminare le disparità di fatto, da un lato, superando le condizioni di lavoro che provocano effetti diversi a seconda del sesso nei con-fronti di persone che svolgono le stesse funzioni, e dall’altro, favoren-do, anche mediante nuove articolazioni dell’organizzazione del lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e responsabilità professionali nella esperienza di vita del magistrato.
Come ho già detto, l’istituzione del CPOM segna l’inizio di una vera e propria svolta culturale rispetto a certi problemi.
E’ il momento che coincide con la progressiva, lenta ma inarre-stabile, fine di un certo modo di rapportarsi della magistratura nel suo complesso al problema, per così dire, più appariscente ed ineludibile:
la conciliazione.
Fino a tutti gli anni 80 infatti, e di questo molte di noi hanno espe-rienza personale, il problema veniva affrontato dai capi degli uffici, dagli altri colleghi, ed in definitiva dalle stesse interessate, in un modo elementare: rimuovendolo.
La condizione sottintesa era che non dovevano esistere, per una donna magistrato, né gravidanze, né figli piccoli da allattare, che erano considerati contrattempi da marginalizzare. Semplicemente, si continuava a venire in ufficio quasi fino al parto, e per tutta la fase se-guente si diceva, (ed erano le stesse donne ad asseverarlo, non senza una punta di orgoglio), che non si poteva essere magistrati “ad orario”
o a “mezzo servizio”. Si trattava di donne entrate in magistratura per effetto di una scelta solida, cui era implicita una motivazione molto forte che abbracciava i valori dell’indipendenza, la consapevolezza di rendere un servizio alla collettività e la volontà di incidere sulla realtà sociale, e soprattutto che dovendosi confrontare con una realtà tutta al maschile, dovevano costantemente dimostrare “di essere all’altez-za”.
Questo, si badi, non vuol dire però che con l’istituzione del CPOM i problemi erano stati automaticamente risolti. Anzi, l’inizio del per-corso del Comitato è stato per lungo tempo arduo. Ad esempio, oc-correva uno sforzo costante delle colleghe per ottenerne la convoca-zione, in quanto rimaneva inattivo anche per mesi. Dico questo perché la nostra esperienza sia di incoraggiamento per le colleghe delle altre magistrature che hanno appena costituito, come la giustizia ammini-strativa e quella militare, il loro CPO, o stanno lavorando per ottener-lo, come la giustizia contabile: non ci si deve scoraggiare per le diffi-coltà e talvolta per l’ostilità con cui bisogna misurarsi: è normale, è stato così anche per noi. L’essenziale è avere ben chiaro l’obiettivo, e direi che su questo terreno le colleghe delle altre magistrature e del-l’avvocatura dello Stato hanno dimostrato di possedere la necessaria risolutezza.
E proprio il frutto della determinazione e della perseveranza fem-minile è stata quella che definirei la seconda grossa conquista realiz-zata dal Consiglio nel percorso di parità nelle condizioni di lavoro. Si tratta della nota circolare n. 160 del 10 aprile del 1996, modificata dalla circolare n. 5257 del 6/3/1998, con la quale formalmente ed espli-citamente l’organizzazione giudiziaria affronta il “mainstreaming” di genere. Già la sua intitolazione è significativa dell’abbandono di un certo tipo di mentalità, ed infatti la circolare si intitola: “Magistrati in gravidanza o maternità: problema dei magistrati in situazioni di diffi-coltà per motivi familiari e di salute: ricadute sull’organizzazione in-terna degli uffici giudiziari”. Con questa circolare, sollecitata da una proposta del CPOM del 20/12/1995, gravidanza e maternità diventano parole di una terminologia condivisa, possono essere finalmente “no-minate” e il CSM prende atto della necessità strutturale di una rivisi-tazione della normativa secondaria in tema di organizzazione degli uf-fici giudiziari per favorire l’inserimento nei medesimi appunto di donne magistrato in gravidanza o in maternità.
Lo scopo dichiarato della proposta del CPOM era di permettere agli uffici di avvalersi dell’attività di magistrati che, altrimenti, per mo-tivi familiari, sarebbero stati costretti, come era fino ad allora avvenu-to, tra l’alternativa di continuare a fare esattamente lo stesso lavoro e con le medesime modalità, omologandosi al modello maschile domi-nante, anche a costo di trascurare i figli, oppure a ricorrere a periodi di assenza, anche lunghi, dannosi innanzitutto all’efficienza del servi-zio e in secondo luogo alla professionalità delle interessate.
