CONSIDERAZIONI PEDAGOGICHE SULLA TEORIA DELLA MENTE E DELLE RET
3. Modelli della mente, paradigmi pedagogici e modelli educativi.
Secondo Bruner90 l’educazione non è una questione tecnica di buona gestione dell’elaborazione delle informazioni o di mera “trasmissione” di contenuti, di
performance positive ai test scolastici, ma è una attività complessa che si propone di adattare una cultura alle esigenze dei suoi membri e, viceversa, questi ultimi e i loro modi di conoscere alla cultura91. In quest’ottica il processo educativo situato in un certo contesto culturale e sociale, svolgendosi attraverso concrete relazioni e transazioni tra i membri di un gruppo, sottintende sempre delle abilità sociali che fanno capo a una teoria della mente, alla folk psychology e alla folk pedagogy. In maniera decisa la prospettiva socio-costruttivistica e storico-culturale di Bruner sottolinea come culture diverse, più o meno esplicitamente, tendano a rappresentare la mente, i processi cognitivi, il rapporto insegnamento-apprendimento e, in generale, tutto ciò che si è indicato con il termine folk psychology, in maniera (a volte) differente. Gli studi sulle differenze culturali relativi alla teoria della mente cominciano a delineare un quadro molto articolato sulle alternative possibili in tal senso e sembrano confermare che le influenze culturali, seppure all’interno di una precisa predisposizione genetica, rivestono un peso decisivo per la “formazione” della mente anche per ciò che concerne le abilità sociali connesse alla folk psychology.
Stabilito che esiste un legame piuttosto forte tra folk psychology e folk pedagogy, ossia tra teorie della mente e modalità di insegnamento-apprendimento e di formazione, Bruner si impegna a descrivere quattro modelli della mente dei discenti che, avendo esercitato (e esercitando) una grande influenza nella nostra epoca, soprattutto in
90 Il testo di riferimento in questa sezione è soprattutto: J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi
orizzonti per la scuola, Feltrinelli, 2007, in modo particolare il capitolo 2, “Pedagogia popolare”, pag. 57-78. Cfr. anche in: J. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, 2005; La ricerca del significato. Per
una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, 1997; La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza, 2002.
91 Il che equivale a riconoscere alla cultura e al processo educativo i caratteri tipici dei sistemi complessi come intesi da E. Morin il quale individua sette principi per definire la complessità e un pensiero che “interconnette”: 1. Il principio sistemico che afferma che “il tutto è più della somma delle parti”; 2. Il principio ologrammatico che sostiene che il tutto è iscritto nella parte; 3. Il principio della retroazione (feedback) che rompe la logica della causalità lineare; 4. Il principio dell’anello ricorsivo secondo il quale gli uomini producono la società mediante le loro interazioni, ma la società in quanto globalità emergente produce l’umanità di questi individui portando loro il linguaggio e la cultura; 5. Il principio dell’autonomia/dipendenza (gli umani sviluppano la propria autonomia dipendendo dalla cultura); 6. Il principio dialogico che unisce i principi che a prima vista paiono elidersi a vicenda: vita/morte, ordine/disordine, ecc.; 7. Il principio della reintegrazione del soggetto conoscente in ogni processo di conoscenza, per cui ogni conoscenza è una ricostruzione, traduzione da parte di una mente/cervello in una data cultura in un certo tempo. Cfr. in: E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina, 2000, pag. 96-101.
Occidente, rappresentano altrettanti modi di intendere il rapporto tra mente e cultura, la pedagogia, l’insegnamento-apprendimento, gli obiettivi e la prassi educativa. I quattro modelli della mente e dell’apprendimento individuati da Bruner sono: 1. apprendimento per imitazione (acquisizione di Kwow-how); 2. apprendimento per esposizione didattica (acquisizione di conoscenze proposizionali); 3. apprendimento attraverso lo scambio intersoggettivo (meta-cognizione e costruzione sociale, scaffolding, transazione, negoziazione); 4. gestione della conoscenza obiettiva.
Prima di analizzare nel dettaglio questi quattro modelli, però, occorre spendere qualche parola per evidenziare le ragioni e l’utilità di una simile operazione la quale, a ben guardare, risiede proprio nella dicotomia fondamentale insita in ogni discorso pedagogico, ossia il rapporto dialettico tra teoria e prassi. Il problema dell’applicazione della conoscenza teorica riguarda ogni ricerca scientifica non meramente descrittiva ma, come si è più volte ripetuto, riguarda in modo particolare quelle discipline che, come la pedagogia (medicina, ingegneria, alcune branche della psicologia, ecc.), hanno un intento trasformativo che necessità di un “inveramento” nella prassi.
