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FORMAZIONE, PROGETTO E “IDEA DI FUTURO” NELL’EPOCA POST-MODERNA

1. Post-modernità e formazione

Le analisi e le osservazioni svolte nel capitolo precedente, sulla base delle ricostruzioni storico-teoriche di F. Cambi, hanno permesso di rilevare i caratteri dei paradigmi della pedagogia moderna e, tra questi, di saggiare la portata euristica, epistemologica e critico-utopica del paradigma metateorico-ermeneutico proposto dallo stesso Cambi. Ora però, pur condividendo in buona parte le idee di Cambi e la sua preferenza per il paradigma metateorico-ermeneutico-critico, occorre prendere in considerazione una serie di domande e di problemi che, minando la sostenibilità del “congegno” interno del discorso pedagogico, rischiano di metterne in discussione le conclusioni e di compromettere la stessa sostenibilità del paradigma metateorico (e in minor misura anche degli altri). Se, infatti, le tre dimensioni della scienza, dell’ideologia e dell’utopia si connettono direttamente ai paradigmi della pedagogia moderna, essendone il “precipitato sincronico”, allora, ci si chiede: cosa accade in questa fase attuale di crisi che si definisce come post-moderna? Il congegno della pedagogia moderna è ancora sostenibile o si avvia al tramonto insieme alla stessa modernità? In questo caso è possibile e sostenibile una metateoria che si fondi su questo congegno o le categorie portanti devono essere sostituite? E da che cosa?

Cambi, già nel lavoro del 1986, si era posto queste domande e aveva concluso che prima di tutto bisognerebbe chiarire cosa è il post-moderno, compito tutt’altro che semplice e univoco. Da un lato, infatti, esso può essere visto come l’esito ultimo del moderno, dall’altro come extra o anti-moderno. Per certi versi, però, questa alternativa è fuorviante perché non rende ragione della complessità semantica del termine. Senza addentrarci nello specifico, cosa che richiederebbe una trattazione a parte, occorre tuttavia qualche precisazione. Prima di tutto il prefisso “post”, come sottolineano i principali esponenti del post-moderno (Lyotard e Vattimo), non indica e non allude tanto a un superamento del moderno. Infatti una delle categorie espressamente criticate dai post-modernisti è proprio quella della storia come progresso, ossia di una successione lineare e necessaria degli eventi verso un fine stabilito di emancipazione o “redenzione” garantita (considerazione sulla quale, per certi versi, concorda anche la concezione anti-storicista di Althusser). In secondo luogo il “post” non allude neanche a una contrapposizione radicale al moderno, perché viene negata la possibilità di una cesura netta con il passato, per cui è possibile riscontrare degli atteggiamenti post-

moderni in alcuni autori o correnti di pensiero tipicamente moderni (ad esempio secondo Lyotard: Machiavelli, Cevantes e Montaigne) e, viceversa, tipicamente moderni nel post-moderno40. Il passato non può mai venire annullato, ma può al massimo essere rinarrato, rivisitato e re-interpretato in maniera plurale e con ottiche diverse, ma nessuna delle versioni e ricostruzioni può valere come vera, necessaria e/o definitiva, perché non esiste una “storia universale” intesa come un punto di vista supremo che ingloba tutti gli altri.

Il post-moderno si definisce negativamente in rapporto ad un concetto ideal tipico di moderno e, quindi, è sempre suscettibile di revisioni, aggiustamenti e integrazioni. Tuttavia sembra possibile individuare degli elementi comuni, ugualmente ideal tipici, su cui in genere concordano coloro che si rifanno a questo termine, pur nell’ambito di una pluralità di posizioni spesso in contrasto tra loro. Il post-moderno corrisponde così a una sorta di congedo dal moderno, a un modo (epocale?) di sentire e di pensare che si è diffuso progressivamente, almeno nella cultura occidentale, e che caratterizza l’uomo contemporaneo (da Nietzsche ai nostri giorni). Il che, come si è detto, non esclude che ci siano idee, teorie, intellettuali, scrittori, atteggiamenti socio-politici, ecc., moderni nel post-moderno e, viceversa, post-moderni nel moderno. Così Giovanni Fornero sintetizza questi concetti chiave:

