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Epistemologia e pedagogia tra impegno critico e trasformativo.

Il legame tra conoscenza e società così delineato implica la questione del ruolo della pedagogia, intesa come teoria e pratica della trasmissione del sapere, e della scuola come istituzione sociale in cui si concretizza formalmente questa trasmissione. Significativamente la soluzione che Morin propone viene argomentata utilizzando la terminologia di Kuhn e si riferisce specificatamente al campo educativo. La riforma del pensiero, sostiene Morin, non deve essere programmatica, ossia non riguarda tanto questioni di curricolo, i singoli programmi disciplinari o le procedure specifiche di ogni disciplina, ma paradigmatica, ossia deve concernere la nostra attitudine a organizzare la conoscenza seguendo non solo la logica della divisione ma quella della contestualizzazione e interconnessione delle competenze, delle discipline, dei modelli e delle conoscenze.

I cultori di discipline umanistiche e gli scienziati sociali sono, o almeno dovrebbero essere, più facilitati in questo spostamento di interessi da un problema ad un altro, da un ambito più ristretto ad un altro più generale, e viceversa. Nei momenti di crisi paradigmatica, infatti, lo specialista delle scienze della natura non essendo stato preparato in maniera specifica a questa eventualità, ha meno strumenti a sua disposizione per affrontarla e superarla in maniera soddisfacente; invece il ricercatore sociale, che in virtù della sua formazione meno rigida, più soggetta ad influssi eterogenei e costantemente implicata in questioni concernenti la valenza euristica ed epistemologica dei diversi paradigmi costitutivi, riesce con più facilità a districarsi in fasi critiche e a rispondere in maniera creativa ai problemi pragmatici epistemologici che gli si presentano nel procedere della sua ricerca.

Ovviamente anche questo discorso va relativizzato: la ricerca scientifica è un processo creativo, che premia l’innovazione e l’introduzione di nuove prospettive teoriche e sperimentali. Come Lyotard ha giustamente rilevato21, la stessa performatività del discorso scientifico, unico parametro di auto-legittimazione dopo l’estromissione della narrazione e il sospetto nei riguardi della verità scientifica intesa come corrispondenza, necessita del dissenso e dell’innovazione creativa. Infatti nelle società informatizzate e tecnologiche la potenza, ossia la capacità di accrescere e migliorare in termini di efficienza e produttività le prestazioni del sistema sociale, deriva dalla

gestione della conoscenza e dall’innovazione continua. Tale innovazione si fonda sulla possibilità, nella pragmatica della ricerca scientifica, della “paralogia”, ossia sulla libera (anarchica?) invenzione, al di là di ogni paradigma vigente, di nuove "mosse" che riorganizzano il sapere su nuove basi. In questo modo il sapere postmoderno, partendo dal riconoscimento della eteromorfia dei giochi linguistici, si concretizza in una razionalità plurale a raggio corto, mirante a legittimazioni fluide, parziali e reversibili.

In altre parole il consenso che si ottiene dall’accettazione paradigmatica è locale e temporaneo, cioè ottenuto dagli interlocutori momento per momento e soggetto ad eventuali revisioni. Del resto anche sul piano dei legami sociali si nota un’ evoluzione di questo tipo “dove il contratto limitato nel tempo si sostituisce di fatto all'istituzione

permanente nel campo professionale, affettivo, sessuale, culturale, familiare, internazionale” [Lyotard, La condizione post-moderna, Feltrinelli, 2008, pag. 120].

Allo stesso modo l’epistemologia “anarchica” di Feyerabend22 insiste più sulla creatività dei ricercatori e degli scienziati che sul consenso paradigmatico. Egli, infatti, sottolinea come storicamente non ci sia stata nessuna regola, metodologia, prescrizione, teoria, ecc., che non sia stata violata intenzionalmente dagli scienziati nel perseguimento dei loro obiettivi di ricerca; anzi, in ultima analisi, tali violazioni sono state la fonte del “progresso” nelle diverse discipline. Il nucleo teorico dell’opera principale di Feyerabend, “Contro il metodo”, risiede proprio nella proposta di una “epistemologia anarchica” (o “dadaista”) fondata sulla convinzione che non esiste alcun “metodo scientifico” o “regola unica” o “criterio di eccellenza” che stia alla base di ogni progetto di ricerca e che lo renda scientifico e fondato. Da questo punto di vista la creatività scientifica non è distinguibile, ad esempio, dalla creatività artistica o di altri campi del sapere.

