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La benedizione nell'AT e nel NT

Nel documento Dispensa 2016-17 (pagine 87-93)

PER INVOCARE LA SUA BENEDIZIONE

2. La benedizione nell'AT e nel NT

L’uso che di euloghéô faranno i LXX (circa 450 volte) sta ad indicare non solo la frequenza e l'importanza del concetto di benedizione espresso dalla radice bârâk, ma soprattutto il fatto che proprio nel contesto culturale e cultuale giudaico il termine ha ricevuto un'impronta definitiva rispetto ad altre culture del mondo orientale.

2.1. Nell'AT

Due sono fondamentalmente gli aspetti della benedizione che è possibile individuare nell'ambito della prassi veterotestamentaria e che, a seconda del loro significato, possono essere denotati con gli aggettivi discendente e ascendente.

2.1.1. La benedizione nel suo significato discendente

Il valore fondamentale di bârâk è: dotare di virtù salvifica; questo significato comprende al tempo stesso il gesto di donare e lo stato del dono. Nella benedizione c'è dunque in origine una potenza che opera autonomamente, una forza di salvezza che si può trasmettere, così come all'opposto troviamo la potenza della maledizione che opera distruzione. Infatti l’ebraico berakâ «non significa soltanto l’atto del benedire o la parola di benedizione, ma anche l’essere benedetto, ricolmo di benedizione, nonché le benedizioni che ne derivano: fortuna, forza ecc.». Questa "forza" che l'uomo può trasmettere costituisce il contenuto primordiale della benedizione che include, in particolare, una vita lunga e vigorosa e una numerosa discendenza; ma anche pace, sicurezza, felicità, salvezza. Tipico al riguardo è il racconto di Gn 27,1-29 (in part. i vv. 27-29) in cui Isacco benedice Giacobbe; di Gn 48,15-16 e di tutto il c. 49 (in part. i vv. 25-26) in cui Giacobbe benedice Giuseppe.

Dai testi emerge immediatamente, anche se in forma arcaica, che solo Dio è il

depositario e il dispensatore di ogni benedizione. È questa una constatazione che diventa

sempre più certezza in tutto il resto dell'AT a cominciare dal c. I di Gn in cui è Dio stesso, nella sua misericordia e libertà, a pronunciare e a donare la benedizione alle

realtà create: «Dio li benedisse: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei

mari, gli uccelli si moltiplichino sulla terra"...» (Gn 1,22); ma soprattutto all'uomo e

alla donna come creature viventi: «Dio li benedisse…: "Siate fecondi e moltiplicatevi,

riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra"…» (Gn 1,28); e finalmente all’uomo

nel suo operare storico, cui Dio assicura la propria presenza: «…Io sarò con te e ti

benedirò...» (Gn 26,3). Una "presenza" che si mostra concretamente in Adamo, in Noè, nei patriarchi, in Mosè e in tanti altri avvenimenti della storia della salvezza, e

che nella pienezza dei tempi culminerà nella venuta stessa del Figlio di Dio in mezzo agli uomini, anzi nella loro stessa condizione e natura. Con questa venuta Dio attuerà in modo definitivo quanto era stato preannunciato e prefigurato in Gn 17,7: «Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te». La condizione dunque per entrare nel dinamismo della benedizione divina sarà determinata dall'accettazione della sua alleanza e dal perseverare in essa: «…solo chi osserva i comandamenti di Dio, i giusti, i pii, hanno parte ai benefici della sua benedizione», come ricorda il Sal 24,4-5: «…Chi ha mani innocenti e cuore puro... otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza».

Questo particolare modo con cui Dio interviene nella creazione, nella vita e nella storia dell'uomo, trova progressivamente nel culto le sue forme rituali. C'è anzi chi afferma – come il Beyer – che «il culto è forse la fonte stessa del concetto israelitico di benedizione: nel culto l’israelita… è convinto che la sostanza della forza della benedizione possa in qualche modo essere continuamente ricostituita mediante atti sacrali…».

In linea di principio tutti sono autorizzati a impartire benedizioni. E nel contesto del culto però che uomini a ciò particolarmente designati invocano la benedizione del Signore; col tempo ciò diventerà un privilegio sacerdotale anche nella liturgia della sinagoga. Al riguardo l'esempio più caratteristico ci è offerto da Nm 6,23-27: si tratta della benedizione aaronitica che appare come formula fissa della benedizione sacerdotale e che sarà usata al termine di ogni celebrazione cultuale sia nel tempio, sia nella sinagoga dove la comunità ad ogni invocazione risponde con l'Amen. «…Voi benedirete così gli Israeliti...: "Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace". Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». E questo il testo che il Messale Romano ha ripreso con lievi modifiche e riproposto nel corpus delle benedizioni solenni sul popolo.

