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FORMAZIONE, PROGETTO E “IDEA DI FUTURO” NELL’EPOCA POST-MODERNA

2. Dal “congegno” al “progetto”.

In considerazione di tutte le riflessioni svolte nel punto precedente è significativo, a mio avviso, che Cambi, riprendendo recentemente la questione della metateoria pedagogica di tipo ermeneutico-critico, in “Metateoria pedagogica. Struttura, funzioni,

modelli” Clueb, 2006, non si soffermi quasi mai sull’analisi dei tre vettori eidetico- fenomenologici, citandoli una sola volta a pag. 129, mentre nel testo dell’86 il riferimento esplicito o implicito al loro gioco dialettico era costante e ridondante, presente in quasi tutto il testo. Probabilmente ciò si spiega da un lato con l’esigenza di approfondire il discorso trovando altre categorie portanti e centrali del discorso pedagogico, come quelle di formazione, intenzionalità, soggetto-individuo-persona e cura, dall’altro con la ricerca di altri modi di decifrare il discorso pedagogico, connotati in senso ancora più critico-ermeneutico e complesso. Tuttavia credo che il motivo principale di questo slittamento al margine della riflessione teorica riguardo i vettori eidetico-fenomenologici da parte del suo stesso ideatore, proprio nel momento in cui riprendeva esplicitamente la tematica metateorica, si spiega con il sospetto e il disincanto, tipico della contemporaneità, che varie correnti filosofiche attuali (ermeneutica, post-moderna, post-analitica, post-strutturalista e decostruttivista) hanno

progressivamente tematizzato e precisato. In questa prospettiva qualsiasi genere di categoria e struttura a-priori di tipo trascendentale, anche se connotata in senso fenomenologico-ermeneutico e pur dichiarandone preliminarmente la contingenza storica, rischia di essere letta come una pretesa nostalgica di pervenire a un tipo di conoscenza “fondata”; ossia come tentativo di riproporre, seppure in forma emendata, un tipo di “pensiero forte” di cui sempre più, al contrario, si riconosce, se non l’impossibilità, quanto meno la problematicità.

Tuttavia ciò non si traduce necessariamente in un cambio di direzione e, almeno per Cambi, in un abbandono della metateoria e del suo congegno ma, piuttosto, in una sua generalizzazione. In ultima analisi, infatti, le tre categorie si connettono alla temporalità dell’esistente e in modo particolare al futuro. Il futuro inteso come possibilità, apertura e, soprattutto, progetto. Questa categoria della progettualità è intrinsecamente pedagogica perché esprime bene l’essenza di qualunque paradigma/modello/teoria pedagogica e/o azione educativa che, essendo rivolta al cambiamento – e questo anche nel caso in cui ciò che interessa è essenzialmente istruire, socializzare e conformare – assume la forma di un “processo verso”, articolato e complesso, che si rivolge sempre a obiettivi (didattici, cognitivi, disciplinari, professionali) e fini (etico-politici, esistenziali, “utopici”), ossia “al non ancora” che “potrebbe essere” e ai modi attraverso cui ciò che si è progettato può realizzarsi.

La progettualità diviene, insieme alle categorie antropologico-esistenziali cui essa si associa, ossia l’”intenzionalità”, il “soggetto-persona-individuo”, la “cura” (e la “cura di sé”) e la “formazione”, la condicio sine qua non della stessa pratica educativa e/o teoresi pedagogica cui, in ultima analisi, sono riconducibili le stesse strutture invarianti individuate precedentemente perché da queste in qualche modo derivano. Vale la pena sottolineare che queste categorie si giustificano non tanto sul piano squisitamente teorico ma si connettono ad una serie di considerazioni e riflessioni che caratterizzano e connotano l’anthropos sul piano esistentivo e esistenziale. Già Heidegger, del resto, aveva definito l’uomo come un “progetto gettato” che si caratterizza per il suo essere- nel-mondo che ha la forma del “prendersi cura”, ovvero della trascendenza e del progetto (non bisogna dimenticare poi il legame/derivazione dell’esistenzialismo heideggeriano con la fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) e la sua categoria portante, l’intenzionalità). Tutto ciò sul piano educativo e pedagogico significa che