Questa idea dell’impossibilità di trovare un principio di demarcazione tra scienza e non-scienza, principio caro al razionalismo falsificazionista di Popper, oltre a procurare a Feyerabend tutta una serie di accuse di irrazionalismo e di critiche feroci, ha il merito di sottolineare l’aspetto creativo e costruttivo dell’attività scientifica. Le regole paradigmatiche vengono violate perché gli uomini intelligenti, nell’affrontare e risolvere un problema, sono decisamente opportunisti, non si lasciano limitare da norme, regole e metodi; piuttosto introducono in maniera creativa nuovi principi, nuove regole, nuove

22 Lyotard per le sue argomentazioni sui caratteri della scienza e della società post-moderna si riferisce espressamente all’epistemologia di Feyerabend e di Kuhn.

costruzioni concettuali ecc., ossia cambiano le regole del gioco o utilizzano, con una certa disinvoltura metodologica, tutta una serie di strumenti mentali e materiali, eterogenei per provenienza disciplinare e/o non standardizzati, che all'interno di una determinata situazione si rivelano i più idonei ed efficaci al raggiungimento di certi obiettivi. Questa tesi implica la distruzione di ogni metodologia precostituita e mette capo al principio polemico slogan dell’anarchismo metodologico di Feyerabend, “anything goes” (tutto può andar bene).

L'epistemologia anarchica sostiene, così, l’esigenza di un pluralismo teorico e metodologico, che non significa distruggere regole o criteri nell'ambito della pratica scientifica, ma farsi paladini della libera inventività della scienza al di là di qualsiasi metodologia prefissata; in altre parole la lotta contro il metodo vuole essere, di fatto, una lotta per la libertà del metodo.

Se la scienza, quindi, nonostante il dogmatismo paradigmatico dei periodi normali, è caratterizzata da una forte componente creativa e pluralista, è pur vero che nelle scienze sociali, al contrario, spesso questo pluralismo metodologico e paradigmatico lascia il passo a un dogmatismo o a un ideologismo piuttosto spiccato. Queste componenti sono tanto più pericolose quanto più si presentano sotto forma di asserzioni neutre e “oggettive” derivanti dall’applicazione del metodo scientifico di tipo neopositivistico alle scienze sociali senza le dovute precauzioni critiche.

Il rapporto dialettico tra ideologia e scienza, infatti, contraddistingue pesantemente il discorso pedagogico sotto due aspetti: da un lato la scienza, attraverso l’applicazione del metodo scientifico e di canoni di accettabilità “empirico-sperimentali” delle teorie educative, ha permesso alla pedagogia di uscire dal suo assetto dogmatico, di tipo metafisico-religioso-retorico e dai condizionamenti ideologici, imposti dall’elite politico-economica, dalla tradizione, dall’economia, dalla politica, ecc.; dall’altro la scienza e, soprattutto, le scienze dell’educazione, hanno finito per costituire una “ideologia nascosta” , come sostenuto ad esempio da Angelo Broccoli, non meno pervasiva, non meno dogmatica e asservita a interessi esterni ed eteronomi. Inoltre l’affermarsi delle scienze dell’educazione e del paradigma epistemologico scientista ha rischiato di eliminare la specificità del discorso pedagogico, la sua unicità che, paradossalmente, consiste nel suo assetto multi paradigmatico, nella transdisciplinarità e nella capacità di tenere insieme riflessione filosofica (critica e ermeneutica ma non

dogmatica e metafisica), scienza e considerazioni etico-politiche che si proiettano in una dimensione utopica.

Nelle discipline umanistiche, nell’arte, nelle scienze sociali e soprattutto in pedagogia, del resto, la compresenza di molteplici paradigmi rendono i risultati all’interno di ognuno di essi sempre criticabili dall’altro. La mancanza di un meta- linguaggio neutro, sulla cui base giudicare la sostenibilità e “veridicità” dei paradigmi, delle teorie e dei risultati della ricerca, rende ogni acquisizione problematica e il “progresso” incerto, nel senso specificato di cumulazione di conoscenze accettate dalla specifica comunità scientifica. Tale presenza di paradigmi alternativi si lega alla formazione molto più articolata degli appartenenti ad altre discipline. Lo studente, nelle scuole e all’università, a differenza di ciò che avviene per le scienze, oltre che studiare i manuali spesso deve confrontarsi con la lettura diretta dei classici della letteratura, del pensiero filosofico, psicologico, pedagogico, ecc., il che lo pone in una prospettiva favorevole per rilevare la presenza di molteplici punti di vista diversi e alternativi, di tanti paradigmi storicamente determinatisi nella sua disciplina e ancora operanti nella contemporaneità.