Due sono gli elementi che concorrono all'attuazione del contenuto della benedizione: il primo è la parola, una parola carica di potenza divina, sempre accompagnata da un gesto – ed è il secondo elemento –, soprattutto l'imposizione della mano, che costituisce la convalida di quanto annunciato con il trasferire una forza salvifica mediante una azione (di contatto). Sono questi gli elementi che diventeranno poi, nella liturgia cristiana, costitutivi di ogni azione liturgico- sacramentaria.

2.1.2. La benedizione nel suo significato ascendente

Finora è stato evidenziato un aspetto della benedizione, quello propriamente discendente, che si identifica con il favore divino manifestato nei confronti di ogni realtà creata. Ma l'uso del termine bârâk include anche un'altra connotazione parallela alla precedente, che potremmo chiamare di segno ascendente: non è solo Dio che benedice l'uomo, ma è anche l'uomo che benedice Dio. La certezza che tutta la

vita dell'uomo è nelle mani di Dio spinge il pio israelita all'euloghéin théon: ad esprimere cioè la propria fede, gratitudine e speranza nel rendere gloria e lode a Dio. Il libro di Daniele presenta al riguardo uno degli esempi più tipici sia in 3,26-27, sia soprattutto nel cantico dei tre giovani (3,52-90) in cui il verbo benedire con questo specifico significato ritorna ben 39 volte! Questa connotazione ci riporta al significato originario assunto da euloghéin nella grecità profana: il lodare, il celebrare, il magnificare costituiscono l'atteggiamento dell'uomo nei confronti di Dio riconosciuto come creatore, benigno, misericordioso e giusto, e in quanto tale degno di lode e di gratitudine.

Tutte le preghiere che iniziano con una lode a Dio sono chiamate, anche nel giudaismo contemporaneo a Gesù, berakâ (plurale: berakôth). Vi è la principale preghiera: lo Shemonèh - 'esrèh berakôth che ogni pio israelita recita tre volte al giorno, ed è costituita da 18 (19) benedizioni: ad ogni benedizione, sempre diversa, è intercalato il ritornello: «Sii lodato (benedetto), Signore…». Accanto a questa, sono pronunciate altre preghiere di lode (berakôth) in gran numero nelle circostanze più svariate, ma soprattutto prima, durante e dopo i pasti – come è possibile constatare nel rituale della cena pasquale –, in modo che «per colui che, riconoscente, riceve i cibi come un dono di Dio, tutto il pasto diviene… una euloghía». Dall’insieme emerge dunque una visione grandiosa: l’uomo riconosce che ogni elemento della creazione è opera e quindi proprietà totale di Dio; è nell'atteggiamento giusto allora solo colui che beneficia e gode, con atteggiamento di riconoscenza, ogni singola realtà. Non rientrare in questa prospettiva è commettere una rapina, una infedeltà nei confronti di Dio, perché solo «del Signore è la terra e quanto contiene…» (Sal 24,1).

Benedire Dio e glorificarlo in tutte e per tutte le sue opere è un rendergli grazie e gloria con tutta la propria vita, sia nel culto come nella preghiera personale o in famiglia. E tutto questo diventa un atteggiamento costante nel comportamento del fedele; ciò che varia sono le occasioni e le circostanze che stimolano tale lode. E questo momento di lode in cui si benedice Dio diventa, a sua volta, il luogo e il momento in cui Dio stesso si rivela come "benedizione" per l'uomo, dando vita, così, a quell'admirabile commercium che, attuatosi in pienezza nel paschale mysterium del Cristo, attende di essere portato a compimento nell'esistenza del fedele, nell'oggi della chiesa.

2.2. Nel NT

La realtà veterotestamentaria della benedizione continua ad essere presente anche nel NT dove benedire Dio è lodarlo: lodare il suo nome specialmente per la sua misericordia e bontà, per tutto ciò che avviene secondo la sua volontà. Tutto questo è espresso mediante verbi caratteristici già nei LXX: euloghéin, exomologhéin,

