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Autorità degli esperti e progresso scientifico La formazione tra lettura dei classici e studio dei manuali.

L’autorità della comunità scientifica, come in parte si è accennato, si manifesta in vari modi, sul piano esterno lo specialismo professionale, che comporta una sorta di esoterismo e autorefenzialità degli specialisti, non permette al profano di poter giudicare

del lavoro scientifico, il che lo pone in una situazione di assoluta sudditanza e dipendenza. Il profano, a meno che non voglia entrare a far parte della comunità scientifica, previa una lunga formazione specifica, può solo accettare o rifiutare in blocco i risultati della ricerca condotta da altri, gli specialisti, giudicandola su parametri extra-metodici e extra-scientifici, senza alcuna possibilità di entrare nel merito delle questioni trattate.

L’autorità si esprime anche all’interno della comunità scientifica, come autorità del gruppo sui suoi stessi membri, e si manifesta, ad esempio, attraverso le prescrizioni paradigmatiche che hanno un carattere autoritario e per certi versi dogmatico per tutti coloro che fanno parte del gruppo di ricerca. Questione tutt’altro che secondaria, sempre legata a questo secondo aspetto, è anche quella della scelta dei problemi da risolvere, ossia dei temi e dei progetti di ricerca che, secondo la comunità scientifica e le prescrizioni paradigmatiche, sono ritenuti validi e degni di una indagine specifica e quelli, viceversa, ritenuti poco interessanti o improduttivi. Ma, soprattutto, l’autorità della comunità di ricerca è rappresentata dalla “tradizione” che essa instaura, ossia dalle procedure di insegnamento-apprendimento-addestramento-selezione attraverso cui i membri più anziani educano i nuovi e più giovani aderenti alla comunità. Tradizione che, in qualche misura, vincola la mente e l’azione del ricercatore a quei parametri paradigmatici ritenuti validi e che non vengono, se non in periodi di crisi, mai messi in discussione, e che, spesso erroneamente, produce nel ricercatore la convinzione di un progresso scientifico lineare, di una continuità e identità storica tra gli interessi e i problemi oggetto delle ricerche del passato con quelli del presente. Sul ruolo centrale della formazione attraverso “esempi condivisi dal gruppo” e sul legame tra educazione, paradigma e comunità di ricerca si è già argomentato ampiamente.

È ora però opportuno sottolineare un aspetto altrettanto importante riguardo i mezzi attraverso cui questa trasmissione di conoscenze è resa possibile. L’argomento, ovviamente, è di grande interesse anche sotto l’aspetto prettamente pedagogico e, più in generale, epistemologico, perché fornisce una linea interpretativa sui modi di intendere la conoscenza scientifica, i sistemi di credenza e la loro trasmissione generazionale. Gli ultimi tre capitoli del libro di Kuhn sono dedicati proprio ad illustrare queste questioni, che si connettono strettamente con altri problemi interessanti riguardo l’invisibilità e la soluzione delle rivoluzioni scientifiche e il modo di intendere il progresso nella scienza.

La formazione del ricercatore, sostiene Kuhn, avviene in maniera preminente sulla base di manuali, di articoli scientifici e altri testi specialistici come riviste, resoconti e partecipazioni a convegni, corrispondenza con altri ricercatori, letteratura grigia, ecc. I manuali accompagnano la formazione del ricercatore fin da studente e, poi, all’università; nelle fasi successive della sua formazione egli riceve notizie dei progressi della sua disciplina dagli articoli e dai resoconti di ricerca cui si è accennato.

Le cose stanno in maniera diversa per le discipline letterarie, umanistiche e artistiche e, in parte, per le scienze sociali dove gli studenti e i ricercatori si cimentano di frequente nello studio dei classici (lettura critica, copia di modelli artistici, musei, ecc.), o su ricerche a carattere monografico, storico, esegetico di correnti, scuole e autori fondamentali del passato. La presenza di molteplici punti di vista diversi, di molte scuole, paradigmi e tradizioni di ricerca, a volte incommensurabili tra loro, il confronto diretto con i classici e la loro frequente riproposizione nel presente, rendono queste discipline e i loro cultori molto meno ingenui circa l’assunzione di un unico paradigma interpretativo e più consapevoli del procedere storico, non lineare e non cumulativo, della loro disciplina.