“Alle idee-madri della modernità [i post-modernisti] contrappongono le seguenti idee

alternative: 1) La sfiducia nei macro-saperi totalizzanti incarnati dai ‘grandi racconti’ e l'abbandono delle legittimazioni ‘forti’ o ‘assolute’ della filosofia, a favore di forme ‘deboli’ (Vattimo) o ‘instabili’ (Lyotard) di razionalità, basate sulla consapevolezza che non si danno ‘fondamenti ultimi’ e immutabili, né del conoscere né dell'agire; 2) II rifiuto di concepire la successione temporale in termini di ‘superamento’ e la tesi della avvenuta ‘dissoluzione della categoria del nuovo’ (Vattimo). Dissoluzione che implica una ‘rottura con l'idea di rottura’ e che coincide con l'esperienza della ‘fine della storia’, ossia con il tramonto della maniera storicistica di pensare la realtà e con l'avvento della cosiddetta post-histoire; 3) La rinuncia a concepire la storia come una totalità significante universale in grado di fungere da fondamento ‘garantito’ della iniziativa storica dell'umanità sulla via dell'emancipazione e del ruolo-guida degli intellettuali in essa. Rinuncia che si accompagna ad una diffidenza programmatica verso ogni terapia salvifica (politica, esistenziale, artistica ecc.) finalizzata al raggiun-

40 Per questi temi confronta in: Lyotard, La condizione post-moderna, Milano, Feltrinelli, 2008; Il

postmoderno spiegato ai bambini, Milano, Feltrinelli, 1987. Rovatti; Vattimo (a cura di), Il pensiero

debole, Milano, Feltrinelli, 2010. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985; Oltre

l’interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 1994. Abbagnano; Fornero, Storia della filosofia, Milano, TEA, “La filosofia contemporanea”, volumi 4, 1996, cap. XXIX, “Post-moderno e filosofia” di G. Fornero, pag. 3-41. Cambi, Abitare il disincanto. Una pedagogia per il postmoderno, UTET, 2010.

gimento di una soggettività ‘trasparente‘ e pienamente ‘riconciliata’ con sè medesima; 4) II passaggio dal paradigma dell'unità al paradigma della molteplicità, ossia la raggiunta consapevolezza della ‘eteromorfia dei giochi linguistici’ (Lyotard) e del fatto che ‘il mondo non è uno, ma molti’ (Vattimo). Consapevolezza che si traduce in un trionfo della plurivocità e della polimorfia e in una difesa programmatica di tutto ciò che contrasta con la tradizionale reductio ad unum. Da ciò una serie di pratiche culturali di ‘rottura’, quali la ‘frammentazione’, la ‘regionalizzazione’, la ‘dissocia- zione’, la ‘decanonizzazione’, l' ‘ibridazione’, la ‘carnevalizzazione’ ecc., volte a far valere, contro ogni forma di omogeneizzazione livellante, i diritti del molteplice, del particolare, del locale, del diverso, del difforme, dell'incommensurabile ecc. A differenza di quanto accadeva nelle cosiddette ‘filosofie della crisi’ della prima metà del Novecento, questa ‘fine dei sistemi unitari’ e questo ‘emergere dell'arcipelago della molteplicità’ non vengono tuttavia prospettati – e in ciò risiede una delle maggiori novità del postmoderno – con un senso di nostalgia o di rimpianto per l'intero perduto, ma vengono salutati come un fatto positivo, ovvero come un segno della raggiunta maturità intellettuale ed esistenziale dell'uomo contemporaneo” [Giovanni Fornero, in Abbagnano; Fornero, Storia della filosofia, vol. 4, La filosofia contemporanea, TEA, 1996, cap. XXIX, Post-moderno e filosofia, pag. 9-10]

Una delle immagini, o meglio, dei simboli utilizzati dai post-modernisti per rappresentare la pluralità, frammentarietà e relatività del mondo contemporaneo è la torre di Babele, emblema della proliferazione dei linguaggi, vocabolari, punti di vista e di un mondo irrimediabilmente diversificato e sconnesso. Questa scelta è significativa in prospettiva della presentazione nella seconda parte di questo lavoro del modello di pedagogia come traduzione perché prefigura la possibilità e la necessità della traduzione, interpretazione e comprensione per rapportarsi all’alterità e riuscire a comunicare “mantenendo aperto il dialogo”.

Tornando alla questione del post-moderno in rapporto alle strutture portanti del discorso pedagogico (ideologia, scienza e utopia), bisogna ammettere che questi (quasi)invarianti eidetico-fenomenologici individuati da Cambi hanno ancora un’importanza fondamentale per il discorso pedagogico e per un tipo di analisi metateorica, non solo per il loro valore euristico e regolativo, ma anche per la loro portata storico-ermeneutica e la capacità esplicativa che predispone al comprendere. Ciò che forse viene ancora di più messo in discussione (relativizzato e contingentato) dal post-moderno, nonostante le puntualizzazioni di Cambi riguardo la storicità, relatività, ermeneuticità e contingenza delle categorie, è, forse, proprio la riaffermazione prepotente e convinta della trascendentalità di questi a-priori categoriali che, seppure su un piano fenomenologico, finiscono per stridere un po’ con le premesse fortemente antifondazionali, decostruttive e nichiliste alla base del post-moderno. In ogni caso i