Soprattutto all’università discipline come la filosofia, la pedagogia, la sociologia e la psicologia, in minor misura l’economia, prevedono nel loro curricolo la lettura diretta dei classici della disciplina e/o lo studio di opere monografiche in cui si interpretano e raccontano le teorie degli autori più rappresentativi contestualizzandoli storicamente.

Ad un livello superiore la stessa formazione del ricercatore è sempre sostenuta e affiancata da un’attenzione per la storia della disciplina, e per una continua rilettura/interpretazione dei classici, da cui si traggono spunti e prospettive per affrontare le nuove problematiche che la contemporaneità fa emergere. L’aspetto, però, che più di tutti caratterizza e allontana le scienze sociali (ma anche la filosofia e l’arte) dalle scienze nomotetiche è la mancanza di quell’isolamento della comunità scientifica dal resto della popolazione, che, invece, contraddistingue le seconde. I problemi dibattuti dai filosofi, dagli psicologi, dai sociologi e, in misura maggiore, dai pedagogisti, per esempio, non riguardano solo la comunità scientifica; il ricercatore sociale non può esimersi dal giustificare le sue ricerche anche prescindendo dai canoni di “scientificità” paradigmatica che sono propri della sua disciplina e della sua scuola. Le sue ricerche sono necessariamente di interesse pubblico perché possono avere degli

effetti sul piano individuale e collettivo, sull’organizzazione dell’istruzione, sui flussi migratori, possono condizionare il giudizio e l’opinione della società civile e, più in generale, la politica, ecc..

Il lettore e il cittadino comune, mediamente colto, spinto da una curiosità non professionale vuole e crede di poter esprimere il suo giudizio su questioni che possono riguardarlo anche da vicino. In pedagogia e nelle scienze sociali, perciò, non ci sono dei criteri unici, “assoluti”, paradigmatici e esoterici di accettabilità delle teorie; il ricercatore è costretto non solo a rispondere alla comunità dei ricercatori, i quali la giudicano secondo i parametri vigenti di scientificità paradigmatica, ma anche a giustificare le sue scelte, i suoi risultati e le sue intenzioni secondo altri canoni di giudizio, extra-scientifici e extra-metodici, di tipo etico, sociale, politico, estetico, talvolta confrontandosi con i propri e altrui pregiudizi e con il senso comune. Lo stesso linguaggio e terminologia in queste discipline non può essere formalizzato in maniera completa, le generalizzazioni simboliche e le definizioni non hanno la stessa valenza e precisione delle scienze della natura. Il discorso pedagogico, ad esempio, come è stato rilevato23, si caratterizza per la sua commistione di diversi giochi linguistici e in cui non c’è una distinzione precisa tra argomentazioni, prescrizioni, descrizioni, spiegazioni e consigli pratici; linguaggio comune e non specifico, termini tecnici e scientifici tratti da altre discipline, slogan e metafore caratterizzano nel profondo la logica argomentativa delle trattazioni pedagogiche. Rileva, infatti, il pedagogista Franco Cambi:

“L’analisi del linguaggio mise bene in luce un fascio di caratteri irriducibili, se pur apparentemente contraddittori. Un forte contributo del linguaggio comune, non scientifico, legato alle pratiche, alle tradizioni espressive, alla comunicazione dentro una cultura, che accoglie modi di dire, categorie polimorfe e non univoche, mai (come Peters dimostrò, anzi mostrò, per la categoria/termine «educazione»), ma anche slogan e metafore (come rilevò Scheffler), va posto al centro del linguaggio della pedagogia, su cui si innestano poi e ancora i linguaggi delle varie scienze «fonti» della pedagogia, dando spazio anche a termini teorici, astratti, riflessivi (filosofici, come «formazione», erede di paideia, humanitas, Bildung), legati in una sintassi argomentativa, di tipo saggistico. Oggi, poi, di tale linguaggio conosciamo anche le «fallacie», le aporie, etc.