Per la formazione professionale dello scienziato naturale, invece, non è assolutamente necessario leggere le fonti originali, ossia i classici della sua disciplina. È probabile che pochissimi fisici impegnati nella ricerca abbiano letto i Principia di Newton o le opere di Copernico, Keplero, Galileo, ecc. a meno che non siano spinti da un interesse specialistico come storici della scienza o da una curiosità personale che, di solito, non influisce sul loro lavoro di ricerca. Mentre è assai probabile che ne abbiano letto dei resoconti più o meno approfonditi su opere di divulgazione e, soprattutto, sui manuali; questi ultimi del resto devono fornire i dati più rilevanti della ricerca attuale e lo fanno ordinando la materia di studio in maniera pedagogicamente efficace, progressiva e strutturata. Tale ordinamento, poi, obbedisce ai presupposti teorici del paradigma di riferimento, per cui tutta la disciplina, anche le scoperte del passato e le rivoluzioni scientifiche, vengono presentate come un tutto ordinato, un’acquisizione progressiva di conoscenze.

Un simile stato di cose comporta delle conseguenze rilevanti sui modi in cui la scienza viene percepita dalla comunità scientifica e dal profano. L’idea della scienza come sistema di credenze stabilite una volta per tutte, della verità scientifica come

corrispondenza della realtà, mediante approssimazioni continue e virtualmente infinite, e del progresso come cumulo indefinito di conoscenze stabili, deriva in ultima analisi da questo strumento di trasmissione della conoscenza scientifica. Manca ai manuali la corretta prospettiva storica, non nel senso che la trascurano, ma che in un certo senso la “falsificano”. Il manuale si comporta nei confronti della storia della scienza e delle rivoluzioni scientifiche del passato come il Grande Fratello orwelliano che riscrive continuamente la storia, fornendo nuove interpretazioni del passato secondo gli interessi presenti. I manuali, cioè, in un periodo di scienza normale, forniscono delle interpretazioni funzionali al paradigma vigente delle ricerche del passato, per cui le rivoluzioni scientifiche e le prospettive discordanti fornite dai diversi paradigmi risultano assolutamente invisibili sia per il profano, sia per l’esperto; a meno che quest’ultimo non abbia vissuto in prima persona in una fase di scienza rivoluzionaria e di contrasto paradigmatico.

Chiaramente i manuali vengono riscritti al verificarsi di una rivoluzione paradigmatica, tale riscrittura è, però, un’operazione di occultamento che cela l’autentica dinamica della conoscenza scientifica e del suo procedere. Operazione tanto più efficace perché svolta in assoluta buona fede, senza nessun intento negativo. L’obiettivo, infatti, è quello di rendere più agevole, per studenti e specialisti, l’accesso alla conoscenza scientifica e alle acquisizioni più recenti della ricerca. Il processo di interpretazione del passato, in buona sostanza, è una rilettura secondo il nuovo paradigma delle vecchie teorie, il che comporta, senza gli opportuni accorgimenti, una sostanziale “presentizzazione” del passato che induce ad un annullamento della consapevolezza della distanza ermeneutica, quella che il filosofo tedesco Hans Gadamer (1900-2002) definirebbe la “coscienza della determinazione storica”. Scrive infatti Kuhn:

“Per il momento ammettiamo senz'altro che, in una misura che non ha riscontro in altri campi, la conoscenza che sia il profano che lo specialista hanno della scienza è basata su manuali e su pochi altri tipi di letteratura derivanti da essi. I manuali, però, essendo degli strumenti pedagogici costruiti per trasmettere la scienza normale, vanno riscritti alteramente o in parte ogni volta che mutano il linguaggio, la struttura dei problemi o i criteri della scienza normale. In breve, essi vanno riscritti in ciascun periodo successivo a una rivoluzione scientifica e, una volta che siano stati riscritti, inevitabilmente celano non soltanto il ruolo ma anche l'esistenza stessa delle rivoluzioni che li hanno prodotti. […]Per ragioni che sono tanto ovvie quando straordinariamente funzionali, i manuali scientifici (e molte vecchie storie della scienza) fanno riferimento

soltanto a quella parte della ricerca svolta dagli scienziati del passato che può facilmente essere considerata un contributo alla formulazione e alla soluzione dei problemi proposti dal paradigma accettato dai manuali stessi. In parte per selezione e in parte per distorsione, gli scienziati delle età precedenti sono implicitamente presentati come se la loro attività si fosse svolta intorno allo stesso insieme di problemi fissi ed in accordo con lo stesso insieme di canoni permanenti che la più recente rivoluzione nella teoria e nel metodo ha dichiarato scientifici. […] E non fa meraviglia che, dopo che la rielaborazione è stata fatta, la scienza finisce ancora una volta col sembrare largamente cumulativa. […] la scienza, come altre corporazioni professionali, ha bisogno di eroi [… tuttavia] gli scienziati sono riusciti con gran

facilità a dimenticare o a travisare le loro opere”. [Kuhn, op. cit., pag. 167-169]

Ma oggi la formazione degli scienziati è ancora di tipo essenzialmente manualistica? E per le altre discipline come stanno le cose? E, in ultima analisi, chi scrive i manuali?