l’intenzione educativa ha la forma del prendersi cura dell’altro per accompagnarlo nella sua formazione, ossia nel progetto che noi abbiamo predisposto per lui e che lui stesso, a un certo punto, può e sarà chiamato a scegliere per se stesso, cercando vie autonome per le proprie realizzazioni idiosincratiche in un determinato contesto storico-culturale, rendendosi autenticamente persona e protagonista attivo, intenzionale e (si spera) criticamente consapevole nel e del suo progettarsi. “La cura come l’essere dell’esserci” definisce anche la pedagogia come progetto teorico che cerca una realizzazione pratica e una attualizzazione dei suoi modelli e dei suoi fini-valori normativi, tramite la formazione, intenzionale e esplicita, e dell’individuo-soggetto-persona (nei diversi aspetti cognitivi, emotivi, professionali, etico-politici), che, nella sua concezione più alta, mira all’emancipazione (nel senso di decondizionarsi e di progettarsi liberamente facendosi artefice consapevole delle sue scelte e potenziando le sue abilità/possibilità) e all’autonomia.

La pedagogia non è solo rivolta alla formazione del singolo ma si configura anche come intenzione formativa e quindi ancora come progetto di una comunità e di un gruppo (la classe, la scuola, il quartiere, il comune, ecc.) e di un’intera società/cultura, e ciò a vari livelli (sul piano socio-politico, economico-produttivo, culturale, ecc.). Direttamente connessa a queste categorie intrinsecamente pedagogiche della progettualità e dell’intenzionalità (e quindi centrali anche per la riflessione pedagogica e metateorica) e al riconoscimento della formazione e della cura educativa, quali focus del discorso pedagogico, si ritrova e si inserisce stabilmente la categoria dell’utopia. L’utopia va intesa non tanto come genere letterario specifico, né come descrizione di una società ideale, né tanto meno come fuga fantastica, ma come progetto (esistenziale, educativo, sociale, culturale, ecc.), ossia come pungolo critico dell’esistente e come possibilità-libertà progettuale e intenzionale, cura e impegno trasformativo/costruttivo che si rivolge a una dimensione ulteriore (cognitiva, temporale, immaginativa ma non fantastica, ecc.). Chiaramente, poi, l’idea di utopia rimanda, come si è argomentato nelle pagine precedenti, alle altre due categorie che, a loro volta, hanno senso solo in questa prospettiva temporale che guarda al futuro nell’ottica del progetto.

Nel volume del 2006 Cambi si sofferma ampiamente a delineare i caratteri dell’utopia, a esplicitarne i nessi con la pedagogia e con le pratiche educative e a definirla nella sua generalità quale progetto. In effetti è l’unica tra le tre categorie

precedentemente individuate che non viene “dimenticata” e messa al margine della riflessione metateorica; questo perché si lega direttamente con il futuro, l’ulteriore, l’intenzione, la cura, la formazione, ossia con il concetto di progetto che ricomprende in sé tutte e tre le categorie precedenti. Da ciò anche l’opposizione a tutte quelle pedagogie di stampo funzionalistico che riducono la portata del progetto e dell’utopia e si tramutano in amministrazione, istruzione, didattica, tecnica/tecnologia. L’educazione e la formazione se si riducono alla trasmissione di conoscenze (ossia all’istruzione e all’amministrazione/diffusione di saperi, discipline e competenze tecnico-pratiche o conformazione/inculturazione/socializzazione al gruppo) depotenziano il ruolo della pedagogia nel suo impegno di emancipazione. Il rischio è quello di fare dell’educazione lo strumento dell’imbrigliamento delle coscienze e della riproduzione ideologica (Althusser). La formazione invece, soprattutto in questo frangente storico, lo si è visto, è al suo più alto grado autonomia, libertà di progettarsi e responsabilità per le scelte fatte. Il che comporta lo sviluppo di capacità critiche e meta-cognitive, ma tutto ciò significa semplicemente che l’educazione è fondamentalmente progetto e progetto di emancipazione nel senso dell’utopia. Infatti, ci suggerisce Cambi:

“Cos’è il senso di un sapere? Ce lo ha detto Habermas in ‘Conoscenza e interesse’: è l’interesse che fonda quel sapere (o la classe di saperi a cui appartiene), è l’ a-priori di senso che lo anima e lo orienta. Per la pedagogia … è, per Habermas, l’emancipazione: è un conoscere per liberare, per far uscire il mondo umano dai condizionamenti della natura-tradizione (della tradizione-come-natura), per condurlo verso la realizzazione – attraverso la conoscenza – dei suoi bisogni e delle sue attese. Ciò è centralissimo in pedagogia, dove l’emancipazione è – per un verso – liberazione, per un altro è formazione, per un terzo è utopia. Liberazione da..., autonomia, processo di libertà. […]Utopia come speranza, come modello-di-redenzione della realtà, come volontà di salvezza accolta in senso ora religioso ora laico, ma tesa a giudicare profeticamente il mondo e a postularne l’integrazione. [Cambi, Navigando tra le

