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Il significato teologico dell'eucaristia nella Chiesa apostolica

Nel documento Dispensa 2016-17 (pagine 163-168)

«CALICE DELLA BENEDIZIONE»

4. Il significato teologico dell'eucaristia nella Chiesa apostolica

La Cena di Gesù s'inserisce nel contesto rituale della cena pasquale ebraica. I due momenti del pane spezzato e del calice di benedizione sono assunti da Cristo come segni "sacramentali" del sacrificio della nuova alleanza. Le varie "tradizioni" richiamano l'attenzione sul fatto celebrativo-rituale finalizzato alla partecipazione ad un sacrificio.

I discepoli, obbedendo ad un preciso comando dato dal Maestro durante la sua ultima Cena, attuano una celebrazione memoriale che è il sacramento dell'Eucaristia. Si tratta di coglierne il contenuto teologico a partire da una riflessione sulle testimonianze terminologiche circa le uniche due espressioni usate nel NT per indicare la celebrazione dell'Eucaristia.54

4.1. "Cena del Signore" e "spezzamento del pane"

Se interroghiamo il NT per sapere se all'epoca apostolica esisteva nella primitiva Chiesa una celebrazione dell'Eucaristia, riscontriamo tre serie di testi che ci possono illuminare al riguardo.

– Testi. I Sinottici (Mt 26,26-28; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) ci raccontano so- stanzialmente la stessa cosa.

Paolo in 1 Cor 11,23-26 ci presenta un racconto che chiaramente si affianca a quello dei Sinottici, ma è fatto in occasione della preoccupazione che Paolo ha di salvare la dignità della celebrazione della "cena del Signore" nella comunità di Corinto. Il punto di maggior distinzione tra Paolo e i Sinottici sta nel fatto che l'apostolo mette due volte in bocca a Cristo il comando: "Fate questo in memoria di me". E ad esso aggiunge un commento: "Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga".

52 Ibid., p. 124. 53 Ibid., p. 144.

54 Le pagine che seguono sono riprese e sintetizzate dall'opera di S. MARSILI, Teologia della celebrazione dell'Eucaristia, o. c., pp. 19-23.

I testi di 1 Cor 10,16-17; Lc 24,30.35; At 2,42.46; 20,7.11 parlano di un rito, detto "dello spezzamento del pane" e celebrato dai cristiani come rito tipico e distintivo nei confronti degli Ebrei.

– Approfondimenti. Nelle fonti sinottiche c'è un punto particolarmente interessante per la nostra ricerca sulla celebrazione dell'Eucaristia nel I secolo. Si tratta cioè di quel certo modo di narrare l'ultima Cena di Cristo, che tutti i Sinottici - mentre ci pongono davanti ad un fatto storico che fa parte dell'economia del loro racconto - presentano come un fatto già passato a livello celebrativo.

L'analisi esegetica dei testi è abbastanza concorde nel rilevare come nei Sinottici la

narrazione dell'ultima cena di Cristo, senza perdere nulla del suo valore storico, sul piano

formale della presentazione letteraria riveli una chiara formulazione rituale, come si può vedere dal rigido concordismo verbale e gestuale che accomuna le tre diverse relazioni dello stesso avvenimento, fatte in tempi e luoghi diversi da autori diversi. Questo vuol dire che gli evangelisti in questione, giunti al punto di narrare "la cena ultima di Cristo" hanno preferito non darne un racconto dettagliato, come è proprio della storia, ma ce l'hanno presentato nella stessa formulazione sintetica, che era già in uso come formula

liturgico-rituale nella celebrazione delle Chiese per le quali gli evangelisti scrivevano. In

questo modo, salvata l'essenzialità storica del fatto, l'avvenimento che i fedeli nell'ascolto della Parola e nella catechesi conoscevano come storico, se lo ritrovavano identico sul piano liturgico in ogni celebrazione.

