• Non ci sono risultati.

Dalla “psicologia popolare” alla “pedagogia popolare”.

CONSIDERAZIONI PEDAGOGICHE SULLA TEORIA DELLA MENTE E DELLE RET

2. Dalla “psicologia popolare” alla “pedagogia popolare”.

Da quanto detto nella sezione precedente si comprende come da un punto di vista pedagogico l’impostazione culturalista è quella che assegna il valore maggiore ai processi educativi perché riconosce la possibilità di intervenire per modificare, con la cognizione e la mente, l’uomo e la società in cui si trova In questa prospettiva comprendere fino a che punto Tom dipenda dal contesto socio-culturale e, da un punto di vista pedagogico, sia necessario per rendere possibili e attualizzabili quei processi educativi (inculturazione, istruzione e formazione) alla base dell’umanizzazione dell’uomo, diviene di fondamentale importanza. Negli ultimi anni questo tipo di ricerche, a riconoscimento della centralità degli studi sulla teoria della mente per le questioni educative, è aumentato in maniera notevole. In questo ambito, tuttavia, la letteratura scientifica, psicologica e, soprattutto, pedagogica, rimane quantitativamente e qualitativamente poco incisiva sul piano della pratica educativa, da un lato, perché mancano studi generali, completi e approfonditi su cui ci sia un pieno accordo dei ricercatori, dall’altro perché le istituzioni (statali e scolastiche) e gli insegnanti di solito non conoscono (o conoscono poco e male) queste ricerche e tendono ad assumere un atteggiamento di sospetto verso i risultati e i cambiamenti educativi che suggeriscono (a volte a ragione): ovviamente ciò si traduce in forme di conservatorismo didattico-

educativo. In ogni caso è abbastanza facile rilevare come l’inculturazione, l’istruzione e la formazione presuppongono un contesto inter-relazionale in cui devono essere presenti capacità metacognitive e abilità sociali tali da saper interpretare correttamente gli atteggiamenti intenzionali. In questo senso la stessa educazione e formazione scolastica può essere vista come uno sforzo reciproco, anche se asimmetrico, da parte del discente e del docente di capire e interpretare correttamente le intenzioni dell’altro. Il bambino (e/o lo studente) deve capire, come prima cosa, che l’adulto (l’insegnante o l’esperto) sta cercando di insegnargli qualcosa; che quella in cui si trova è una situazione di insegnamento-apprendimento che necessita di attenzione e sforzo; che l’attività (andare in bicicletta, disegnare, scrivere, ecc.) o le nozioni teoriche che vengono insegnate non sono solo qualcosa di divertente da fare per se stesse (e anzi talvolta non lo sono affatto), ma hanno un certo valore e importanza sul piano sociale (per l’insegnante, per la famiglia, per i compagni, ecc.); che l’educatore si aspetta da lui un certo impegno e che riesca, in seguito, a svolgere da solo quello che ora gli viene insegnato. In una fase successiva lo studente a scuola dovrà confrontarsi con l’”autorità epistemica” dell’insegnante, dovrà capire, cioè, cosa l’insegnante ritiene importante, “cosa vuole sentirsi dire”, quali sono gli aspetti disciplinari che predilige e perché. In qualche modo, quindi, lo studente dovrà adeguarsi al modo in cui l’insegnante organizza, interpreta ed espone i contenuti disciplinari, ossia dovrà “tradurli” e introiettarli secondo le proprie capacità e conoscenze e, nello stesso tempo, se vuole ottenere successo negli studi, interpretare correttamente e adeguarsi al metro di giudizio e di valutazione del docente.

È chiaro che lo stesso discorso può farsi in senso inverso, ossia, dalla parte dell’insegnante che prova a interpretare e a rappresentarsi le difficoltà, le capacità, le ansie, le motivazioni (o scarse motivazioni), gli atteggiamenti e gli stati intenzionali degli studenti. Gli insegnanti, di solito, conoscono i loro allievi e le loro specificità caratteriali e cognitive, spesso riescono a determinare con una certa precisione la loro preparazione scolastica, sanno quali sono le loro caratteristiche cognitive, in cosa riescono più facilmente e in cosa trovano difficoltà. Gli insegnanti, inoltre, hanno un’idea, più o meno precisa, di quali sono le speranze, le paure e le ambizioni dei loro allievi e una percezione di solito corretta su quali sono le dinamiche relazionali e la divisione dei ruoli all’interno del gruppo classe (divisione in sottogruppi, funzione di