La ricerca pedagogia e tutte le discipline che si occupano degli eventi educativi (filosofia dell’educazione, psicopedagogia, scienze dell’educazione, ecc.) hanno un senso solo se riescono a operare un miglioramento della prassi educativa in situazione e, eventualmente, a orientare le riforme delle istituzioni scolastiche ma anche, più in generale, se mirano a migliorare la condizione dei singoli e delle collettività, della politica, della società e della cultura nel suo complesso. Tutto ciò, però, si può realizzare solo se esiste un legame diretto tra teoria e prassi e se le ricerche teoriche sono conosciute e condivise da coloro che hanno responsabilità educative, ossia gli educatori. Ogni riforma educativa ogni innovazione teorica, metodologica, didattica, ecc., non può sperare di essere accolta e applicata se gli educatori non la fanno propria, e non si può ottenere questo risultato se prima non si prendono in considerazione le modalità correnti, normalmente in uso e adottate dagli insegnanti nelle aule scolastiche. Ciò significa fare i conti con le conoscenze, i pregiudizi, le assunzioni e le “rimozioni”92 degli educatori circa le loro concezioni della mente, della conoscenza, dell’insegnamento-apprendimento, ecc. In altre parole se si vogliono proporre nuove
92 Tutto ciò ricorda da vicino la “clinica della formazione” di Riccardo Massa, cfr. in: R. Massa, (a cura di), La clinica della formazione. Un’esperienza di ricerca, Franco Angeli, 2008; Istituzioni di pedagogia
concezioni della mente, della cultura, della conoscenza, dell’educazione, ecc., fondate su dati scientifici, precipitato dei risultati migliori nel campo delle ricerche psicologiche, pedagogiche, filosofiche, delle scienze cognitive, ecc., occorre previamente esplicitare le concezioni di psicologia e pedagogia ingenua che fanno parte del patrimonio culturale e professionale degli insegnanti. Solo in questo modo è possibile operare un cambiamento nella prassi educativa e convincere gli educatori della bontà, o meno, delle proposte che vengono dalla ricerca teorica.
Andiamo ora ad analizzare brevemente i quattro modelli della mente individuati da Bruner, premettendo che dal suo punto di vista, data la complessità degli eventi educativi, nessuna di esse può presentarsi come “migliore”, né come l’unica. Ognuna delle quattro prospettive ha dei punti di forza e altri di debolezza che rendono necessaria una loro integrazione sia dal punto di vista teorico sia per ciò che concerne la pratica educativa. L’univocità, esclusività e ristrettezza del punto di vista, infatti, produce una serie di distorsioni ed errori che non permettono di valutare nel giusto modo la multidimensionalità dei processi educativi, mentre sarebbe opportuno considerare queste quattro concezioni dell’apprendimento-insegnamento come parti di un continente più vasto costituito dal fondersi delle diverse concezioni presentate in un’unità coerente. Il primo modello pensa all’insegnamento-apprendimento come a un processo educativo fondato sull’imitazione dell’esperto che mira all’acquisizione di know-how tramite l’esercizio. Questa modalità educativa è tipica delle società tradizionali in cui vige l’apprendistato e prevalgono attività tecnico-manuali di produzione; tuttavia, come si è visto, rappresenta la modalità principale di formazione didattica e professionale anche per lo scienziato e le attività mentali connesse ai più alti livelli di astrazione (come la fisica teorica). Il presupposto è che la mente si struttura e si forma mediante l’attività in prima persona e l’imitazione di modelli dati che, introiettati, la determinano in molti aspetti importanti. In sostanza secondo questa concezione la mente sarebbe plastica, essendo il frutto dell’abitudine, dell’addestramento e dell’esercizio, ma nello stesso tempo il raggiungimento dei livelli più elevati e dell’eccellenza in un dato campo dipendono dal talento personale (non tutti i musicisti sono grandi musicisti, né gli scienziati grandi scienziati). Ciò non di meno la condicio sine qua non di questo modello è la capacità di riconoscere una situazione educativa come tale: un bambino (o un adulto) che osserva un esperto che presenta “un esempio” (modello) deve accorgersi
che quella è una situazione educativa, ossia che l’adulto/esperto fa quella dimostrazione per insegnargli qualcosa, che l’obiettivo è imparare a sua volta a farla e che ciò è possibile imitando il modello ed esercitandosi.
Il secondo modello pensa all’insegnamento-apprendimento nei termini di “lezione frontale”, ossia fa dell’esposizione didattica e dell’acquisizione di conoscenze proposizionali il fulcro dell’attività educativa. Questo modello parte dal presupposto che la conoscenza, anche quella procedurale e pratica, derivi da quella simbolico-linguistica che fornisce “nozioni” da memorizzare. La conoscenza è nella mente dell’insegnante e, attraverso la memorizzazione, si trasferisce in quella degli studenti i quali a quel punto possono cimentarsi nell’applicazione. Quindi per acquisire competenza occorrono abilità mentali di tipo logico-simbolico (verbale, spaziale, numerico, ecc.), mentre il presupposto è che la mente sia una tabula rasa, essenzialmente passiva nel processo apprenditivo, che aspetta di essere cumulativamente riempita di “fatti, principi e regole d’azione” memorizzati e rappresentati in strutture cognitive interne di tipo simbolico.