Riguardo alla prima questione la mia sensazione è che la situazione odierna in Italia e, suppongo11, anche in altri Paesi non sia molto diversa da quella descritta da Kuhn negli USA alla fine degli anni Sessanta. Nelle scuole, nei cicli inferiori e superiori, e all’università la preparazione dello studente nelle discipline scientifiche si basa per la quasi totalità su manuali, dispense dell’insegnante e articoli specialistici. Nelle scuole di ogni ordine e grado lo studio dei classici nelle discipline scientifiche non fa parte in alcun modo dei programmi e un’attenzione poco più che formale è rivolta alla storia della scienza, comunque limitata a pochi ragguagli e notazioni contenute all’inizio di ogni capitolo dei manuali.

L’opinione comune dei docenti della scuola, inferiore e superiore, tranne forse qualche insegnante di fisica o di scienze particolarmente volenteroso e sensibile a questioni epistemologiche, è che lo studio dei classici per queste discipline non sia

11 I miei giudizi sono espressi sulla base della mia esperienza come insegnante nelle scuole superiori, mentre per la situazione universitaria si fonda sulle discussioni e il confronto con studenti, dottorandi e ricercatori italiani specialisti in materie scientifiche. Non dispongo di dati quantitativi relativi alla situazione italiana nel suo complesso né per giudicare della situazione in altri Paesi. Tuttavia se anche lo psicologo americano Howard Gardner (1943) lamenta il fatto che i suoi studenti non hanno letto Piaget e Freud credo che la questione sia generalizzabile a maggior ragione per le scienze della natura, pur con tutte le dovute cautele e senza nessuna pretesa di “scientificità”. Scrive infatti Gardner: “Molte volte i

miei studenti di psicologia mi dicono che Freud e Piaget sono ormai superati. Io allora chiedo loro se ne hanno letto le opere. La risposta è che non è più necessario farlo! A me piace discutere con chi contesta la validità di un grande pensatore dopo averne studiato i testi, non con chi riferisce conclusioni di secon- da mano o mette in dubbio la validità stessa di un'altra forma di indagine”. [H. Gardner, Sapere per

comprendere. Discipline di studio e discipline della mente, Milano, Feltrinelli, 2006]. Queste osservazioni di Gardner, in maniera significativa, si inseriscono all’interno di alcune considerazioni sul relativismo dei post-modernisti di cui si dichiara avversario. Secondo il suo punto di vista, infatti, molti sostenitori del post-moderno esprimono giudizi su autori e correnti senza essersi confrontati con lo studio e l’analisi approfondita di testi e di teorie, in modo non molto dissimile da ciò che fanno i suoi studenti. Nell’accusa non sono inclusi i capiscuola (Derrida, Lyotard, Rorty ecc.) e le loro analisi estremamente puntigliosi e approfondite.

necessario né utile. È anche piuttosto facile rilevare come gli insegnanti svolgano il loro lavoro seguendo i parametri del paradigma dominante sia in maniera implicita sia, a volte, per una consapevole scelta didattica, con l’obiettivo di facilitare l’apprendimento degli studenti ed evitare possibili confusioni.

All’università la situazione non è diversa e la preparazione, tranne per la presenza in alcuni piani di studio scientifici di un paio di corsi opzionali di epistemologia o di storia della scienza12, si basa in maniera pressoché totale su dispense e manuali. Negli studi letterari, in filosofia, in pedagogia e nelle arti le cose sono decisamente più complesse e articolate: se lo studio dei classici è una componente importante, tuttavia bisogna ammettere che la preparazione manualistica ha una rilevanza rilevante anche per queste materie sia nelle scuole sia all’università.

È ovvio che le considerazioni epistemologiche di Kuhn e degli altri epistemologi post-popperiani, che hanno avuto grande diffusione e che ormai sono entrate a pieno titolo nel patrimonio di conoscenze comuni di molte discipline scientifiche, hanno concorso a rendere gli scienziati più consapevoli e meno ingenui riguardo al loro lavoro, anche se forse hanno influito poco sulla pratica effettiva della ricerca in quanto tale. Ciò ha reso le stesse assunzioni paradigmatiche meno dogmatiche e la ricerca più consapevole della complessità del reale e della inadeguatezza delle teorie. A ciò hanno concorso anche le tendenze filosofiche attuali sempre più relativistiche, ermeneutiche, quando non addirittura decostruttiviste (si pensi all’irrealismo o alla logica modale, alla teoria dei controfattuali o dei mondi possibili, ecc.), e sempre più critiche verso concezioni ingenuamente riduzioniste, fisicaliste o realiste.