Questa seconda soluzione era quella che iniziava ad affacciarsi, ri-spetto alla scelta iniziale di adesione indiscussa al modello maschile,
per il crescente numero di giovani donne che, pur fortemente orienta-te sul principio che quella del magistrato è una professione speciale, che richiede il continuo riferimento ai valori di una società comples-sa, in cui sempre più delicati si fanno gli snodi dell’interazione tra cit-tadini e istituzioni coinvolgendo in maniera crescente i diritti fonda-mentali della persona, erano altrettanto decise nell’affermare la loro specificità femminile, fatta di capacità di relazionarsi, di condividere, di mediare tra lavoro e famiglia.
In tale spirito la circolare raccomandava, (si trattava soltanto di una “raccomandazione”), ai dirigenti degli uffici giudiziari di preve-dere una organizzazione del lavoro interna tale da configurare un im-pegno lavorativo del magistrato in gravidanza e fino ai tre anni di età del bambino, non inferiore quantitativamente, ma diverso e compati-bile con i doveri di assistenza che gravano sulla lavoratrice-madre. In altri termini, occorreva che i capi degli uffici
individuassero delle diverse modalità organizzative del lavoro, che non si sarebbe comunque ridotto nella quantità e non sarebbe scadu-to di qualità, in quanscadu-to eventuali esoneri avrebbero dovuscadu-to essere compensati dalla intensificazione delle attività individuate come com-patibili. La stessa circolare faceva degli esempi:
- per il settore civile, la riduzione del numero delle udienze e/o delle nuove assegnazioni, privilegiando un maggiore impegno nella re-dazione delle sentenze;
- per gli uffici di Procura e per gli uffici GIP, il parziale esonero dai turni esterni, dalle udienze di convalida, dagli affari urgenti, eso-nero compensato però con un corrispondente aumento del carico di affari assegnati;
- per il dibattimento penale, la riduzione del numero delle udienze e correlativamente l’incremento di sentenze assegnate;
- per gli uffici di Sorveglianza, l’esenzione dai colloqui con i dete-nuti in ambiente carcerario e dalla trattazione degli affari di par-ticolare urgenza e correlativamente l’aumento del carico del lavo-ro assegnato.
La circolare prevedeva poi anche un meccanismo di assegnazione ad altro settore del medesimo ufficio, qualora il settore di servizio del magistrato non avesse consentito
una organizzazione del lavoro flessibile e compatibile con le esi-genze familiari, fermo restando il diritto del magistrato a rientrare nel settore di provenienza.
La “raccomandazione” per i dirigenti operava nel senso che, sulla domanda dell’interessata, vi era il corrispondente dovere del
dirigen-te di indirigen-tervenire con la massima celerità, sendirigen-tendo i magistrati indirigen-te- inte-ressati e controinteinte-ressati, ciò al fine di coinvolgere l’intero ufficio per prevenire contrasti interni e anche nell’ottica di favorire l’indivi-duazione delle modalità più adatte per contemperare le diverse esi-genze. Per i provvedimenti in tal modo adottati si prevedeva la im-mediata esecutività con la loro altrettanto imim-mediata trasmissione al CG e al CSM.
La circolare ha certamente costituito, (prevedendo non già una politica di accorgimenti singolarmente presi in favore delle donne, ma un vero e proprio cambiamento organizzativo governato in un ottica di genere), lo sforzo più strutturato dell’organo di autogoverno in fa-vore della conciliazione e quindi per riequilibrare situazioni di svan-taggio nelle condizioni di lavoro delle donne.
La trama disegnata da questa circolare si è andata con il tempo consolidando, ma nelle prassi applicative dei vari uffici non sono man-cate delle “criticità” che hanno indotto il Consiglio, (sempre, si badi bene, su proposta del CPOM del 24/10/2005), a recepirla, da ultimo, al punto 42 della circolare n. 27060 del 19/12/2005 sulle tabelle di orga-nizzazione degli uffici giudiziari per il biennio 2006/2007.
Con questa recente disposizione si è inteso interrompere il carat-tere oggettivamente maschile della complessa organizzazione del la-voro degli uffici giudiziari, mediante la previsione di un vero e proprio dovere, (adeguare l’organizzazione quindi non è più una semplice
“raccomandazione”), dei capi degli uffici di “tenere conto della pre-senza e delle esigenze delle donne magistrato in gravidanza, nonché dei magistrati che provvedano alla cura di figli minori … fino a tre anni di età degli stessi”. Si legge infatti nella circolare che: “i dirigenti degli uffici provvedono ad adottare misure organizzative tali da ren-dere compatibile il lavoro dei magistrati dell’ufficio in stato di gravi-danza o in maternità e, comunque con prole di età inferiore ai tre anni, con le esigenze familiari e i doveri di assistenza che gravano sul magistrato. Il relativo “provvedimento è adottato dal dirigente dell’Uf-ficio, sentito il magistrato interessato e previo coinvolgimento dei ma-gistrati dell’Ufficio in modo da individuare le modalità più adatte a contemperare le diverse esigenze”.