23 Mi riferisco soprattutto a quelle ricerche di carattere epistemologico e metateorico che Franco Cambi attribuisce a ricercatori, per altri versi molto distanti tra loro, come Israel Scheffler (1923), George Kneller (1908), Wolfgang Brezinka (1928), Carmela Metelli di Lallo (1912-1977), Peters, O’Connor, Alberto Granese, Raffaele Laporta (1916-2000), Aldo Visalberghi (1919-2007); confronta in: Cambi F., Il

congegno del discorso pedagogico, Clueb, 1986; Metateoria pedagogica, Clueb, 2006; Manuale di

filosofia dell’educazione, Laterza, 2002; La pedagogia del Novecento, Laterza, 2008. Sul tema delle scienze dell’educazione: Massa R., Istituzioni di pedagogia e scienze dell’educazione, Laterza, 1999; Aldo Vislaberghi, Pedagogia e scienze dell’educazione, Mondadori, 1999.

che ne decantano proprio e ancora la complessità e lo «statuto» polimorfo. A livello logico il discorso pedagogico oscilla, e senza sintesi finale, tra logica della spiegazione, logica dell’argomentazione, logica della comprensione: tutte attive nel fare-pedagogia sia per la teoria sia per la pratica”. [Cambi F., L’epistemologia pedagogica oggi, 2008, scaricabile dal sito: http://ejour-fup.unifi.it/index.php/sf/article/viewFile/2907/2590]

Tale elemento rende la terminologia pedagogica estremamente imprecisa sul piano della denotazione semantica ma, nel contempo, la rende più accessibile al pubblico dei non esperti: il risultato di questo stato di cose è la mancanza in pedagogia, e nelle altre scienze sociali, di un isolamento paragonabile a quello di cui gode la comunità scientifica nelle scienze della natura. La necessità per il pedagogista di giustificare l’attendibilità del suo lavoro, non solo sulla base dei canoni ristretti del metodo e della verifica scientifica, ma attraverso il confronto con una più vasta gamma di parametri e fattori contingenti all’attualità del momento e del senso comune, deriva da questo carattere intrinseco del discorso pedagogico. Del resto la pedagogia non può, pena la rinuncia alla sua stessa ragione di essere, ritirarsi in un beato isolamento.

Il discorso pedagogico deve trovare il suo senso nella diffusione delle teorie e delle pratiche educative nella società civile e nelle istituzioni dello Stato. Se la pedagogia con le sue teorizzazioni, sperimentazioni, considerazioni, ecc., rimane un patrimonio interno alla sola comunità scientifica, materia di discussione e riflessione dei soli “esperti”, e non si traduce in un impegno trasformativo e militante (ossia in un tentativo di applicazione concreta di principi e strategie per cambiare, trasformare, migliorare, liberare, “coscientizzare”24, aprire possibilità e emancipare l’individuo-persona, l’intera società o anche, più modestamente, migliorare l’efficacia tecnico-didattica), allora la pedagogia come branca autonoma del sapere perderà di senso e non sarà possibile attribuire nessun tipo di significato ai suoi risultati teorici, né per il presente, né per il futuro, né varrebbe la pena porsi l’interrogativo sul suo statuto epistemologico e paradigmatico. La pedagogia, quindi, oltre che riflessione critica sulla cultura e sulla conoscenza, sui fini dell’educazione e sulle pratiche didattiche in un determinato contesto storico-culturale, si presenta come conoscenza per la prassi, ossia come progetto e applicazione concreta e impegno “trasformativo” della realtà presente; ultimo aspetto questo che rende necessario confrontarsi non solo con il noto, il già dato e l’esistente ma con il possibile, con l’ignoto e l’imprevisto. Realizzare il presente in vista

24 Utilizzo il termine in conformità ai testi di Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2002; Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla Pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2008.

del futuro significa anche rinunciare a qualunque tipo di riduzionismo tecnico-didattico, mentre emerge la dimensione etico-teleologica e utopica dell’impresa educativa.

La riflessione pedagogica dovrebbe risolversi in intervento attivo e concreto nelle istituzioni e nelle scuole, avere voce riguardo la formazione di insegnanti e studenti, fornire modelli interpretativi e quadri teorici di riferimento, suggerire e realizzare curricoli diversi e aiutare lo svolgimento didattico attraverso l’introduzione di tecniche (cognitive, dialogiche, informatiche, ecc.) a sostegno e vantaggio di tutti coloro che, a diverso titolo, si trovano impegnati in attività educative. L’obiettivo ambizioso dovrebbe essere la realizzazione armonica dello studente e delle sue facoltà psico- fisiche e etico-politiche. Il concetto di formazione25 e di auto-formazione ha permesso, almeno sul piano teorico, di superare la dicotomia, sempre presente in pedagogia, tra istruzione e educazione, tuttavia il monito kantiano “abbi il coraggio di usare la tua

propria ragione” è ancora lungi dall’essere realizzato in concreto. La massificazione della cultura rende sempre più difficile sfuggire alle logiche di mercato, alla manipolazione più o meno implicita delle coscienze, all’ideologismo strisciante e acritico.