Ciò non toglie che il quadro delineato da Kuhn alla fine degli anni Sessanta, circa l’atteggiamento dogmatico di alcuni presupposti paradigmatici degli scienziati e sulla rigidità della loro formazione sia ancora sostanzialmente valido e largamente presente, anzi, in alcuni casi, il suo discorso sembra oggi coinvolgere anche le scienze sociali. La tendenza, ad esempio, a basare la formazione di studenti e ricercatori prevalentemente sui manuali si è accentuata nelle scienze sociali di più affermata tradizione (psicologia,

12 Elemento che del resto anche Kuhn non aveva sottovalutato, rilevando l’utilità dei corsi di storia della scienza e di epistemologia per far uscire gli scienziati dal loro “dogmatismo” paradigmatico.“Il gruppo di

studenti provenienti da facoltà scientifiche è spesso quello che trae maggior profitto dal loro insegnamento [degli storici della scienza]; ma è anche di solito quello che da le maggiori frustrazioni

all'inizio. Poiché gli studenti di scienze «conoscono le risposte esatte», è particolarmente difficile insegnar loro ad analizzare una scienza del passato nei termini che le sono propri” [Kuhn, op. cit., pag.121]

sociologia, economia). Nelle situazione attuale delle università italiane è assolutamente possibile prendere una laurea in psicologia senza aver mai letto un testo integrale di Piaget, Freud, Vygotskij, Skinner ecc. A questo processo fa riscontro un’altra tendenza, ossia “l’istituzionalizzazione” dei diversi paradigmi. Mentre per le scienze della natura l’assunzione di un unico paradigma esplicativo sembra l’iter normale di sviluppo della disciplina, lo sviluppo storico delle scienze umane sembra svolgersi attraverso la coesistenza, la conservazione, lo sviluppo e la competizione di alcuni paradigmi principali13 che, pur nella loro specificità, reciproca contrapposizione e contraddizione, sono considerati assolutamente legittimi e epistemicamente validi dalla comunità scientifica.

Come è stato rilevato ciò può a volte evidenziare, per esempio in psicologia, una certa “schizofrenia” anche nell’ambito di una stessa ricerca o di uno stesso individuo che, a seconda dei casi, assume le vesti dello sperimentatore comportamentista, poi quelle dello psicoanalista, quindi dello psicologo della gestalt o del cognitivista ecc., a volte senza alcuna consapevolezza o senza nessun tentativo di giustificare criticamente questo eclettismo o di precisare la provenienza di metodi, modelli, teorie. Infatti in psicologia viene attribuita pari dignità ai diversi paradigmi quali il comportamentismo, la psicoanalisi, la psicologia della gestalt, il cognitivismo, l’indirizzo storico-culturale e la neuropsicologia. In sociologia lo struttural-funzionalismo, le teorie del conflitto, l’interazionismo simbolico, le teorie sistemiche ecc. sono solo alcune delle scuole e dei paradigmi che si sono affermati storicamente e che ancora fanno sentire il loro peso nella ricerca contemporanea. In pedagogia la situazione è ancora più complessa e meno chiara soprattutto a causa della sua dipendenza epistemologica e paradigmatica nei confronti delle altre discipline scientifiche, naturali e umane, e della filosofia. Il

13 Lo psicologo e storico della psicologia Luciano Mecacci (1943), autore e curatore della prima traduzione mondiale di Pensiero e linguaggio di Vygotskij, a tale proposito sottolinea come per la psicologia sia più giusto parlare non tanto di paradigmi che si succedono nel tempo, come fa Kuhn, ma di “progetti di ricerca” alternativi, come sostenuto dall’epistemologo ungherese Imre Lakatos (1922-1974), amico e avversario di P. Feyerabend e sostenitore di un punto di vista vicino a quello di K. Popper, anche se profondamente rivisitato in chiave storicista e sociologica. Mecacci nella prefazione del suo “Storia

della psicologia del Novecento”, Roma-Bari, Laterza, 1997, pag.VII-X, esprime la convinzione che la psicologia, allo stato attuale, non sia una scienza unitaria ma sia costituita da una famiglia di linee di ricerca, ciascuna delle quali ha propri assunti teorici fondamentali, proprie metodologie e aree di ricerca privilegiate. Il dialogo tra i sostenitori dell’una o dell’altra prospettiva, ammesso che si verifichi, spesso conduce ad una incomprensione reciproca o a un puro formalismo. Sono sei le linee di ricerca individuate da Mecacci: fenomenologica (gestalt), psicodinamica (psicoanalisi), comportamentismo, cognitivismo, storico-culturale, biologico-neuropsicologica.

