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Fini-valori e curricolo in una prospettiva ironica, contingente e solidale.

FORMAZIONE, PROGETTO E “IDEA DI FUTURO” NELL’EPOCA POST-MODERNA

4. Fini-valori e curricolo in una prospettiva ironica, contingente e solidale.

Le osservazioni e le conclusioni cui siamo pervenuti nella sezione precedente non hanno solo una valenza cognitiva ma si applicano anche, e soprattutto, al piano etico- politico e valoriale. In questa prospettiva, servendoci delle teorie di Rorty e applicandole al discorso pedagogico, è possibile rispondere alla questione relativa alla scelta dei valori-fini che devono guidare la pedagogia. Tale scelta, ovviamente, si fonderà su certi “criteri di preferibilità razionale” che non si presentano come dogmatici ma, viceversa, in ossequio al principio della “razionalità debole” prospettata dal post- moderno e dall’ermeneutica, hanno i caratteri della contingenza, dell’ironia e propendono per quei valori, volti a diminuire la sofferenza individuale e collettiva, che ben si associano al principio della solidarietà. A tale proposito costituisce un utile riferimento anche l’analisi di Cambi, precedentemente esaminata, riguardo la fenomenologia del valore. Si tratta, lo si ricorderà, di prendere in considerazione in maniera dialettica le due dimensioni temporali, quella del passato che ci determina (sul piano storico, culturale, sociale, biografico, ecc.) e quella del presente che si configura come un atto di rottura/continuità con quel passato, ossia come una scelta/costruzione del (e per) il futuro nel tentativo di raggiungere una piena realizzazione e autonomia attraverso la ridescrizione di sé e una ridefinizione socio-politico-etica. Il modello di riferimento, a ben guardare, è identico a quello del circolo ermeneutico teorizzato da Heidegger e approfondito da Gadamer.

In ultima analisi, però, sono le idee di Rorty che ci permettono di caratterizzare il discorso pedagogico, come pratica e come teoria, nei termini di un progetto esistenziale volto all’emancipazione e al conseguimento dell’autonomia. Autonomia e emancipazione da intendersi non in senso anti sociale come assolutizzazione dell’individuo, recisione dal contesto socio-culturale, ma al contrario come consapevole assunzione di responsabilità delle proprie scelte e dei legami con il passato. In questo senso l’autonomia non è anomia, né anarchia ma scelta, responsabilità, ridefinizione del principio di autorità a diversi livelli (esistenziale, etico-politico, scientifico- paradigmatico). Condividere queste premesse significa in ambito educativo rinunciare previamente a qualsiasi atteggiamento coercitivo e “eteronomo” e, allo stesso tempo, riaffermare con vigore la necessità di una guida educativa e di principi etico-normativi che, lungi dall’essere assoluti, non possono che dipendere da una certa prospettiva storico-culturale contingente. Ciò vale, ovviamente, a condizione che non si attribuisca all’impresa educativa un compito meramente “riproduttivo” dell’esistente, volto al mantenimento dello status quo e alla socializzazione/ inculturazione, o non lo si riduca a una questione tecnico-didattica che ha come unico scopo l’ottimizzazione dell’istruzione e della trasmissione di conoscenze (cognitive e operative), senza formare la persona ad essere tale. È chiaro quindi che la prospettiva di Rorty presuppone che non esistano universali di alcun tipo e si fonda su un concetto di verità di chiara ispirazione deweyana, oltre che connotato in senso ermeneutico. A tale proposito, sottolineando le ricadute etico-politiche della filosofia di Rorty e la sua connotazione pedagogica espressa nei termini di Bildung, ci spiega Aldo Gargani:

“Non si tratta certamente di una banale filosofia della speranza sociale […] bensì di un

discorso che rimpiazza in luogo dell'impresa filosofica cognitiva un compito etico ed estetico di ricostruzione della nostra forma di vita, una nuova versione, di noi stessi che reinterpreta i tratti familiari della nostra esistenza in quelli non familiari, non protetti di nuove invenzioni. Nelle mani di Rorty la filosofia cessa di essere una Erkenntnis per diventare invece una Bildung, un discorso destinato alla formazione di noi stessi, a

strapparci dal vecchio ‘io’ che una volta noi eravamo, in virtù del grande potere di estraneazione indotto da nuovi valori che rompono la crosta dei valori i familiari fondati e ben protetti. Ma tra i valori tradizionali che guidano il discorso dell'epistemologia e quelli nuovi, emergenti, non-normali propri dell'ermeneutica non v'è altra differenza se non quella che corre tra valori familiari e valori non-familiari. Non vi è qualcosa da dire perché è vero di qualcosa; vi è semmai qualcosa da dire se c'è qualcosa che vogliamo edificare, con la consapevolezza che esso non c'è fin tanto che non l'abbiamo costruito. […] Abbandonando il concetto di ragione nei termini della