(attuali) filosofie dell’educazione. Prospettive metateoriche e decantazione della struttura, del senso, della funzione della pedagogia, 2008, scaricabile dal sito: http://wwwdata.unibg.it/dati/bacheca/682/26804.pdf]

È soprattutto il concetto di utopia, infatti, che viene messo da parte e in crisi dalle concezioni funzionaliste e sistemico-strutturaliste della società, che propendono per una

anteriorità/superiorità della struttura sull’individuo-soggetto-persona e che

concepiscono l’educazione come una questione amministrativa. L’utopia, come si è detto, tra le tre categorie invarianti è quella che più di tutte si connette alla dimensione progettuale, perché tesa al raggiungimento di un fine che appare desiderabile e che

impone un senso (come intenzione rivolta a) agli eventi che si succedono proprio in quanto fasi e tappe del progetto stesso e in vista del suo compimento e termine; questa dimensione di trascendenza e di intenzionalità si rivolge all’ulteriorità (esistenziale, etico-politica, valoriale, culturale, ecc.) che può attualizzarsi e funge da pungolo critico dell’esistente. Tant’è che, ancora secondo Cambi, in questo inizio di XXI secolo la teorizzazione pedagogica sembra fare riferimento a due modelli pedagogici principali, tra loro fortemente e dialetticamente contrapposti, quello funzionalista, appunto, e quello critico46. L’uno interessato all’amministrazione dell’esistente, l’altro rivolto alla trasformazione dell’esistente sulla base di considerazioni storico-culturali, ermeneutiche, razionali e critiche che si fondano sulla consapevolezza della contingenza, ossia, per dirla alla Kierkegaard (1813-1855), nella presa di coscienza che la categoria principe non è la necessità e la totalità, ma la libertà/possibilità dell’esistente e del singolo – superiore al genere, pur con tutti i suoi condizionamenti e limitazioni – per cui “nella possibilità tutto è ugualmente possibile”47. Perciò sia l’esito fallimentare delle scelte/progetto sia l’esito positivo e la realizzazione sono “possibili” e soggette alla contingenza degli eventi, e se ciò può da un lato far cadere in uno stato di angoscia paralizzante, di rinuncia, di disimpegno, di “crisi” e disorientamento48, dall’altro non preclude, non sancisce nessuna condanna preventiva a qualsivoglia destino ed apre il futuro al progetto e all’impegno per realizzarlo.

Veniamo ora a considerare l’origine stessa dell’idea di cambiamento e della preferenza accordata al futuro quale dimensione connessa con i concetti di storia, redenzione, progresso, senso, utopia, scienza, rivoluzione, ossia, in una parola, con l’idea di progetto nella sua valenza più ampia e generale. Il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti (1942) in Psiche e Techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, 2008, ricostruisce il concetto di “Storia” e quello connesso di “tempo” facendo ricorso alla nozione di “senso della Storia”, ossia alla possibilità di attribuire significato al fluire del tempo e al susseguirsi degli eventi mediante una ricostruzione narratologica che fa riferimento ad un fine ultimo da raggiungere/realizzare, che spesso coincide con la fine della storia. Il termine greco che indica questo concetto è quello di

46 Cfr. in: F. Cambi, La pedagogia del Novecento, Laterza, 2008, pag. 183-186.

47 Cfr. in: Soren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, a cura di Bruno Segre, BIT, 1995, pag. 114. 48 Cfr. in: Soren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, a cura di Bruno Segre, Milano, BIT, 1995;

eschaton (eschatos = ultimo, fine; to eschaton = ”il punto estremo, il culmine”. Da cui escatologia: studio sulle cose ultime e sulla fine/il fine della storia, dell’umanità, l’esistenza) che secondo Galimberti la tradizione cristiana tenderà a identificare con la fine del tempo nell’ultimo giorno del giudizio universale, mentre quella ebraica con l’avvento del Messia. Gli eventi e il tempo in questa prospettiva sono unici e irripetibili e si rendono interpretabili e comprensibili solo sulla base del loro legame causale e finalistico con l’esito/fine/termine della storia. Solo in questa prospettiva il fluire del tempo si fa autenticamente “Storia”, ossia itinerario di realizzazione, che si sviluppa linearmente come un processo direzionato che conduce e si rivolge a un fine e/o a un esito finale; tale esito è finalisticamente atteso (eschaton) ed è capace di dare senso al fluire, altrimenti insipiente ed insignificante, degli eventi.