Abbiamo visto i pericoli dell’iper-specialismo e delle chiusure dogmatico- paradigmatiche: a questi bisogna aggiungere l’idea che la riflessione pedagogica sia inutile per l’educazione e per la scuola e che il compito delle istituzioni sia solo quello di istruire e professionalizzare gli studenti, ossia farli entrare nel mondo del lavoro, integrarli nel sistema e socializzarli. Tale atteggiamento miope non solo nasconde pericolose derive autoritarie e antidemocratiche, ma si traduce immediatamente in una perdita di “creatività”, ossia nell’incapacità di risolvere problemi inediti con la creazione di strumenti concettuali e simbolici inediti. L’impresa individuale e collettiva di costruire e introdurre nuovi paradigmi, nuovi modi di parlare, codici e griglie di riferimento è difficile, complessa, irta di errori e “sentieri interrotti” ma è anche, come si è visto, l’unico modo in cui può essere inteso il progresso; sotto un altro aspetto, però, è soprattutto ricerca dell’autonomia, capacità di decondizionarsi dal già dato, dal già detto, dal già noto.

Ci si può chiedere se la scuola oggi favorisca il sorgere di questo spirito critico, dell’immaginazione creativa o anche solo di un’autentica comprensione di ciò che si

studia26 e quale contributo dia la riflessione pedagogica. In entrambi i casi il quadro è decisamente sconfortante: la scuola è un’istituzione decisamente conservatrice che non premia né favorisce il sorgere delle capacità critiche e creative, anzi spesso interpreta attitudini individuali e manifestazioni in tal senso come elementi di disturbo; nullo o quasi il contributo della riflessione pedagogica per la pratica educativa.

È anche vero, come ormai una copiosa letteratura ha messo in evidenza, che la scuola è essenzialmente strumento di socializzazione e di trasmissione dell’ideologia dominante, mantenimento dello status quo e delle differenze di classe, tuttavia è altrettanto vero che non mancano le eccezioni e che, come si è detto, se la pedagogia vuole avere un senso esso deve manifestarsi nel suo impegno militante nella trasformazione del reale, in primis nelle istituzioni scolastiche. La perdita dell’immaginazione, intesa non come fuga onirica e fantastica dalla realtà storico- culturale, produce l’incapacità di trovare soluzioni nuove e originali, di confrontarsi con l’ignoto e l’imprevisto attraverso maniere inedite di organizzare la conoscenza. “Congiuntivizzare il reale”27 significa sviluppare un atteggiamento ironico, consapevole della contingenza del reale, favorire la solidarietà e l’apertura all’altro per renderne possibile la critica e impegnarsi nella sua trasformazione, ossia ricercare e costruire nuovi modi di dare senso28. La pedagogia, intesa come esercizio critico della ragione e realizzazione di sé nel formare l’altro, non può esimersi dall’affrontare anche questi problemi generali di tipo istituzionale, etico e politico. L’accostamento che sovente è stato fatto tra pedagogia, medicina e ingegneria rende bene l’idea di questo assetto duale del discorso pedagogico, diviso tra elaborazione teorica e applicazione concreta, che non può solo stabilire principi ma deve anche sempre studiare strategie, soluzioni applicative e risolvere questioni contingenti di particolare urgenza. Quest’ultimo aspetto è un altro carattere che contraddistingue la pedagogia, ma anche le altre scienze sociali,

26 Howard Gardner in “Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico”, Milano, Feltrinelli, 2007, rileva come negli USA, ma verosimilmente in tutti i paesi, al raggiungimento del diploma, al superamento degli esami universitari e, spesso, anche dopo il conseguimento della laurea non corrisponda un’autentica comprensione di ciò che si è studiato. Gli studenti, infatti, in genere non sono in grado di applicare in maniera corretta, al di fuori del contesto prettamente scolastico-universitario, le conoscenze e le nozioni apprese.

27 Utilizzo il termine in conformità all’uso che ne fa Jerome Bruner, confronta in: La mente a più

dimensioni, Laterza, 2005; La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, 1997; La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, 2007; La fabbrica delle

storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza, 2002.

28 Su questi temi confronta in Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e

come forma specifica di sapere: è infatti dipendente dagli avvenimenti contingenti, storico-culturali, sociali, istituzionali, economico-politici, ecc., e dalle problematiche dell’attualità che ne stabiliscono le priorità e le urgenze educative, quindi anche l’analisi dei problemi e lo studio delle soluzioni, sul piano teorico e su quello della prassi.

L’assetto probabilistico, ermeneutico, statistico, tendenziale, ideografico delle rilevazioni e verifiche empiriche in pedagogia come in altre discipline sociali, ancora