tradizione platonica e kantiana, strettamente connesso alla nozione di verità come corrispondenza […] Rorty introduce modelli di scoperta e di riconoscimento che non dipendono da criteri formali, da dispositivi teorici intrinsecamente specificati, bensì dagli atteggiamenti di una cultura e di una forma di vita che i membri di una comunità sociale condividono e in cui si riconoscono”. [Aldo Gargani, Prefazione, in: R. Rorty,

La filosofia dopo la filosofia, Laterza, 2008, pag. XVII-XVIII]

In questa prospettiva è significativo che Rorty si chieda fino a che punto un atteggiamento ironico possa costituire il fondamento di una cultura e dell’educazione. Una società “ironica”, infatti, proprio in virtù dei suoi principi “deboli” e del suo “relativismo”, sembra non poter garantire una stabilità sufficiente sul piano politico e non essere in grado di mantenere e sostenere un solido legame tra i membri della comunità. Effettivamente una società e un tipo di educazione fondata sulla trasmissione di “certezze” sembrano garanzia di un forte legame sociale e di un minor pericolo di dissoluzione e dispersione. Come nel caso dei paradigmi scientifici, analizzato in precedenza, la non messa in discussione dei parametri interpretativi e del sistema di regole aumenta “l’efficacia”. Non essere costretti a “negoziare” o a giustificare di continuo il vocabolario esistente, i valori metafisico-religiosi o etico-politici condivisi da una comunità, un certo paradigma scientifico, un modo di intendere e fare arte, letteratura, musica, educazione, ecc., consente di risparmiare una quantità notevole di energie e di tempo che può essere impiegata in modo molto più fruttuoso nell’ambito del sistema di regole vigente. Scrive infatti Rorty:

“Ma anche se fosse vero, come penso, che una cultura liberale caratterizzata da una retorica pubblica nominalista e storicista è sia possibile sia auspicabile, non posso spingermi fino ad affermare che ci potrebbe o dovrebbe essere una cultura con una retorica pubblica ironica. Non riesco a immaginare una cultura che educhi la sua gioventù in modo tale da farle continuamente dubitare dell'educazione che sta ricevendo. L'ironia sembra essere qualcosa di intrinsecamente privato. L'ironico, per come l'ho definito, non può fare a meno di mettere in contrasto il vocabolario decisivo che ha ereditato e quello che cerca di creare per sé. Se non il risentimento, per lo meno la reattività è insita nell'ironia”.[R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, 2008, pag. 107]

Tuttavia una società e un tipo di educazione fondata su questi universali non è immune dal dissenso, anzi il dissenso può scatenarsi in maniera più violenta proprio perché non gli si consente di esprimersi. Il gioco dialettico delle opinioni, la ricerca di giustificazioni razionali (empirico-scientifiche, estetiche, storico-ermenutiche e culturali) per la sostenibilità di un particolare valore, un modo di fare e di intendere

l’educazione, di una teoria scientifica o di una espressione artistica, le quali si presentano come altamente originali e innovative, implicano sempre la necessità della ri-descrizione, ossia della costruzione di un nuovo sistema di regole (paradigma) e di un nuovo vocabolario attraverso la creazione di metafore originali. Solo su queste nuove basi si può dare una giustificazione, ma a rigore tale giustificazione non si presenta né come definitiva, né come assoluta ma, ancora una volta, “contingente”, relativa solo a certi canoni e non ad altri. In sostanza, perciò, non si mette in dubbio l’autorità in quanto tale, perché il nuovo paradigma (vocabolario, sistema di regole, ecc.) diventa la fonte inedita dell’autorità, parametro di giudizio e origine della giustificazione razionale. Piuttosto l’autorità non viene assunta in senso metafisico come qualcosa di assolutamente vero, universale e indubitabile, ma presenta i caratteri della storicità e della contingenza; tuttavia ciò non ne elide assolutamente il valore, la sostenibilità, la portata e la fecondità.