legami con la modernità sono troppo forti e prossimi per credere di poter fare a meno di queste categorie portanti e strutturali nell’ambito della ricerca metateorica in pedagogia. La loro sostituzione/eliminazione/ridefinizione, del resto, dovrebbe di fatto tradursi nella consapevolezza di trovarsi in una situazione completamente nuova, ma, come si è visto, i post-modernisti non credono che sia possibile congedarsi completamente dal passato. Il moderno, perciò, se pure “digerito”, “congedato” e “esauritosi” in alcune sue manifestazioni principali, fa sentire ancora pesantemente i suoi condizionamenti, in modo particolare nel linguaggio e nel vocabolario (si pensi al problema della metafisica in Heidegger e ai “sentieri interrotti” del pensiero e del linguaggio che non riescono a rappresentare l’essere se non come presenza).

Una situazione completamente nuova perciò è indefinibile, in senso letterale, perché manca un vocabolario adatto a definirla e concettualizzarla, mentre l’ideazione di un nuovo vocabolario capace di ridescrivere i vecchi e i nuovi problemi deve comunque partire da qualcosa di già dato e non può nascere nel vuoto assoluto. Non si può pensare, perciò, di avere già a disposizione, pronto per l’uso, un vocabolario e un apparato concettuale, categoriale e teorico capace di confrontarsi con una situazione totalmente nuova senza che esso abbia un qualche tipo di rapporto e legame, sia pure nell’ambito di una rottura paradigmatica. L’introduzione/costruzione di un simile vocabolario per operare una ridescrizione completa del presente e, quindi, della pedagogia e del suo telos è un’operazione sicuramente non facile, anche se possibile, che comunque non può prescindere, come sarà evidente nelle pagine seguenti, da alcune condizioni; non ultima il legame/confronto con la tradizione da cui si origina l’esigenza di cambiamento. Quindi in ogni caso vale la pena utilizzare queste categorie per avere ben chiaro il “punto di arrivo” della pedagogia, sul piano teorico e su quello storico, che poi varrà come “punto di partenza” per ogni trasformazione, revisione, negazione, ecc. Se invece il post-moderno non è altro che l’esito terminale del moderno e, quindi, una sua manifestazione o sentiero secondario41, la maggior parte dei problemi riguardo l’applicabilità delle categorie in oggetto si risolvono da soli, perché rimane garantita l’applicabilità delle tre dimensioni metateoriche e eidetico-fenomenologiche. Se

41 Secondo Habermas la modernità deve ancora realizzarsi pienamente, quindi è tutt’altro che “superata” o “esaurita”, il “post-moderno”, perciò, si configura come un sentiero “deviato” all’interno della stessa modernità, ossia come una posizione teorico-politica oscurantista e neo-conservatrice che, negando valore all’ideale dell’emancipazione, di fatto si allea con una visione del mondo pre-moderna e antimoderna.

comunque il post-moderno corrisponde alla consapevolezza contemporanea di ciò che Nietzsche annunciava come “la morte di Dio”, ossia la fine delle certezze teologiche, metafisiche, scientifiche, politiche, etiche, ecc., la pedagogia, in questo senso, mostrerebbe addirittura una certa superiorità rispetto ad altri saperi (come sembra riconoscere esplicitamente Rorty) perché si connota già come sapere debole che riconosce la relatività (temporale, locale e culturale), la contingenza, la problematicità e la storicità dei suoi assunti. Tale riconoscimento non preclude la possibilità di utilizzare e continuare a pensare il discorso pedagogico come incentrato, dinamicamente e criticamente, sul congegno strutturale dei tre vettori individuati nel loro rapporto dialettico.

Ciò che forse oggi si può fare è correggere se mai la metateoria nel senso di una maggiore consapevolezza del pluralismo, decentramento, localismo, disancoraggio dai fondamenti, ecc., che caratterizza la teorizzazione pedagogica ed essere anche più aperti a integrare l’analisi teorica includendovi altre categorie guida. Questo rinnovato spirito critico e problematizzante della contemporaneità, ancora più rivolto alla complessità del pensare e del fare educazione, mi sembra assolutamente presente nella riflessione pedagogica attuale, per esempio nelle opere di Cambi, nei lavori di pedagogia critica, negli sviluppi del problematicismo, della fenomenologia, ecc. Ad esempio in “Abitare il

disincanto. Una pedagogia per il post-moderno”, UTET, pubblicato la prima volta nel 2006, Cambi mostra come la categoria principale del moderno e del post-moderno sia, in ultima analisi, la stessa, ossia quella del “disincanto”. Termine che si caratterizza in senso antropologico e che si connette alla progressiva emancipazione da tutte le certezze e i miti metafisici, ontologici, religiosi, etici e politici. Secondo Cambi il disincanto è l’esito ultimo dei processi, strettamente connessi, della laicizzazione e della secolarizzazione che, a loro volta, sono fenomeni tipicamente moderni, pur costituendo il presupposto dello stesso post-moderno.