Secondo Galimberti tale concezione del tempo e della Storia, che si distingue profondamente da quella greca antica, di tipo ciclico e fondata sui ritmi naturali delle stagioni49, si connette direttamente al paradigma religioso giudaico-cristiano che assume il futuro come la dimensione temporale principale, mentre i greci si erano concentrati sul passato e sul presente.

“La storia così inaugurata, capovolge il significato del termine historein, che i greci

riferivano al presente e al passato concepito come origine permanente dell’accadere, mentre la concezione giudaico-cristiana lo riferisce al futuro pensato come assoluta

49 Secondo Galimberti, che riprende alcuni temi trattati già da Emanuele Severino e Martin Heidegger, il tempo per gli antichi greci non ha una direzione lineare ma ciclica (kyklos); in questa prospettiva ogni evento è destinato a ripetersi. La natura, infatti, intesa come legge e destino che non può essere travalicata, deve seguire il suo iter necessario di generazione e corruzione, nascita e morte, e si configura come ordine immutabile. In questa prospettiva (pur essendoci per il singolo – individuo, società – un destino irreversibile che non ritorna e, sia pure, in modo locale e parziale, un relativo “progresso”, nel senso di un miglioramento in alcuni ambiti rispetto al periodo precedente), il tempo e la natura impongono la loro necessità e il loro ritmo ciclico all’umanità, intesa come genere. Passato e futuro sono riassorbiti in un eterno presente che appartiene alla natura e non alla Storia. Non c’è nulla da attendere se non ciò che deve ritornare. La possibilità per l’uomo è solo quella di ricordare e preservare memoria del passato (degli eroi e delle loro gesta per non farli cadere nell’oblio), essere consapevole della propria genealogia, della propria fonte e origine; l’intento, perciò, non è quello di definire cronologicamente e linearmente l’antecedente e/o una qualche direzione futura. Tale indagine permette di scoprire il logos della natura, ossia la sua invarianza ritmica e ciclica che non può essere oltrepassata nella sua necessità, per cui ogni atto di questo tipo è un atto di tracotanza (hybris), l'unico vero peccato (colpa) riconosciuto dalla saggezza greca. Nella Grecia antica, dice Galimberti, era impensabile che l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo o sulla natura imponendo su di essi i propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso; in esso divengono fondamentali la memoria dei cicli passati, la parola dei vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria e dell'esperienza passata. Le istituzioni umane si fondano sulla natura e si conformano al modello e ai limiti naturali (la socialità, la politica, la polis, lo stesso agire tecnico, ecc.). Cfr. in: U. Galimberti, Psiche

novità: i novissima. Si tratta di un futuro che non si attua come ritenevano i greci, secondo un identico logos, e quindi in conformità al divenire passato e presente, perché, per la concezione giudaico-cristiana, il passato non è semplicemente l’antecedente di ciò che deve ritornare, ma è promessa di un futuro qualitativamente diverso”. [U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, 2008, pag.508]

Inoltre sia per l’ebraismo sia per il cristianesimo la storia è progresso lineare verso un fine ultimo, occultato e nascosto, che solo Dio, creatore dell’universo dal nulla (ex-

nihilo), nella sua onniscienza conosce. Tale fine ultimo è inteso:

“come tempo della fine, l’eschaton (che nella direzione dello spazio significa ‘lontano’ e nella direzione del tempo significa ‘ultimo’) è apocalisse. Apo-kalypto significa ‘disoccultare’, ‘svelare dal celato’. […] L’apocalisse svela il senso rimasto occulto nel

divenire del tempo e, svelandolo, fa nascere la storia come tempo dotato di senso”. [Ibidem, pag. 508].

Ciò significa che nella mentalità occidentale, che si fonda sulla tradizione religiosa giudaica e cristiana, il tempo e la storia sono intesi come “progresso verso”, successione lineare causale e finalistica di eventi, irripetibili e unici, che hanno una direzione di sviluppo ben precisa, perché si rivolgono ad un fine supremo di realizzazione che ne stabilisce anche la fine (eschaton) e il senso. Il tempo diviene allora attesa per il compimento futuro di ciò che è stato annunciato dagli eventi passati, dalle scritture, dai profeti. In questa concezione del tempo hanno un ruolo fondamentale la colpa e il desiderio di redenzione quali eventi fondativi della temporalità storica: gli ebrei sono in attesa del Messia che redima e liberi il popolo di Israele; i cristiani sono in attesa del compimento finale, già prefigurato con l’avvento di Cristo, ma non ancora pienamente realizzato. In questo modo il tempo si fa attesa e speranza di redenzione, tutto proteso verso il futuro; l’accadere degli eventi acquisisce un senso solo in vista dell’avvicinamento e il raggiungimento di questo fine ultimo di salvezza. In questo periodo di attesa escatologica e messianica del compimento della storia la colpa e la redenzione sono gli elementi che conferiscono senso al fluire del tempo e lo sottraggono all’insignificanza del suo fluire.