Il dissenso, l’immaginazione, la capacità creativa sono valori in sé solo quando si distinguono nettamente dall’anomia, dall’anarchia, dalla pretesa di poter dire e fare tutto senza renderne conto. Dalla mancanza di regole, infatti, scaturisce non l’autonomia o l’autorità ma l’autoritarismo e l’eteronomia. Ciò che si mette in dubbio è la pretesa che esistano sistemi di regole assoluti, linguaggi universali e vocabolari invarianti che non risentono della contingenza storica, sociale e culturale.

Ritenere che i valori etico-politici e i principi fondamentali della nostra cultura occidentale e liberale (democrazia, libertà, pluralismo, rispetto della dignità umana, uguaglianza, ecc.) siano contingenti, ossia dovuti a una serie di avvenimenti storici che ci hanno preceduti e che potevano anche non verificarsi, non intacca minimamente la loro portata, il loro valore intrinseco, la loro sostenibilità e attrattiva. Il fatto che non esista qualcosa come il Bene, il Vero, il Bello, la Ragione, ecc., non implica che non si possa credere fermamente in questi valori, gli stessi valori antropologici e irenico- utopici indicati da Cambi come guida normativa della pedagogia, e che non si possa, ed anzi si debba “insegnare il presente, il passato e il possibile”64 sulla base di ciò che la nostra cultura ai suoi massimi livelli ha indicato come bene, vero e bello.

Il fatto che non ci siano, e non possano esserci, garanzie assolute di tipo metafisico non implica affatto il rinunciare a queste credenze e valori, né la loro costante messa in

64 L’espressione è tratta dal titolo del capitolo 4 del libro di J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi

discussione o il loro depotenziamento normativo. Le credenze (morali, scientifiche, artistiche, pedagogiche, ecc.) hanno una “genealogia” e sono l’esito di certe “prospettive” fin “troppo umane”, come voleva Nietzsche e si connettono ad un preciso quadro teorico e paradigmatico “costruito” e/o condiviso socialmente, come sostengono a diversi livelli da Ludwing Wittgenstein, Nelson Goodman e Donald Davidson, e esprimono la forza dei “pregiudizi” storico-culturali, linguistici, sociali e cognitivo- intellettuali che derivano dalla “tradizione”, come ritengono M. Heidegger e H. Gadamer. Tuttavia questa consapevolezza, se da un lato relativizza nel tempo e nello spazio il valore, le conoscenze scientifiche, artistiche, ecc., dall’altro non ne elide l’autorevolezza, né la normatività, anzi, rende ancora più preziose le conquiste etico- politiche e conoscitive, esito della nostra storicità, perché, in senso proprio, noi siamo quei valori, lingua, cultura e conoscenze che ci hanno forgiato e a cui siamo stati educati e, quindi, pur nella ricerca di noi stessi e della nostra autonomia, da quella base dobbiamo partire per ri-definirci, rinarrarci e inventare nuovi vocabolari.

Avere consapevolezza della relatività di ogni valore morale e conoscenza comporta anche il rendersi conto della loro “fragilità”. Ecco perché la difesa delle proprie scelte, dei valori e delle credenze proprie e di quelle condivise dalla comunità di appartenenza (storica, culturale, professionale, ecc.) non è in contraddizione con il rispetto delle altrui vedute e con la ricerca di nuovi vocabolari e metafore, né con la riaffermazione del principio di autorità che discende dall’assunzione di un certo paradigma culturale. Possiamo continuare a credere e, di conseguenza, a educare i nostri figli e allievi a credere e a rispettare i valori fondamentali della nostra cultura, a istruirli in tutto ciò che riteniamo importante nell’ambito della conoscenza scientifica, filosofica, artistica, letteraria all’interno di precise cornici paradigmatiche e, infine, a formarli per renderli in grado di realizzarsi in maniera autonoma seguendo i loro progetti, inclinazioni, convinzioni. L’unica differenza è che i nostri “discorsi non devono essere legittimati

rispetto a principi e/o fondamenti già predisposti, ma in relazione a ciò che riteniamo migliore, più utile, più bello da fare e da pensare nell'ambito di una comunità sociale di valori condivisi e partecipati" [Gargani, op. cit. pag. XV].