Per 1 Cor 11,23-26 è chiaro che il testo paolino ci parla direttamente di una

celebrazione liturgica della comunità di Corinto, e quindi è d'importanza fondamentale

come dimostrazione che nella Chiesa apostolica esisteva già quella celebrazione, da Paolo chiamata "cena del Signore", che la tradizione non tarderà ad identificare nell'Eucaristia.

Paolo preoccupato che i suoi fedeli di Corinto celebrino "in maniera indegna" e con assemblee indecorose "la cena del Signore", li richiama a ciò che questa deve essere: una cena nella quale i fedeli facciano, per ordine del Signore e in memoria di lui, solo quello che egli ha fatto nella sua ultima cena e che ha ordinato ai discepoli di fare, e che Paolo si premura di dire di aver già trasmesso alla comunità di Corinto come "tradizione" liturgica del Signore.

Nel riferirci dunque quel che Cristo fece durante la cena di "quella notte nella quale veniva consegnato a morte", l'apostolo non ha neppure la preoccupazione "storica", che avevano i Sinottici, ma quel che racconta gli serve, al contrario, solo per fissare il modo e il contenuto della celebrazione della "cena del Signore", secondo il comando del Signore. E per l'apostolo "il radunarsi insieme" per fare "la cena del Signore" avviene soltanto quando i fedeli si raccolgono insieme per una cena, nella quale - mangiando il pane-corpo di Cristo e bevendo il suo sangue - si "fa la memoria di lui" e cioè "si proclama l'avvenimento della sua morte fino alla sua venuta".

Come i Sinottici, anche Paolo presenta il racconto dell'ultima cena secondo una formulazione rituale, ma con una differenza: mentre i Sinottici inseriscono nel racconto evangelico la formulazione rituale della cena che essi conoscono dalla celebrazione, Paolo invece - dato che sta descrivendo come fare la celebrazione - intende darci la

formula liturgica nella quale la celebrazione deve avvenire, secondo la "tradizione" liturgica

ricevuta dal Signore. Questa sta ad indicare come l'avvenimento storico della "cena del Signore" avesse ormai assunto una chiara dimensione celebrativa, facendo così della stessa "cena del Signore" la nuova liturgia della Chiesa già nella prima epoca apostolica.

– In sintesi. Tanto dai Sinottici che da 1 Cor 11,23-26 si dimostra direttamente che:

l'uso di celebrare la cena del Signore è anteriore alla redazione sia dei Vangeli sinottici che

della stessa lettera di Paolo; che detta celebrazione si faceva in obbedienza al comando di

Cristo e per "fare la memoria di lui, proclamando la sua morte"; che la Chiesa apostolica

nella sua celebrazione intendeva fare, per imitazione reale, quel che aveva fatto Cristo nella sua ultima cena, in vista della sua morte.

Che i testi relativi allo "spezzare il pane" ci mettano nel NT di fronte ad una celebrazione

rituale si desume certamente prima di tutto da 1 Cor 10,16: «Il pane che noi spezziamo

non è forse comunione al corpo di Cristo?». Tutto il contesto è chiaramente rituale; si tratta infatti di opposizione tra riti cristiani e riti pagani.

Altrettanto però si deduce in maniera più esplicita e completa dall'insieme della narrazione di At 20,7-11, che c'introduce in una tipica celebrazione cristiana. Vi si riconoscono senza difficoltà gli elementi essenziali di quella che sarà nota come "celebrazione dell'Eucaristia": un'assemblea dei fedeli, nella sala alta di una casa privata; nel giorno di domenica ("primo giorno della settimana"), che è il giorno consacrato dalla risurrezione di Cristo e forse ancor più dal suo "farsi riconoscere nello spezzare del pane" a Emmaus; un'assemblea che si raduna "per spezzare il pane", e che per l'occasione ha un lungo incontro con l'apostolo Paolo.