La secolarizzazione connota il processo moderno della progressiva emancipazione dalla concezione sacrale e religiosa dell’uomo e del mondo tipica del Medioevo. In sostanza con il moderno si assiste a una progressiva delegittimazione, relativizzazione e presa di distanza nei confronti dei retaggi della tradizione, e una messa in discussione della religio quale principio, modello e fondamento dello stare insieme e quale collante di tutta la vita sociale, culturale e individuale. Il moderno fa della sacralità una categoria

del reale ma non l’unica e spesso non la principale, relegandola in una sfera privata, intima, coscienziale che viene separata da quella socio-politica. In una fase successiva la stessa ammissibilità del discorso metafisico-religioso viene criticata e messa in discussione sulla base della razionalità filosofica e/o dell’oggettività scientifica.

La laicizzazione descrive lo stesso fenomeno di emancipazione ponendosi però dal punto di vista dell’innovazione piuttosto che da quello della tradizione. Per cui se la secolarizzazione si configura come “libertà da”, la laicizzazione si caratterizza per essere “libertà di”; il che riprende la distinzione tipicamente kantiana tra libertà negativa e libertà positiva. L’Illuminismo, del resto, secondo la definizione che ne da Kant, è l’epoca del disincanto, ossia coincidente con l’uscita dalla minorità e con l’assunzione della piena responsabilità da parte del soggetto/persona dal punto di vista etico, politico, sociale, comportamentale, ecc., senza nessuna deroga a principi eteronomi d’autorità (religiosi, metafisici, politici, ecc.) che prescindano dalle proprie capacità razionali di scelta e di giudizio. Tutto ciò manifesta un certo grado di continuità tra la modernità e la post-modernità, proprio nel senso che anche il moderno si presenta come epoca del pluralismo, della tolleranza, dell’emancipazione e della progressiva de-sacralizzazione. Tuttavia il post-moderno esaspera questi caratteri comunque presenti nel moderno e si spinge fino a criticare la nozione stessa di soggetto, pilastro del trascendentalismo kantiano, ma anche della riflessione epistemologica successiva, come ha ben evidenziato Rorty; il che elide qualsiasi tipo di certezza metafisica, filosofica e scientifica e la possibilità stessa di rapportarsi ad un genere di verità e conoscenza che non si configuri come relativa, storica e ermeneutica. Il nichilismo in questo senso è l’habitat del post-moderno e l’altra faccia del disincanto, oltre che l’esito di quel processo di laicizzazione e secolarizzazione del moderno.

Questa perdita della certezza e l’impossibilità onto-gnoseologica e epistemologica di un “pensiero forte” che, rivolgendosi all’essenza metafisica del sé, del mondo, della conoscenza, dell’esperienza ecc., è garanzia psicologica del permanere del senso, comporta una destabilizzazione sul piano sociale e su quello individuale che può avere, come già aveva intuito Nietzsche, due esiti opposti: da un lato il nichilismo passivo e rinunciatario che si traduce in un disimpegno relazionale, sociale e politico, ossia nell’incapacità dell’individuo-soggetto-persona di accettare la sfida del senso nella sua forma depotenziata e non-consolante; dall’altro il nichilismo attivo che, viceversa,

coglie nel disincanto un’opportunità di libertà, per cui l’individuo-soggetto-persona, emancipandosi dagli assoluti, può progettarsi liberamente, facendosi autenticamente soggetto intenzionale consapevole delle sue scelte e direttamente impegnato sul piano esistenziale e professionale e su quello socio-politico a costruire se stesso e, contemporaneamente, ad aprire nuovi orizzonti di senso (pur limitato in questa operazione de-costruttiva e ricostruttiva da molti condizionamenti storico-culturali, sociali, economici, familiari, ecc., che lo hanno determinato). Il nichilismo passivo constata l’impossibilità onto-gnoseologica della verità e del senso nella loro forma trascendente o trascendentale assoluta, universale e necessaria, sia nella forma laica sia in quella religiosa, e conclude pessimisticamente che non c’è alcun senso e nessuna verità che possano essere sostenuti e creduti e nessun criterio di scelta.