“simpatico”, lo “sportivo”, il “bullo”, ecc.). In molti casi, tuttavia, la percezione e le considerazioni degli insegnanti sono errate oppure divengono delle “etichette” che una volta affibbiate allo studente difficilmente sono suscettibili di cambiamenti e revisioni, anche nel caso di eventi che smentiscono queste valutazioni (positive o negative) errate. Casi simili si connettono non solo all’“effetto alone” (il giudicare la preparazione dello studente in base a parametri “non pertinenti” come il modo di vestire, le buone maniere, i modi affabili, l’assenza o la presenza di intonazioni dialettali, la provenienza famigliare e sociale, ecc.), e a tutta una serie di “distorsioni che possono riguardare in modo specifico il mondo della scuola (l’effetto Pigmalione, “le profezie che si autoavverano”), ma anche a un processo che ricorda da vicino la teoria sociologica dell’etichettamento sociale (labelling theory)84 che può indurre lo studente ad accettare,

a introiettare e a comportarsi in linea con ciò che l’insegnante crede di lui. In questo modo se l’insegnante è convinto che lo studente sia svogliato o che, peggio, sia “incapace” di apprendere e di raggiungere un livello soddisfacente di preparazione, lo studente non solo può accettare il giudizio dell’insegnante, ma può finire per convincersene a sua volta, a tal punto da conformarsi pienamente a questo giudizio. In altri termini l’attribuzione di certe caratteristiche mentali connesse alla teoria della mente e alla psicologia ingenua, ad esempio di scarse capacità cognitive o volitive da parte dell’insegnante, ossia dell’esperto e dell’autorità in un certo campo, può produrre non solo dei disastri dal punto di vista dell’autostima e del successo, o meglio dell’insuccesso, scolastico, ma può favorire proprio l’insorgere di quei caratteri cognitivi, emotivi, volitivi e comportamentali che si ritengono negativi.

In questo senso il nesso tra “teoria della mente” e processo educativo riveste un’importanza strategica per tutti coloro che si interessano di processi formativi. Assodato, quindi, che non può esserci un vero rapporto educativo senza una molla motivazionale e senza stabilire un qualche tipo di relazione emotiva e empatica di comprensione reciproca, bisogna sottolineare anche come le abilità sociali connesse alla psicologia ingenua e a ToM costituiscono anche un “pericolo” al retto costituirsi di un processo ottimale di insegnamento-apprendimento. I giudizi e le valutazioni sulle caratteristiche, le volizioni e le capacità mentali degli allievi devono sempre essere

84 Uno dei più radicali sostenitori dell’efficacia sociale dell’etichettamento fu il sociologo canadese Erving Goffman (1922-1982), il quale a tale proposito coniò il termine “stigmatizzazione” per descrivere fenomeni sociali connessi soprattutto alle “istituzioni totali” come gli istituti psichiatrici o le carceri.

vagliate criticamente e costituire utili “ipotesi di lavoro” piuttosto che considerate alla stregua di un “destino”. In quest’ottica ToM più che una teoria ingenua deve essere assunta come un costrutto euristico, suscettibile di correzioni e revisioni critiche in grado di superare qualsiasi atteggiamento ingenuo, soprattutto da parte di chi ha responsabilità educative. È evidente che in questo processo di valutazione critica hanno un ruolo determinante le competenze professionali dell’insegnante, critico-riflessive alla maniera intesa da Donald Schon (1930-1997)85, ma possono svolgere un utile sostegno alla professione anche gli studi scientifici sulla psicologia popolare, la teoria della mente e, in genere, tutte le ricerche che hanno per oggetto la mente, i processi cognitivi e le dinamiche relazionali ed emotive.

Non bisogna dimenticare, infine, che approcci pedagogici come la clinica della formazione di Riccardo Massa (ma anche il problematicismo e la pedagogia critica), volta a fare emerge i pregiudizi e le “rimozioni” che a diversi livelli condizionano il processo educativo, può essere considerata anche come una via maestra per esplicitare le proprie convinzioni su ToM. Consideriamo il caso in cui l’insegnante, anche sulla base di una conoscenza approssimativa della letteratura scientifica in tal senso, sia portato ad attribuire a uomini e donne diverse abilità cognitive e mentali, ad esempio riguardo le intelligenze matematiche o spaziali, di cui le donne sarebbero meno dotate rispetto agli uomini, o viceversa riguardo le intelligenze linguistiche e interpersonali, in cui le donne sarebbero più abili degli uomini86. In una simile prospettiva egli potrebbe essere indotto a valutare diversamente le prestazioni degli uni e delle altre oppure a inibire le naturali propensioni degli allievi che contrastano con la sua teoria. Casi simili si possono verificare, e si sono frequentemente verificati, per ciò che concerne le distinzioni etniche e i risultati dei test di intelligenza connessi alla misurazione del QI e alle conseguenti politiche scolastiche negli USA e in altri Paesi87; oppure anche relativamente alla credenza che soggetti appartenenti a contesti socio-culturali degradati

85 Cfr. in: D. Schon, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo,1999; Formare il professionista riflessivo. Per una nuova prospettiva della formazione e

dell'apprendimento nelle professioni, Franco Angeli, 2006.

