I CASI CHE HANNO SEGNATO IL DIBATTITO ITALIANO, LE RELATIVE PECULIARITA’ E
2. La sentenza 21748 del 2007: un varo giurisprudenziale per il
testamento biologico?
Il lungo iter giudiziario percorso da Beppino Englaro conosce la svolta decisiva con la sentenza 21748 del 16 ottobre 2007. La pronuncia in parola rappresenta un vero e proprio spartiacque sul tema delle decisioni di fine vita. La Cassazione infatti ha finalmente saputo affrontare a viso aperto questioni fino ad allora sostanzialmente eluse, pur nella difficoltà dettata dai limitati spunti di inquadramento offerti dal sistema giuridico.
Deve infatti premettersi, e i lunghi ed accidentati percorsi di Welby, Nuvoli, ed Englaro sono a dimostrarlo, come aleggi sempre sullo sfondo la questione attinente alla liceità delle decisioni di fine vita, allorché queste siano in qualche maniera assimilabili a scelte eutanasiche. La questione infatti, per quanto sia risolvibile mediante il semplice dato costituzionale e conosca già risposte ampiamente condivise in dottrina, non cessa di rappresentare un evidente ostacolo all’atto dell’applicazione pratica da parte della giurisprudenza chiamata a decidere del caso
del necessario, terminando i propri ragionamenti in distinguo surrettizi e più o meno velate forme di elusione174.
Sul punto, la Suprema Corte ha voluto subito sgombrare il campo da equivoci, affermando che “il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende
abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”175.
Il punto cruciale che la Suprema Corte ha saputo affermare è stato sicuramente quello della centralità da assegnarsi alla volontà del paziente, a prescindere dalla condizione attuale in cui versi. Il requisito del necessario consenso deve accompagnare, ed è questo l’elemento più caratterizzante della sentenza, le prestazioni sanitarie erogate tanto nei confronti del paziente capace quanto di quello incosciente, come nel caso della Englaro.
174 E.PALMERINI, Cura dgli incapaci e tutela dell’identità nelle decisioni mediche, in
Rivista di Diritto Civile, 2008, p. 363 ss. Fortemente critica su questa forma di
elusione del problema, si ricorda la già citata posizione di A.PIZZORUSSO, Il caso
Welby: il divieto di non liquet, cit., p. 355 ss.
175 Cassazione, sent. 21748/2007, che prosegue cosi: “E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui”, richiamando peraltro per tale impostazione il conforto di precedenti della Cassazione stessa.
Si legge infatti nella sentenza come, “superata l’urgenza
dell’intervento derivante dallo stato di necessità, l’istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di
elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che,
attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati”.
Appare evidente come in questi casi debbano necessariamente
ricercarsi nuovi equilibri nella relazione di cura, e debbano fare ingresso nuovi soggetti. Un grosso merito che deve riconoscersi alla sentenza in parola è quello di averlo saputo incontrare, questo equilibrio richiesto dalle drammatiche e complesse contingenze del caso di specie, anche attingendo allo strumento comparatistico176.
L’impossibilità per il diretto interessato di esprimere la propria volontà ha quindi imposto, per tutelarne il diritto alla libera autodeterminazione, il ricorso ad un soggetto che possa surrogarsi nella decisione. A questa esigenza risponde la figura dell’amministratore di sostegno, i cui poteri si caratterizzano per essere del tipo “a fisarmonica”, rispondendo in
maniera dinamica alla concomitanza dei molteplici fattori ed
interlocutori nel complesso percorso di assunzione della decisione, prime su tutti eventuali DAT.
Oltre a riaffermare l’importanza di una costante vigilanza dell’autorità giudiziaria e della fisiologica interazione con la controparte del rapporto terapeutico, ossia i medici, la sentenza Englaro ha infatti esaltato il ruolo delle pregresse volontà del paziente, in qualunque maniera queste fossero manifestate, nella ricerca del best interest dell’incapace.
Questo concetto rappresenta il risultato della ricerca comparatistica operata dalla Cassazione, la quale ha mutuato dall’esperienza
anglosassone il delicato intreccio di criteri necessari ad orientare la decisione dell’amministratore di sostegno nel senso più coerente possibile a quella che si presume potesse essere la volontà del paziente.
Il perseguimento del best interest passa attraverso il soddisfacimento di due parametri di giudizio: il primo, di natura oggettiva, è rappresentato dal miglior interesse dell’incapace, apprezzato da un punto di vista clinico, e perciò rimesso alla valutazione del personale medico e pur sempre sindacabile dall’autorità giudiziaria; il secondo invece, di tipo soggettivo, consiste in un giudizio sostitutivo che permette al decisore surrogato di compiere scelte terapeutiche in luogo del paziente non competente, ricostruendo nella maniera più accurata possibile la volontà del paziente e quindi le decisioni che questi avrebbe assunto qualora fosse stato in grado di farlo177.
177 Si tratta del cd Substituted Judgement Test derivato dall’esperienza nordamericana, elaborato soprattutto nei casi Quinlan e Cruzan. Il giudizio sostitutivo viene così
Pare essere proprio nello sviluppo di questo secondo criterio che la vicenda Englaro ha lasciato i segni più profondi nell’ordinamento nazionale. E’ evidente infatti come sia con precipuo riferimento al parametro soggettivo che assumeranno rilevanza le volontà previamente espresse da parte dell’incapace al fine della ricostruzione di un best interest il più possibile coerente con l’individualità del paziente, così proteggendolo da forme di accanimento terapeutico derivanti da impossibilità decisionale.