La “nullificazione del senso” non appartiene tanto all’ambito teoretico ma si configura come stato di crisi esistenziale e sociale che, in qualche modo, costituisce lo stato normale della nostra contemporaneità e che si associa ai processi di laicizzazione e secolarizzazione, di de-sacralizzazione della vita, della comunità e delle sue regole, con il crollo delle gradi narrazioni e il venir meno delle ideologie. Ciò comporta l’acuirsi di un senso di insicurezza che si connette alle trasformazioni economiche neoliberiste del mondo globale, ai fenomeni migratori e al senso di precarietà che il sociologo Zygmunt Bauman (1925) ritiene caratterizzi il “soggetto globale” nelle società post-industriali contemporanee. Bauman, ideatore delle fortune espressioni “società liquida” e “modernità liquida”42, sintetizza questa sua analisi riguardo “la solitudine del cittadino

globale” nei tre ossimori strettamente complementari: sicurezza insicura (insecure

42 Mentre le società moderne erano caratterizzate dalla solidità e stabilità dei principi organizzativi, delle regole sociali, delle unioni sentimentali, del lavoro e della sua organizzazione, ecc., le società post- industriali e tecnologiche attuali si caratterizzano per il loro assetto liquido, dismorfico, in cui si susseguono cambiamenti molto rapidi in tutte le sfere della vita individuale, sociali e lavorativa. I fenomeni della globalizzazione, quelli migratori, lo sviluppo tecnologico, ecc. si traducono nella mancanza di punti fermi, ragionevolmente stabili nel medio/lungo periodo, e nei processi del “melting

pot", del metissage e nella precoce obsolescenza degli strumenti, delle conoscenze e delle competenze professionali. Sul piano dei rapporti interpersonali e relazionali ciò produce un atteggiamento “consumistico”. “È una società che si è modellata sull’usa e getta, sul desiderio di consumo,

sull’impegnarsi finché si ha voglia, senza assumersi responsabilità di qualsiasi genere. Il consumo come metro di ogni nostra azione non è fatto per elevare la lealtà e la dedizione nostra per l’altro. Al contrario, è pensato per passare in continuazione da un desiderio all’altro, per spegnere in fretta quelli vecchi e creare posti per altri nuovi. In più la clausola della società dei consumi "soddisfatti o rimborsati" è diventata metro di ogni rapporto, di ogni relazione. In questo tritacarne è finito anche l’amore. Ecco perché è sempre più difficile "amare per sempre". Dall’intervista a Bauman del giornalista

Pierangelo Giovanetti, apparsa su Avvenire del 2 febbraio 2006, con il titolo “L’amore non è liquido, confronta nel sito: http://www.gliscritti.it/approf/2007/papers/bauman070707.htm

security); certezza incerta (uncertain certainty) e incolumità a rischio (unsafe safety)43. Il primo termine ha una valenza sociale e rimanda alle condizioni del lavoro sempre più flessibile e precario che si traducono in una minaccia costante alla sicurezza individuale e sociale per ciò che concerne il mantenimento del proprio status di vita materiale, professionale e riguardo la validità delle proprie competenze pregresse, della propria formazione, messe costantemente a rischio dai rapidi cambiamenti economico- produttivi globali. Flessibilità in questo senso è instabilità continua e messa in discussione costante delle proprie competenze, delle proprie conquiste professionali, delle conoscenze acquisite e del know how che può tradursi in un senso di precarietà, di ansia e di angoscia verso il futuro che minaccia di mettere in discussione tutto ciò che si è conquistato e realizzato.

Il secondo termine ha un significato più cognitivo non solo perché riguarda il mettere in discussione le conoscenze tecnico-professionali ma anche la nostra capacità di giudizio etico-politica. In sostanza la pluralità dei linguaggi, dei punti di vista e l’incremento dei flussi migratori mettono costantemente in discussione la tavola dei valori e le griglie di valutazione tradizionali propri di una certa comunità e cultura. La relativizzazione dei linguaggi, dei paradigmi di riferimento e dei vocabolari, in mancanza di un principio universale e di una Koinè universale, rende difficile non solo la comunicazione e il dialogo ma anche distinguere tra ciò che ha valore e senso, o è giusto e degno, da ciò che è sbagliato, indegno e privo di senso.

Il terzo ossimoro invece si riferisce all’ansia associata alla minaccia rivolta alla propria incolumità e alla salvaguardia della propria famiglia, dei parenti, degli amici e dei vicini da parte di malviventi e/o “stranieri”. Salvaguardia che comprende non solo le