Nell’epoca moderna i processi di laicizzazione e secolarizzazione hanno determinato il progressivo affievolirsi della fede religiosa e anche una sempre maggiore incredulità riguardo la concezione della storia nella sua dimensione sacra, messianica e escatologica. Tuttavia lo schema interpretativo della temporalità, nel suo essere storia

dotata di senso e direzione, si è interamente conservato in forma laicizzata, per cui il passato viene ancora inteso come preparazione e il futuro come compimento.

“Lo schema della storia della salvezza ha perso il suo contenuto ma non la sua forma, e il senso che la storia della salvezza aveva conferito al tempo si è trasferito nella teoria del progresso, per cui ogni stadio del tempo è compimento di certe preparazioni storiche e anticipazione di compimenti futuri. In questo modo un fondo soteriologico sopravvive anche nella più radicale desacralizzazione dell'escatologia religiosa, dove il tema della redenzione viene recuperato e ripresentato nella forma della liberazione. Si presentano come figure di liberazione, e quindi come forme secolarizzate dell'escatologia della salvezza, sia la scienza, sia l'utopia, sia la rivoluzione, ciascuna con le proprie varianti, determinate dal diverso modo con cui le figurazioni del tempo si contaminano fra loro correggendosi reciprocamente”. [Ibidem, pag. 511].

Lo schema escatologico, fondato sulla triade “colpa”, “redenzione” e “salvezza”, si conserva interamente nella versione laica e secolarizzata della temporalità post-religiosa che interpreta il passato come male, la scienza, l’utopia e la rivoluzione come redenzione e il progresso come salvezza. Ritroviamo qui, quasi identiche, le tre categorie eidetico-fenomenologiche individuate da Cambi quali dimensioni essenziali del discorso pedagogico, dal momento che scienza, utopia e rivoluzione (sovrapponibile in parte all’ideologia) si identificano nel loro essere progetto escatologico, rivolto a un futuro di liberazione, capace di dare senso al succedersi degli eventi. La teoria del progresso, che tali categorie sottendono, è l’equivalente laico della visione religiosa e sacrale del tempo escatologico e della speranza/attesa messianica; il tema della redenzione si tramuta in quello della liberazione.

“Si presentano come figure di liberazione, e quindi come forme secolarizzate

dell’escatologia della salvezza, sia la scienza, sia l’utopia, sia la rivoluzione, ciascuna con le proprie varianti, determinate dal diverso modo con cui le figurazioni del tempo si contaminano fra loro reciprocamente” [Ibidem, pag. 511].

“Scienza, utopia e rivoluzione sono persuase che il tempo abbia un senso e una direzione e quindi, come aveva insegnato la tradizione giudaico-cristiana, che il tempo sia storia con un percorso irreversibile: "mondiale (rispetto allo spazio) e permanente (rispetto al tempo)", esattamente come nella concezione cristiana della salvezza che, a differenza di quella ebraica, non è limitata a un popolo particolare, ma è estesa a tutta l'umanità”. [Ibidem, pag. 514].

Ma la pedagogia, come si è visto, si caratterizza proprio per il suo essere una disciplina rivolta all’emancipazione, ossia per essere impegno intenzionale, progettuale e di cura rivolto alla realizzazione dell’individuo/soggetto/persona nella sua piena

complessità/onnilateralità, autonomia e libertà. Si rileva allora, ancora una volta, il carattere progettuale e “escatologico” della pedagogia, quale disciplina che deve sempre confrontarsi con le costitutive categorie della scienza, dell’utopia e dell’ideologia, ossia in ultima analisi con l’idea di futuro e con i fini valori che la guidano, fungendo da norma. Ma soprattutto emerge con vigore il ruolo centrale della pedagogia per la costruzione e la ricerca del senso in considerazione della promessa/speranza di emancipazione dell’individuo e della comunità (Habermas) che essa può dischiudere, equivalenti laici dell’attesa messianica e dell’escatologia salvifica di tipo sacrale.

Il problema però è, come si è in parte già detto, che ora il senso sembra sparire.