personalismo, la pedagogia critica, il problematicismo, la psicopedagogia, le teorie ermeneutiche e quelle fenomenologiche sono solo alcuni dei modelli di pedagogia via via proposti e ancora vitali.

La pedagogia, infatti, in maniera ancora più marcata della psicologia e della sociologia, presenta questo carattere di frammentarietà paradigmatica che rende difficile anche solo l’individuazione dei paradigmi di riferimento, pur nella loro connotazione debole e parziale tipica delle altre scienze umane. Se, infatti, un paradigma si collega a una comunità di ricerca e a un modo di formare le nuove leve al paradigma dominante (tanto è vero che secondo Kuhn il modo più semplice per individuarne uno è quello di partire dallo studio della comunità di ricerca che lo sostiene), allora bisogna ammettere che è piuttosto difficile individuare comunità di questo tipo nella storia della pedagogia, perché comunità di ricerca così definite e storicamente determinate non ci sono mai state. Infatti anche quando tali “scuole” e tradizioni di ricerca pedagogica sono diventate più definite e rilevabili da un’attenta analisi storica, più o meno dalla fine dell’800 con il movimento rinnovatore delle scuole nuove e poi con le correnti contemporanee, è accaduto sovente che uno stesso autore o scuola abbracciasse contemporaneamente più paradigmi, modelli e punti di riferimento teorici eterogenei per provenienza e tradizione di ricerca.

Si è determinata una situazione complessa e di ardua decifrazione che è tipica dell’assetto multi-paradigmatico e trans-disciplinare del discorso pedagogico. In pedagogia, infatti, non sono infrequenti, e anzi costituiscono la normalità, i casi in cui uno stesso autore, in uno stesso testo, passa da un punto di vista ad un altro, da considerazioni di tipo descrittivo-scientifico a quelle di tipo etico-normativo, da un paradigma scientifico ad uno ermeneutico-fenomenologico. Questi caratteri del discorso pedagogico sono stati ampiamente messi in rilievo e discussi attraverso un’attenta analisi epistemologica, ma anche filosofica (non metafisica o dogmatica, ma critica e ermeneutica) e, soprattutto, metateorica volta a trovare e individuare degli invarianti, eidetico-fenomenologici e storico-ermeneutici, e a indagare le altre categorie portanti (formazione, intenzionalità, cura, ecc.) di questo stesso discorso. Su questo tipo di indagine metateorica-ermeneutica, epistemologica e critica si è impegnato soprattutto il pedagogista Franco Cambi, uno dei critici più attenti nel panorama italiano e internazionale, che ha sviluppato una densa ricerca, teorica e storica insieme, volta alla

determinazione delle caratteristiche specifiche della pedagogia come disciplina, ossia impegnate a determinare “lo stemma del discorso pedagogico” (espressione ricorrente negli scritti di Cambi e che si richiama all’araldica) che viene trovato proprio nella complessità e nell’assetto pluri-paradigmatico del discorso pedagogico, nell’eclettismo e nel métissage14. Si chiede infatti Cambi:

“Qual è allora la struttura del pedagogico (come sapere organizzato sull’educazione: rigoroso e organico, appunto) che emerge da questa ottica eclettico-interpretativa? Quello di un sapere-discorso dotato di uno stemma (come si dice nell’araldica) a più campi: a più settori, a struttura complessa. Un campo-di-campi, leggibile secondo complessità. La pedagogia è, detto fuor di metafora, sapere plurale tensionale e quindi dialettico, che va tutelato in questo pluralismo dinamico”. [Franco Cambi, Navigando

tra le (attuali) filosofie dell’educazione. Prospettive metateoriche e decantazione della struttura, del senso, della funzione della pedagogia, 2008, scaricabile dal sito http://wwwdata.unibg.it/dati/bacheca/682/26804.pdf]

Cambi, oltre a questa ricerca metateorica, e in maniera complementare ad essa, ne “Il congegno del discorso pedagogico. Metateoria ermeneutica e modernità”, Bologna, Clueb, 1986, utilizzando la terminologia e alcune suggestioni teorico-epistemologiche