L’apprendimento-insegnamento si configura come unidirezionale, dall’insegnante all’allievo, e il fallimento scolastico si spiega con la presenza di tare psico-biologiche (riscontrabili, ad esempio da un basso livello di QI93), con carenze cognitive e motivazionali di vario tipo o, anche, con le condizioni di vita disagiate e “deprivate”; in questo modo l’establishment dell’educazione ne esce pulito e senza responsabilità di sorta, se non quella di aver “ufficializzato” un inevitabile e annunciato fallimento scolastico (e in qualche modo sociale e professionale).
Questo modello della mente e dell’insegnamento-apprendimento è quello che più di tutti si è diffuso nella pratica scolastica e costituisce probabilmente il presupposto di pedagogia popolare maggiormente condiviso dagli insegnanti. Come ci ricorda Bruner ciò è dovuto, non solo alla sostanziale “autorità epistemica” che riserva al docente, ma soprattutto alla possibilità che tale modello offre nei termini di una precisa progettazione didattica e della valutazione. Seguendo questo modello, infatti, è possibile determinare a-priori, e poi cercare di attualizzare nella pratica, gli obiettivi educativi e didattici, il curricolo, i programmi scanditi in unità didattiche (o di apprendimento), i livelli di entrata e di uscita relativamente a conoscenze, competenze e abilità, i criteri e
93 Sull’uso e l’abuso dei test d’intelligenza che, a volte, hanno avvalorato tesi sostanzialmente razziste e fornito una base “scientifica” per politiche educative discriminatorie negli USA e in altri Paesi, cfr. in: Hans Eysenck; Leon Kamin, Intelligenti si nasce o si diventa?, Laterza, 1994.
gli strumenti, più o meno validi intersoggettivamente, di valutazione, ecc.. Tutto ciò da l’impressione che l’educazione sia qualcosa di meno aleatorio e, soprattutto, da l’illusione che la conoscenza sia qualcosa di “oggettivo” che si possiede o non si possiede. Il suo limite, riprendendo Morin, è che si finisca per avere come fine dell’educazione “una testa ben piena piuttosto che una testa ben fatta”94.
Il terzo modello della mente e dell’insegnamento-apprendimento individuato da Bruner si lega direttamente alle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti sulla psicologia e la pedagogia popolare. Secondo questa prospettiva l’educazione è un processo di co-costruzione della conoscenza cui il bambino partecipa attivamente attraverso “transazioni” e negoziazioni di significati. Il fulcro di questo modello è costituito dallo scambio intersoggettivo e dialogico continuo tra insegnante e allievi e tra gli stessi allievi. La modalità didattica principale è costituita dalla formazione di gruppi di lavoro e di discussione per la produzione di “opere culturali” collettive (oeuvres).
La conoscenza non è intesa come qualcosa che si ha una volte per tutte, né come qualcosa di “oggettivo” che sta solo nella mente, ma come il risultato di una transazione razionale e dialogica sulla base di prove, “argomentazioni, dimostrazioni e ricostruzioni”. In questo senso l’insegnante è una guida ma non il depositario della conoscenza, perché la conoscenza, anche la più astratta, ha un carattere pragmatico e strumentale, serve a certi scopi e risolve certi problemi, è una costruzione soggetta a revisioni ed è un prodotto collettivo che non ha una collocazione precisa (è nella mente individuale, ma anche diffusa socialmente e propria di una cultura, è negli oggetti, negli strumenti e, in genere, in ogni “prodotto culturale” – opere d’arte, romanzi, teorie scientifiche, tecnologie, oggetti d’uso, ecc. – ).
La mente dello studente non è una tabula rasa, egli è in possesso di conoscenze, capacità e abilità sue proprie fin dall’età prescolare; è capace di interagire con gli altri sulla base di abilità sociali e teorie implicite della mente; ha opinioni proprie su cosa sia la conoscenza, su come si trasmetta e a cosa servi; si è costruito con il tempo, attraverso processi di interazione sciale, di inculturazione e di interpretazione, delle “teorie” coerenti sul mondo fisico e su quello sociale che lo condizionano nel modo di pensare e
94 La frase di Morin è presa dal filosofo francese Montaigne: “è meglio una testa ben fatta che una testa
ben piena”. Cfr. in: E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina, 2000, pag.15.