2.2.1. Premessa terminologica

Nell'insieme del NT il verbo euloghéin è presente 42 volte con il significato più ricorrente di: lodare, esaltare, glorificare. - Exomologhéin nel linguaggio extrabiblico non ha mai il significato di "lodare"; nel NT è presente solo 10 volte, dove, tra l'altro, indica anche "proclamare le opere di Dio, esaltare al massimo grado, lodare, confessare, ringraziare". - Eucharistéin invece, usato complessivamente 38 volte, è riservato quasi esclusivamente per esprimere il "ringraziamento a Dio" come atteggiamento fondamentale e costante della vita cristiana. «… Eucharistéin – scrive il Ligier –, sovente sinonimo di euloghéin nel NT, include il significato di quest'ultimo. Come esso, significa la semplice benedizione che saluta, colma di omaggi e di auguri; ma, a motivo della sua radice semitica, esprime in particolare la confessione del Dio dell'alleanza, dei suoi benefici, come pure il ringraziamento che egli merita...». Ma il verbo assume anche il significato particolare di preghiera di

ringraziamento prima, durante e dopo il pasto (cf. Mc 8,6 e par.; At 27,35; Rm 14,6;

1Cor 10,30; e soprattutto Lc 22,17.19; 1Cor 11,24). Si tratta delle berakôth della mensa caratterizzate soprattutto dalla lode a Dio per i suoi benefici. Anzi «gli originari elementi della lode di Dio e della semplice commemorazione dei suoi benefici (anàmnesi) ebbero spesso un particolare sviluppo mediante l'introduzione di una specifica motivazione della lode, di una speciale azione di grazie e di una supplica. La benedizione ebbe largo uso nella liturgia della sinagoga e nei pasti familiari quotidiani...”. Accenneremo tra poco al rapporto tra questa particolare formula di benedizione e ciò che ha compiuto Gesù specialmente nell'ultima cena, e ciò che ne è derivato per la prassi della chiesa di ogni tempo e luogo.

Riprendendo il significato comune a euloghéin e ad eucharistéin (= lode, ringraziamento a Dio) osserviamo quali sono nel NT le persone che "benedicono" o che sono oggetto di benedizione.

2.2.2. Primi esempi neotestamentari

I primi e più immediati esempi di benedizione li troviamo nell'atteggiamento e nelle parole di Zaccaria che esprime la propria lode e rendimento di grazie a quel Dio di cui ha sperimentato in maniera così diretta e personale l'azione potente: «Benedetto (euloghêtós) il Signore Dio d’Israele, perché…» (Lc 1,68ss). Anche

Simeone loda Dio per avergli concesso di contemplare il Salvatore promesso: «... lo

prese tra le braccia e benedisse (eulóghesên) Dio... » (Lc 2,28).

2.2.3. La “benedetta fra le donne”

Anello di congiungimento tra la salvezza annunciata e prefigurata, e la sua realizzazione, Maria esprime la sua lode per ciò che Dio ha operato in lei e per mezzo di lei: «L’anima mia magnifica il Signore… perché grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente... » (Lc 1,46ss). Lei stessa inoltre diventa oggetto di benedizione,

insieme al frutto delle sue viscere: «Benedetta (éuloghêménê) tu fra le donne, e benedetto (euloghêménos) il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). Anzi, Maria è la prima e più straordinaria benedizione del Padre: è «benedetta» perché «il Signore è con te» (Lc 1,28); e, come per Abramo, padre di molte genti, la benedizione su Maria è sorgente di fecondità (cf. Lc 1,31). Preziosa è la sintesi di tutto ciò mirabilmente espressa nel Discorso 52 di S. Anselmo, riportato come II lettura nella Liturgia delle Ore per la solennità dell'Immacolata Concezione: «O Vergine benedetta e più che benedetta, per la cui benedizione ogni creatura è benedetta dal suo Creatore, e il Creatore è benedetto da ogni creatura».

2.2.4. I discepoli

Anche i discepoli benedicono Dio. Luca conclude il suo vangelo con l'immagine dei discepoli che «stavano sempre nel tempio lodando (eulogoûntes) Dio» (24,53). Così, l'espressione: «Sia benedetto Dio…» ricorre spesso nelle lettere di Paolo (cf. ad es. Rm 1,25; 2Cor 1,3; Ef 1,3). Ma i discepoli dovranno benedire anche coloro che li malediranno: «Benedite (eulogheîte) coloro che vi maledicono…» (Lc 6,28); solo in questo modo potranno ereditare la benedizione di Dio: «…rispondete benedicendo (eulogoûntes); poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione (euloghían)» (1Pt 3,9).