E’ intuitiva l’importanza di questo inserimento nella materia tabel-lare, considerato che l’assegnazione degli affari ai singoli magistrati, come è noto, avviene sulla base delle c.d. “tabelle”, approvate ogni due anni dal CSM, che stabiliscono le destinazioni dei magistrati all’interno dell’ufficio e i criteri obiettivi e predeterminati per l’assegnazione degli affari alle singole sezioni, ai singoli collegi ed ai singoli giudici.
Resta da vedere quale uso si farà, in concreto, di queste disposi-zioni.
Al riguardo, voglio ricordare i limiti applicativi che, nei fatti, ha avuto la circolare n. 160/1996 e che sono stati evidenziati dall’indagi-ne condotta, dall’indagi-nel 2004, dal Consiglio con il questionario somministra-to nell’ambisomministra-to del Progetsomministra-to Europeo sulla Partecipazione Equilibrata delle Donne e degli Uomini al Processo Decisionale. Alcuni esempi:
il 72% degli intervistati ha risposto che la specifica regolamenta-zione introdotta con la citata circolare non trovava applicaregolamenta-zione;
soltanto il 10% ha dato risposta positiva alla domanda volta a sa-pere se l’intervistato avesse personalmente chiesto di avvalersi di detta circolare;
alla domanda su quali fossero le ragioni della mancata richiesta di applicazione, il 35% ha dato la risposta relativa alla volontà di non pregiudicare l’organizzazione del lavoro, a seguire: l’esigenza di evi-tare “polemiche” e la volontà di non danneggiare i colleghi.
Ebbene queste risposte dimostrano, da un lato, la carenza di diret-tive dei dirigenti degli uffici tali da influire sulla possibilità di autorego-lazione del lavoro, dall’altro la difficoltà di pensare una moduautorego-lazione del lavoro compatibile con le esigenze di tutti i magistrati dell’ufficio.
E’ urgente che gli organi di autogoverno, quindi non soltanto il CSM ma anche i Consigli Giudiziari, compiano una forte opera di sen-sibilizzazione e di sollecitazione dei dirigenti affinchè si attengano alla integrale e continuativa applicazione della regolamentazione della materia adottata dal Consiglio e soprattutto vigilino sull’attuazione reale di quelle che ormai sono disposizioni tabellari.
Anche per questo, a mio avviso, sono ormai maturi i tempi per l’i-stituzione di CPO decentrati presso i vari distretti, come organi ausi-liari e serventi dei Consigli Giudiziari, ma coordinati e raccordati, nella loro attività, con il CPOM.
La necessità di tali interventi risiede nella constatazione che la mancata o insufficiente applicazione delle disposizioni tabellari si ri-verbera poi sull’intero
sviluppo di carriera delle donne magistrato, rischiando, riguardo alla selezione e alla promozione per gli incarichi dirigenziali, anche in un contesto di sostanziale
progressione automatica come l’attuale, di confinarle nelle “se-conde file”, fenomeno ampiamente riscontrabile, tenuto conto del va-lore indiscusso della “presenza”, (negli uffici, ai corsi di formazione, anche in qualità di relatori, negli incarichi extragiudiziari, negli orga-nismi di autogoverno e nell’attività associativa).
In conclusione, se si può azzardare un bilancio sulla normazione secondaria del CSM in tema di parità, va detto che molto è stato fatto, la magistratura ordinaria ha raggiunto in questo settore risultati im-portanti, ma la sfida del futuro per il Consiglio riguarda soprattutto il versante diverso, (ma strettamente legato ai temi della conciliazione), del cosiddetto “soffitto di cristallo”.
Entra allora in gioco la questione che oggi si pone come uno degli snodi fondamentali, (insieme a quello della ragionevole durata del processo), del sistema giustizia in questo Paese, cioè la valutazione del magistrato. A mio modo di vedere, qualunque meccanismo di valuta-zione si scelga, esso deve rimanere ancorato in modo forte al lavoro giudiziario concretamente svolto negli uffici, a maggior ragione se si vuole salvaguardare la ragionevole durata dei processi.
Ma questo è ormai un argomento che appartiene al legislatore della riforma dell’ordinamento giudiziario su cui lascio volentieri la parola a Luisa Napolitano che ci illustrerà il “mainstreaming” di ge-nere sotteso alla riforma.
IL NUOVO ORDINAMENTO GIUDIZIARIO E LE RICADUTE