La Corte ha avuto la premura, nella sentenza in esame, di evidenziare una distinzione cruciale, la quale, lungi dal rappresentare una semplice sottigliezza grammaticale, costituisce invero il criterio cui deve
necessariamente conformarsi l’azione del tutore affinché questa risulti compatibile con la natura personalissima del diritto alla salute. Si legge infatti nel testo della pronuncia come il tutore, “nel consentire al
trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, […] deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non «al posto» dell’incapace né «per» l’incapace, ma «con»
l’incapace”178.
spiegato dalla Cassazione: “Il tutore ha [...] il compito di completare (l’) identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace”.
La sentenza in analisi, oltre al merito della ricostruzione appena esposta, ha visto lo sforzo della Cassazione, dettato dalle esigenze del caso concreto, nell’individuazione dei presupposti che legittimano il tutore a richiedere l’interruzione dell’erogazione delle terapie di
sostentamento vitale. Ancora una volta si deve notare come si intreccino un criterio oggettivo ed uno soggettivo: il primo consiste nell’accertata irreversibilità della condizione clinica del paziente179, offrendo un prezioso contributo alla determinazione di un concetto extragiuridico oggetto di lunga discussione, definendola come una situazione di pura sopravvivenza incosciente; il secondo invece è di carattere soggettivo, e coincide con la ricostruzione dell’identità del malato, da compiersi attingendo sia alle volontà precedentemente espresse in qualsiasi forma, sia, in senso assai ampio, alle manifestazioni della sua personalità, al suo “stile di vita […] e il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive”180
Ecco allora che si può compiutamente comprendere la fisionomia della figura dell’amministratore di sostegno. Se da un punto di vista
179 “quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno” 180 Cassazione, sent. 21748/2007
privatistico può destare perplessità il fatto che siano state attribuite a questa figura funzioni che non gli sono strettamente proprie181, una tale forzatura da parte della Cassazione risulta comunque comprensibile in ragione delle finalità che intende perseguire: correggere da un lato i problemi derivanti dalla lacunosità del quadro normativo delle DAT, dall’altro l’uso distorto delle esimenti dello stato di necessità e dell’adempimento di dovere, capaci altrimenti di una radicale mortificazione del diritto alla libera autodeterminazione del diretto interessato.
Ad ogni modo, la Suprema Corte si è premurata di offrire un
soddisfacente fondamento normativo alla propria ricostruzione, facendo derivare il potere decisionale dell’amministratore di sostegno tanto dalla normativa nazionale 182, quanto da strumenti di diritto sovranazionale183.
181 Ne dà conto E. PALMERINI, op. ult. cit, p.373
182 Art 4 del d.lgs. 24 giugno 2003, n. 211 (Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle
sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico, laddove si specifica che la sperimentazione su adulti incapaci che non si siano espressi su una eventuale sottoposizione alla stessa èpossibile a condizione che “sia stato ottenuto il consenso informato del legale rappresentante”, il quale “deve rappresentare la presunta volontà del soggetto”; dall’ art. 13 della legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza (legge 22 maggio 1978, n. 194), il quale ammette la possibilità che la richiesta di interruzione di gravidanza, nel caso di donna incapace, possa provenire anche dal tutore.
183 In particolare, si cita l’art. 6 della Convenzione di Oviedo, sul cui valore giuridico la Corte già si è espressa, a norma del quale “allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge”, specificandosi oltretutto come “l’autorizzazione menzionata [...] può, in qualsiasi momento, essere ritirata nell’interesse della persona interessata”
La presente pronuncia fa compiere all’intero ordinamento un deciso passo avanti per quanto riguarda la tutela della libertà di
autodeterminazione, individuando un articolato intreccio di checks and balances che permettano la sopravvivenza di una, pur compromessa, libertà di scelta da parte del paziente anche oltre le soglie della coscienza, affermando la centralità della figura del decisore surrogato il quale, “in questo compito, umano prima che giuridico, non deve ignorare il passato dello stesso malato, onde far emergere e rappresentare al giudice la sua autentica e più genuina voce”184.
In definitiva pare di potersi affermare che quella della Cassazione è stata una decisione sì sofferta, ma necessaria. Nella consapevolezza che, in casi come quello qui sottopostole, il fattore tempo inciderà profondamente ed inevitabilmente nella (im)possibilità di un compimento pieno dei requisiti prescritti per la prestazione del consenso (o dissenso) informato, la Suprema Corte ha di fatto censurato le risposte offerte dalla Giustizia nei giudizi inerenti alla materia del fine vita, risoltesi troppo spesso in non liquet, recuperando e riaffermando piuttosto la posizione già espressa dalla Corte Costituzionale nel 1998 , secondo la quale “anche in tale situazione, pur a fronte dell’attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una 184 Cassazione, sent. 21748/2007
delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali”185.
185 Cassazione, sent. 21748/2007; cfr. Corte cost., sentenza n. 347 del 1998, punto n. 4 del Considerato in diritto
CAPITOLO QUINTO