2.2.5. L'atteggiamento del Cristo

Come ogni pio israelita, Gesù benedice alcune persone, come i bambini: «...ponendo le mani sopra di loro li benediceva (kateulóghei)» (Mc 10,16), in linea con l'atteggiamento ordinario di un padre di famiglia o di un rabbi. Benedice i malati; benedice i discepoli nel giorno della ascensione: «… alzate le mani, li benedisse (eulóghêsen). Mentre li benediceva (eulogheîn), si staccò da loro ...» (Lc 24,50-51). Commentando questa conclusione del vangelo di Luca il Link afferma: «Il Signore che prende congedo comunica alla sua comunità la virtù della sua benedizione in forza della quale egli resta unito alla comunità stessa. Il contenuto della benedizione è la presenza del Signore esaltato presso la sua comunità …». Ma soprattutto Gesù benedice (= rende grazie al) il Padre. I vangeli ci indicano alcune circostanze: «Padre, ti ringrazio (eucharistô) che mi hai ascoltato...» (Gv 11,41); «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto...» (Lc 10,21). È interessante notare come il Bouyer presenti questo testo come una tipica berakâ sia per la forma e sia soprattutto per il tema: «la conoscenza di Dio» come risposta alla sua Parola. «La

berakâ per la conoscenza arriva in questo testo alla sua completezza perché, in

Gesù, Dio si manifesta completamente all’uomo, e immediatamente suscita la risposta perfetta dell’uomo. Contemporaneamente, questa berakâ per la conoscenza che il Padre ha del Figlio, e per la conoscenza che il Figlio ne riceve dal Padre, si sviluppa in una berakâ per la comunicazione di questa intimità singolare ai "poveri", nel senso comune in Israele, cioè a coloro che vivono solo della fede».

Questo atteggiamento di Gesù nei confronti del Padre diventa ancora più chiaro ed esemplare quando, facendo propri i costumi e le usanze del suo popolo – come ogni capo famiglia –, prende il pane, pronuncia il rendimento di grazie («Sia benedetto Dio che ha fatto germinare questo pane dalla terra»; i presenti rispondono: «Amen»), spezza il pane e lo distribuisce...: è il rituale che notiamo nelle due moltiplicazioni dei pani (cf. Mc 6,41; 8,6 e par.).

Ma è durante l'ultima cena che tutto questo risalta in maniera ancora più netta quando Gesù prende il pane, pronuncia la benedizione.... prende il calice, rende grazie... Tutto il movimento di lode e di rendimento di grazie si muove entro quel contesto veterotestamentario che sembra ben sintetizzato da Dt 8,10: «Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato...».

Ogni benedizione prima e dopo i pasti è sempre rivolta a Dio: è una lode e un ringraziamento al Creatore che dispone ogni cosa, che fa produrre «il pane della terra», che crea «il frutto della vite»...; e tutti i presenti confermano la lode con il proprio Amen. «Terminato il pasto, segue il rendimento di grazie comunitario, la "lode per i cibi" ...; il capo-famiglia (o l’ospite di maggior riguardo)... pronuncia la preghiera conviviale, consistente in quattro benedizioni...».

Nell'ambito del nostro particolare discorso l'attenzione è richiamata non dall'insieme di ciò che Gesù ha fatto nell'ultima cena, ma dal senso delle espressioni: «pronunziata la benedizione» (euloghêsas); «dopo aver reso grazie» (eucharistêsas). Nel contesto della tradizione ebraica i due verbi danno la sintesi del duplice movimento ascendente e discendente proprio della benedizione. Ed è da questo specifico contesto che il termine eucharistia – traduzione greco-cristiana di

berakâ – passerà a designare nella tradizione cristiana l'intera celebrazione della cena del Signore vista come fatto che ricapitola in sé ogni benedizione divina nei confronti

del popolo dell'alleanza; che prefigura il compimento di ogni attesa nel Cristo, suprema benedizione del Padre; e che, facendo memoria in mysterio di tutta la redenzione, la attualizza interamente per la salvezza del popolo della nuova e definitiva alleanza. E per tutto questo la chiesa «rende grazie» benedicendo il suo Signore.

2.2.6. Conclusione

Nell'AT come nel NT quando il termine benedire ha per soggetto Dio, indica la sua continua comunicazione salvifica, e quindi il dono del suo amore, della sua misericordia, della sua pace. Quando il termine ha per soggetto l'uomo, indica l'atteggiamento (lode, adorazione, invocazione, ringraziamento) con cui l'uomo accoglie la comunicazione che Dio fa di se stesso, e si pone nella condizione salvifica dell'Esodo. I due aspetti appaiono mirabilmente fusi in Ef 1,3-4 dove Paolo, presentando il piano divino della salvezza che proviene dal Padre, che si manifesta ed è attiva mediante il Figlio, che avviene nello Spirito, e che riconduce tutto al Padre, afferma: «Benedetto sia Dio ...che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituali nei cieli, in Cristo ...».

Nel documento Dispensa 2016-17 (pagine 87-93)

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