86 Appigli in tal senso, anche se i risultati sperimentali vengono valutati piuttosto criticamente, si trovano anche in Gardner il quale fa notare come in genere sussista qualche differenza, misurabile statisticamente, tra lo sviluppo delle intelligenze negli uomini e nelle donne; non nel senso di una superiorità degli uni rispetto alle altre, quanto piuttosto nel senso di una maggiore presenza di alcuni tipi di intelligenze nei soggetti femminili e di altre in quelli maschili. Tuttavia Gardner rimane scettico nei confronti di una vera e propria teoria delle specificità delle intelligenze legata al genere sessuale. Cfr. in: H. Gardner, Formae

mentis, Feltrinelli, 1996.

debbano necessariamente fornire performance cognitive scadenti. A tale proposito Bruner fa notare come la stessa nozione di “deprivazione culturale” connessa alla valutazione di “ambienti sociali degradati” si costruisca sulla base di precisi input e assunzioni culturali, a volte assolutamente ingiustificati e tendenti, surrettiziamente, a svalutare le culture diverse da quelle di appartenenza. Assumere, infatti, come canone di giudizio la classe media americana e il modo che essa adotta in genere per allevare e educare i figli, per valutare se un contesto socio-culturale è deprivato o meno, significa non ammettere possibilità alternative e giudicare negativamente qualsiasi modalità che si allontani troppo da quel modello di riferimento. Il che, in pratica, significa “colpevolizzare” e accusare tutte le minoranze etniche (soprattutto afro-americani e ispanici) che non adottano quel modello sia per motivi economici sia culturali88.

In maniera più specifica gli studi sulla teoria della mente e la psicologia popolare si sono connessi con le possibilità educative offerte dallo sviluppo delle capacità metacognitive. Riuscire a comprendere i propri processi mentali e a capire come funziona la nostra mente, infatti, è un modo efficace di migliorarne le prestazioni e di ridurre i tempi di apprendimento. Di solito gli insegnanti intendono proprio questo quando, rivolgendosi direttamente agli studenti o alle famiglie, si lamentano del fatto che i ragazzi non hanno un “metodo di studio”. “Avere un metodo di studio” significa saper compiere delle operazioni sui propri processi mentali e apprenditivi che, manipolando e “traducendo” un contenuto disciplinare in una certa maniera (simbolica, iconica, schematica, grafica, ipertesto, riassunto, ecc.), utilizzando un tipo di intelligenza e di memoria che ci è congeniale (spaziale, matematica, linguistica, ecc., memoria procedurale, episodica, “fotografica”, semantica, ecc.) piuttosto che altri in cui non si riesce molto bene, ottiene il risultato di ottimizzare i risultati dello studio e di facilitare la comprensione e la competenza disciplinare.

La metaconoscenza, la metamemoria e, in genere, tutti i processi di controllo metacognitivi, dall’alto verso il basso (top-down), sulle proprie attività, funzioni, capacità e conoscenze mentali, consentono di migliorare notevolmente le prestazioni scolastiche89 e sono suscettibili di essere appresi e insegnati sia in modo spontaneo sia

88 Cfr. in Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, 2007, pag. 84-88. 89 Sul valore della metaconoscenza e le attività metacognitive in genere per l’ambito educativo cfr. in: F. Santoiani; M. Striano, Immagini e teorie della mente. Prospettive pedagogiche, introduzione e cura di Elisa Frauenfelder, Carocci, 2000; Modelli teorici e metodologici dell'apprendimento, Laterza, 2003.

tramite specifiche attività rivolte a questo fine. Vale la pena ricordare che secondo Vygotskij sono proprio le attività metacognitive mediate dall’uso strumentale e dall’interiorizzazione del segno, soprattutto linguistico, a consentire lo sviluppo delle facoltà superori dell’uomo e un senso del sé (e dell’altro) sempre più articolato e consapevole. Il linguaggio, infatti, oltre a una funzione comunicativa, svolge un’importante funzione cognitiva e metacognitiva, riorganizzando i sistemi funzionali cerebrali e la mente nel suo complesso, e di guida e di controllo dell’azione e del comportamento in un determinato contesto storico-culturale.