Si dirà allora che rifiutare "la nevrotica ansia cartesiana di certezze" ci libera dalla pretesa di trovare e pretendere delle motivazioni metafisiche, assolute, trascendentali per giustificare i nostri principi sociali, morali, politici, educativi, ecc. ma non ci esime

dal cercare delle motivazioni in quanto tali. Coloro che ritengono che esista una “natura umana” universale, essenziale, profonda, comune a tutti gli uomini e principi assoluti e un vocabolario universale che li esprima e rappresenti, cha abbiano valenza prescrittiva e normativa, non suscettibile di cambiamenti, cui tutti devono uniformarsi e riconoscerne l’autorità (Dio, la Ragione, la Storia, la Scienza, lo Spirito, lo Stato, il Maestro, ecc.), vogliono che tutti si sottomettano e riconoscano di essere in relazione con un “unico potere superiore” e un unico vocabolario. Riconoscere questo “potere” equivale ad avere delle ragioni forti e universali che possono e devono essere accettate da tutti e in cui tutti devono essere “educati”. Si tratta in buona sostanza dell’atteggiamento platonico presente nel paradigma metafisico-retorico, ma in parte presente anche nelle altre prospettive paradigmatiche. L’atteggiamento ironico-liberale, invece, nega che esista qualcosa come l’essenza umana e valori universali che prescindano dalla storicità e dal contesto, e nega che ci sia un unico vocabolario possibile in grado di rappresentare e rispecchiare questa essenza. Tuttavia i canoni di preferibilità ci sono e si connettono da un lato alla tradizione dalla quale discendiamo, dalla possibilità di scegliere, in base all’esperienza pragmatica, ciò che è meglio per noi e per i nostri figli e allievi, un po’ come proponeva Dewey e Laporta, e dall’altro dalla capacità di proporre alternative attraenti, razionalmente, emotivamente capaci di evitare la sofferenza.

La sofferenza e l’umiliazione sono i pericoli etico-politici, esistenziali ma anche pedagogici e formativi, che l’ironico-liberale vuole eliminare. Il dolore e l’umiliazione (modo prettamente umano di soffrire a causa dei propri simili), infatti, sono immediatamente riconoscibili perché si connettono alla nostra esperienza diretta e alla nostra capacità di immedesimazione e di empatia. Prima ancora di essere razionalmente compresa, la sofferenza è esperita, vissuta e riconosciuta come qualcosa di negativo. Cercare di evitare la sofferenza a sé e ai propri cari e alla propria comunità diviene l’impegno dell’ironico-liberale.

La solidarietà nasce da questa esigenza morale che tuttavia non costituisce l’essenza dell’uomo, ma in buona parte è il frutto della contingenza storica non meno che la capacità di risolvere equazioni differenziali, perché si lega alla letteralizzazione di alcune metafore, ossia alla capacità di uscire fuori dalla nostra individualità solipsistica per gettare un ponte (ricordo che simbolo deriva dal greco syn-ballo, che significa

“metto insieme, unisco, conchiudo”) tra noi e gli altri, capace di farci immedesimare nei loro stati d’animo per rappresentarcelo non come un altro ma come un analogo di sé stessi.

“Ma queste parole comuni — come ‘bontà’, ‘decoro’ o ‘dignità’ — non formano un vocabolario a disposizione di tutti gli esseri umani che riflettono sulla propria natura. L'unica cosa a cui può portare questa riflessione è una maggiore consapevolezza dell'esistenza del dolore, ma non a una ragione per cui doversene preoccupare. Per l'ironico liberale l'importante non è scoprire una simile ragione ma essere certo all'occorrenza di accorgersi del dolore altrui. Egli spera di non venir limitato dal proprio vocabolario decisivo quando si trova nella situazione di poter umiliare qualcuno che ne ha uno molto diverso. L'ironico liberale attribuisce alla capacità di immedesimarsi la funzione che il metafisico liberale vorrebbe fosse svolta da una motivazione prettamente morale (la razionalità, l'amore per Dio o l'amore della verità). L'ironico non pensa, che la sua capacità di immaginare e il suo desiderio di evitare la reale o possibile umiliazione altrui – indipendentemente dalle differenze di sesso, razza, tribù e vocabolario decisivo – costituiscano il suo lato più vero, più fondamentale o più ‘essenzialmente umano’. Al contrario, pensa che questa capacità e questo desiderio siano, come la capacità di fare equazioni differenziali, un prodotto abbastanza tardo della storia umana e un fenomeno ancora piuttosto localizzato.” [R. Rorty, La filosofia

dopo la filosofia, Laterza, 2008, pag. 113]