Alla luce di questi testi, più evidente appare la ritualità dello stesso gesto di cui leggiamo in Lc 24,30.35 e in At 2,42.46; avvertendo che mentre nel primo di questi due testi "lo spezzare il pane" diventa segno della presenza di Cristo risorto nella comunità, nel secondo invece si accentua il senso di partecipazione allo stesso pane (cf 1 Cor 10,16) e quindi il valore di fraternità indotta dal rito.

Il termine "spezzare il pane" stava ad indicare uno dei primi riti con cui si iniziava il pasto presso gli Ebrei.55 Quest'ultima particolarità, unita sia al risalto che il termine e il gesto di "spezzare il pane" assume nella cena pasquale di Cristo, sia al fatto che i due di Emmaus "riconobbero Gesù nello spezzare il pane" (Lc 24,35), ci può agevolmente spiega-

re perché lo "spezzare il pane" sia stato fin dal principio acquisito come termine tecnico per

indicare la celebrazione cristiana per eccellenza, e cioè la nuova Pasqua di Cristo.56 4.2. Convito "sacrificale"

I testi esaminati mostrano che nella Chiesa apostolica esisteva una celebrazione, detta indifferentemente "cena del Signore" o "spezzamento del pane", della quale è messo fortemente in risalto l'aspetto conviviale sacro.

Per giudicare rettamente il valore da dare a questa "celebrazione conviviale", che si presenta come un rito particolare dei cristiani, non si deve dimenticare che essa si configura non come una qualunque cena, sia pure di carattere religioso, ma come una cena che vuole essere quella pasquale di Cristo e che viene celebrata espressamente "in memoria di lui" e cioè come "annuncio della sua morte" vittoriosa.

E' chiaro che già questa identificazione, per la quale la celebrazione cristiana viene riferita direttamente alla cena pasquale di Cristo e al suo significato, dà all'aspetto conviviale della celebrazione cristiana un significato del tutto proprio e particolare.

L'ultima cena di Cristo, sia come avvenimento storico narrato dai Sinottici, sia come fatto

celebrativo presentato da Paolo, rappresenta il momento nel quale Cristo dà forma rituale

di "sacrificio" volontario alla sua morte in croce, che esternamente sarebbe invece apparsa solo come condanna subita per infrazione alla legge ebraica (bestemmia: Mt 26,65) e romana (proclamandosi "re": Mt 27,11).

Dato dunque che l'azione di Cristo all'ultima cena conferiva valore di "sacrificio rituale" a quello che era il "sacrificio reale" della sua morte; e considerato che questo

sacrificio rituale-personale di Cristo nell'ultima cena è da Paolo presentato come attuale celebrazione della Chiesa, è chiaro che per l'apostolo e per la sua comunità cristiana "la cena

del Signore" aveva il valore di rito con cui la Chiesa offriva in "sacrificio memoriale" la morte di Cristo sulla croce, e questo non solo in forza del comando di Cristo, ma anche secondo la "tradizione" liturgica ricevuta dal Signore.

Il commento di Paolo, che identifica "la memoria di Cristo" con "la memoria- proclamazione della sua morte", è segno evidente che per lui la partecipazione alla "cena del Signore" è partecipazione al "corpo-calice" di Cristo, che si trovano sulla "mensa-

altare del Signore" (1 Cor 10,16-21) e quindi l'apostolo mette in tutta evidenza la natura

"sacrificale" della celebrazione cristiana. Così Paolo mentre ci presenta la celebrazione come una "cena del Signore" alla quale tutti sono invitati per mangiare e bere, avverte che bisogna fare attenzione, che si tratta di "mangiare questo pane e di bere questo calice", e cioè non un pane e un calice come quelli di ogni altra cena, ma un pane che è "il corpo di Cristo dato (in sacrificio)" e un calice che è quello "della nuova alleanza".

D'altra parte per Paolo queste parole, con cui Cristo ha dato il suo corpo a mangiare e il suo sangue a bere, condensano tutto il significato pasquale della morte di

Cristo; e se il contenuto reale della Pasqua è la liberazione e l'alleanza operata da Cristo, il suo segno esterno è appunto una cena nella quale "si mangia la Pasqua" (Mt 26,17; Mc 14,12.14; Lc 22,8.11.15). La celebrazione cristiana nella presentazione di 1 Cor 11,23-26 non è dunque o cena o sacrificio; ma è una cena nella quale si partecipa, mangiando la vittima,

al sacrificio.

5. Conclusione

Il cammino percorso ha permesso di situare le parole e i gesti compiuti da Gesù nell'ultima Cena nel loro adeguato contesto (cena pasquale ebraica e berakôt): esso aiuta a comprendere il significato "pasquale" del motivo per cui l'Eucaristia è stata istituita.

Gli elementi che emergono in forma più evidente sono: lo stretto rapporto che intercorre tra celebrazione eucaristica e morte di Cristo; il realismo della presenza eucaristica manifestato nel mangiare "quel" pane che è il Corpo di Cristo e nel bere "quel" calice che è il Sangue dell'Alleanza; il rapporto tra la celebrazione dell'Eucaristia e la parusia: "Ogni volta... finché egli venga".

Il significato religioso della Cena consiste dunque nel fatto che Gesù ha istituito il memoriale del suo sacrificio perché i suoi discepoli di ogni tempo e luogo - attraverso la celebrazione di questo memoriale - fossero sempre più una cosa sola con Lui e tra di loro; realizzassero cioè definitivamente il progetto iniziale di Es 19,5-6 (proprietà particolare - regno di sacerdoti - nazione santa): quello della comunione (alleanza) con il Padre, per avere la "vita eterna" ed essere "risuscitati nell'ultimo giorno" (cf l'insegnamento "eucaristico" di Gv 6).

Da ciò che Gesù ha detto e fatto è scaturita la prassi eucaristica della Chiesa primitiva. Le pr ime comunità cristiane hanno continuato a usare le forme di preghiera ebraiche senza distaccarsene, ma caricandole ormai di un significato nuovo scaturito dalla morte e risurrezione del Cristo.

E' quanto si è potuto intravedere dalle lettere di Paolo e dalle testimonianze di alcuni martiri: tali esempi costituiscono l'anello di congiunzione - segno appunto di ininterrotta continuità - tra l'ultima Cena e l'Eucaristia della Chiesa, anzi delle singole Chiese, lungo i secoli.

Capitolo XII IL SACRAMENTO,

“FONS ET CULMEN” DI BEATITUDINE DELL’UOMO «IN CRISTO»

«Beato»: voce dotta, dal latino beatum (participio passato del verbo beare). Il primo significato sembra essere stato quello che indica “colmo di ogni bene, di tutto ciò che si possa desiderare”, e ancora “ricco”, e quindi “felice” in senso morale. Quest’ultima accezione è stata assunta e divulgata dalla Chiesa (soprattutto per rendere il corrispondente gr. makários) assieme al derivato beatitudo, beatificum, beatificare.

Il termine latino beare (di etimologia incerta, ma comunque proveniente dal linguaggio familiare sia nel latino arcaico che postclassico) significa “rendere felice”, e quindi: 1. rallegrare, dilettare, ricreare; 2. rendere felice, beato con qualcosa (cioè far dono di qualcosa, arricchire qualcuno con un dono); 3. arricchire, colmare di beni, di tutto ciò che è necessario tanto da non aver bisogno di altro.

Con uno spettro semantico di questo genere è naturale che il termine sia stato assunto fin dall’inizio dell’era cristiana nel linguaggio ecclesiastico, a cominciare dalle traduzioni latine della Bibbia e, di conseguenza, dall’uso nella liturgia. È su questo secondo aspetto che si sofferma inizialmente la presente riflessione, per cogliere poi il senso teologico di beato-beatitudine come realtà di vita dell’uomo in Dio, conseguita attraverso l’esperienza sacramentale della Chiesa.

1. Dall’esperienza del linguaggio biblico al suo prolungamento nella liturgia

Nel documento Dispensa 2016-17 (pagine 163-168)

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