Se la metaconoscenza è insegnabile è chiaro che tale compito spetta a coloro che svolgono funzioni educative e che, soprattutto nelle primi anni di scuola, devono fungere, nell’ottica della psicologia culturale di Vygotskij e di Bruner, da impalcatura (scaffolding) e da sostegno per lo sviluppo di certe conoscenze, competenze e abilità mentali nell’allievo, sfruttando al massimo i margini d’intervento offerti dallo sviluppo cognitivo (zona di sviluppo prossimo) e le opportunità che gli “strumenti concettuali e protesici” di origine culturale e sociale consentono di ottenere in termini di “costruzione”, incremento cognitivo e “ristrutturazione” mentale.

L’insegnante, però, deve porsi anche il problema di un insegnamento efficace che miri alla comprensione autentica di ciò che si insegna. In tal senso egli deve rappresentarsi mentalmente le modalità di ragionamento degli allievi, ma anche anticipare e prefigurare, in base alla propria esperienza di insegnamento, quelle che saranno le probabili difficoltà che gli studenti si troveranno ad affrontare sul piano delle conoscenze, delle competenze e delle abilità richieste. In tal senso egli dovrà predisporre i contenuti disciplinari in modo tale da facilitare al massimo l’apprendimento, pur senza banalizzare i contenuti disciplinari.

Come si vedrà nella seconda parte di questo lavoro un’operazione simile è a tutti gli effetti un’impresa di traduzione che si realizza sia mediante l’uso di parafrasi e modalità espositive che si confanno al livello degli allievi, sia attraverso l’uso di molteplici sistemi simbolici e intelligenze, alla maniera intesa da H. Gardner. Qui preme sottolineare che all’origine di questa impresa di traduzione c’è un preciso modo di intendere la cultura, la conoscenza, l’insegnamento-appredimento e la mente. In questa prospettiva l’insegnante e l’allievo, nella loro interazione, sono guidati da una serie di presupposti culturali e motivazionali sulla mente che, a loro volta, sono alla base di

paradigmi, modelli educativi e didattico-espositivi che l’insegnante in modo particolare, tiene costantemente, anche se a volte implicitamente, presenti. L’insegnante, infatti, svolge la sua professione in base ad una, più o meno esplicita, teoria della mente e di una serie di considerazioni psicologiche sulla cognizione degli allievi, che lo guidano nella determinazione preliminare dei programmi, nello svolgimento degli stessi, nel modo di presentare i contenuti disciplinari e nelle valutazioni. Tali attività, in sostanza, si legano alla maniera in cui egli interpreta e si raffigura il funzionamento, le conoscenze, le capacità cognitive, le motivazioni e, fino a un certo punto, le intenzioni e gli interessi degli allievi.

Sul piano pedagogico, a questo punto, si capisce come i paradigmi di Kuhn possano essere associati ai principi della psicologia popolare e alla teoria della mente. Del resto i paradigmi pedagogici non sono altro che dei modi diversi di intendere la conoscenza (il suo valore intrinseco, professionale e socio-culturale), la cultura di appartenenza e i modi più efficaci attraverso cui si trasmettono questi saperi, nonché una riflessione sui fini ultimi di questo processo di formazione attraverso la conoscenza e la cultura. In altre parole i paradigmi pedagogici sottendono anche dei modi precisi di intendere la mente, la cultura, il rapporto educativo e le funzioni dell’educazione sul piano individuale e sociale.

Gli eventi sociali che si presentano alla nostra osservazione o che ci coinvolgono, non hanno senso ai nostri occhi se non filtrati dal complesso apparato di attribuzioni di intenzionalità che costituisce la trama fitta della nostra rete di interazioni e “abilità sociali”. La nozione stessa di cultura è stata spesso definita in relazione ai sistemi di interpretazione degli esseri umani. Bruner, ad esempio, dal punto di vista della psicologia culturale, tende a porre in stretta relazione questa naturale tendenza umana ad attribuire stati intenzionali (e una mente) agli agenti sociali con la cultura di appartenenza. I diversi modi di intendere la mente dal suo punto di vista dipendono in buona parte da presupposti ascrivibili al contesto storico-sociale-culturale di appartenenza e, allo stesso modo, questi presupposti sono all’origine di specifiche modalità educative di insegnamento-apprendimento e/o alla base di teorie pedagogiche, più o meno esplicite che coerentemente si possono definire come “pedagogia del senso comune” (folk pedagogy).