Ciò che si può fare è cercare di allargare progressivamente la sfera e l’ambito di applicabilità di questi principi etici di solidarietà, ossia essere capaci di ridescrivere noi stessi e gli altri includendoli in un generale “noi”, usando un nuovo vocabolario e rivisitando la storia che ci separa e unisce, per cui l’altro non sarà più un estraneo e uno straniero, ma percepiremo la sua sofferenza, esigenze, bisogni come se fossero i nostri. La capacità immaginativa, l’affinarsi della nostra sensibilità, l’introduzione di nuovi vocabolari che incrementano le nostre capacità di immedesimazione e i nostri orizzonti di senso, però, sembrano connessi più a una modalità narrativa che teoretica, almeno dal punto di vista etico. Romanzi, film, rapporti etnografici, poesia, ecc., e la pedagogia intesa non tanto come teoresi ma come pratica sociale, esperienza diretta e concreta attuazione di quei principi che la teoresi ha riconosciuto come validi, permettono molto di più di entrare nei panni dell’altro, di immedesimarsi e quindi sono, da un certo punto di vista, alla base del progresso e del legame sociale, della nostra capacità di ridescriverci, della nostra formazione, ma anche un criterio di giustificazione e di preferenza.

La pedagogia ha già da tempo sottolineato l’importanza della biografia e dell’autobiografia come metodo formativo, soprattutto per quanto riguarda gli adulti, e

nell’ambito della ricerca sociale le “storie di vita”, le autobiografie, i racconti e, in genere, tutto ciò che va sotto il nome di “ricerca qualitativa” e ideografica utilizza in maniera massiccia questi documenti come materiale e fonte di riflessione e di indagine. Raccontarsi si configura in qualche modo come una ricerca ermeneutica su ciò che siamo stati, siamo ora e vogliamo essere; ci coinvolge nella ricerca delle esperienze importanti della nostra vita e di quelle persone, parenti, amici, persone amate, insegnanti, ma anche “nemici”, concorrenti sul lavoro, ecc., che ci hanno “formato”, che rimangono indelebili nel nostro ricordo perché nel bene o nel male ci hanno insegnato qualcosa, hanno concorso con la loro compagnia, consigli, guida, pazienza a farci essere quello che siamo65.

Raccontarsi, in questo senso, è la possibilità di riappropriarsi del proprio passato in vista del futuro sulla base del presente. Tuttavia non rimaniamo legati ad una sola ricostruzione, possiamo rinarrarci, nel senso inteso da Rorty, in modi diversi, per scopi diversi, fornendo interpretazioni che, pur contenendo gli stessi “fatti”, eventi, protagonisti, sono un modo nuovo di rappresentare e vedere se stessi. Non c’è un modo “ultimo”, definitivo in cui la nostra vita può essere raccontata e questo, in un certo senso (a patto ovviamente che non ci sia un intento distorcente e non si vogliano tradire o falsare gli accadimenti ma raccontare con la massima onestà gli eventi), è una grande capacità di riaffermare la propria autonomia sul passato e su ciò che ci ha condizionato, nel bene e nel male.

“Amor fati” diceva Nietzsche, che significa poter offrire della nostra vita molteplici interpretazioni e comprendere che la nostra identità personale dipende da quali parametri, regole, metafore e vocabolari usiamo per descriverla.

Rorty sembra agganciare questa possibilità ermeneutica di ridescrizione di sé, che ha un carattere “privato”, ad un livello più alto, culturale, politico e storico, ossia “pubblico”. I romanzieri attraverso la descrizione accurata di stati d’animo, speranze,

65 Cfr. in: F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, 2008; L’autobiografia: uno

strumento di formazione, M@gm@, 2003 http://www.analisiqualitativa.com/magma/0303/articolo_04.htm; Duccio Demetrio, Raccontarsi. Autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, 2007; Narrare per dire

la verità: l’autobiografia come risorsa pedagogica, rivista on-line M@gm@ n. 3, 2005.

http://www.analisiqualitativa.com/magma/0303/articolo_05.htm. Andrea Smorti, (2007), Come le narrazioni

trasformano il pensiero, Le Storie siamo noi '07, estratto del contributo presentato a Le storie siamo noi 2007 - Convegno nazionale sull'orientamento Narrativo; rivista on-line Pratika, 2007.

http://www.pratika.net/portal/index.php/risorse-e-strumenti-a disposizione/orientamento/126-come-le-narrazioni-trasformano-il- pensiero; Maura Striano, (2003), La narrazione come dispositivo conoscitivo ed ermeneutico, rivista on- line M@gm@, 2003, http://www.analisiqualitativa.com/magma/0303/articolo_01.htm.

credenze e la narrazione di vicende e eventi che travolgono i protagonisti, ci permettono di acquisire una nuova consapevolezza dell’altro. In questo senso è possibile l’immedesimazione e il superamento della distanza tra “loro” e “noi”, il formarsi di un forte legame sociale e del sentimento di solidarietà. Osserva acutamente Rorty: