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Secolarizzazione e postmoderno sfidano la liturgia?

Nel documento Dispensa 2016-17 (pagine 40-50)

IL CULTO, TRA SAECULUM E RELIGIO SFIDE PER L’EDUCAZIONE

2. Secolarizzazione e postmoderno sfidano la liturgia?

La scomparsa del religioso (= secolarizzazione) porta con sé la scomparsa del

sacro falso (= desacralizzazione), non necessariamente la scomparsa del sacro

autentico, della vera religione e della fede cristiana. Anzi «la morte del sacro non significa automaticamente la morte della religione, almeno nelle sue espressioni più elevate. La religione, infatti, offre all'uomo la risposta a domande che egli non può non porsi: domande che riguardano il senso della vita, il mistero della morte, il senso della sofferenza, il problema del male...».8

Che questo modo di percepire e vivere la realtà abbia influito in qualche forma nella vita liturgica della Chiesa è fuori discussione. Anzi, come una mentalità sacralizzante in altri periodi della vita della Chiesa ha comportato forme rituali che talvolta potevano apparire una trasmutazione di atteggiamenti magico-sacrali, così oggi ci troviamo di fronte a forme rituali che, se ben comprese e vissute, diventano espressione di quel dialogo tra l'uomo e Dio, che ha la sua origine nell'iniziativa gratuita di Dio, e che nel segno del culto rivive e fa vivere la massima espressione di questa comunione.

Con ciò non potrà ipso facto considerarsi superato il bipolarismo di cui sopra: esso è sempre presente nella vita e nella riflessione della Chiesa in forza della dialettica sacro-profano; e in una forma più o meno avvertita a seconda dell'accentuazione di uno o dell'altro dei termini del rapporto fede-cultura. Ma tutto questo è destinato a influire positivamente sul mondo della liturgia perché i suoi segni, globalmente considerati, siano il più possibile trasparenti nell'esprimere le sante realtà che devono comunicare.

Di questo l'educatore non può non essere consapevole; ciò gli permetterà di affrontare il proprio lavoro come una di quelle sfide che solo il tempo riesce a decifrare nelle sue conseguenze, e a farne vedere la dimensione altamente positiva. 2.1. La secolarizzazione interpella la liturgia

Se alcuni sono giunti a ipotizzare il tramonto del culto a favore di un maggior impegno del cristiano nel mondo, ciò vuol dire che la loro esperienza di culto è stata per lo meno alienante e quindi una esperienza di non-culto, di una pseudo- liturgia. In realtà il vero culto al Padre in Spirito e verità diventa il richiamo più forte e più vero proprio in vista di un più adeguato impegno nella vita. La preghiera stessa, presentata da alcuni come un inutile strascico, come una fuga dal reale, diventa un continuo richiamo alla trascendenza dell'uomo. Non è possibile negare questa dimensione verticale, pena il privare la persona di una sua componente

essenziale: la religio è una di queste componenti, e dal momento che esiste, non può non esprimersi. «Si tratta, infatti, di bisogni terribilmente importanti e di bisogni che la cultura secolare suscita anziché soddisfare».9

Per questo «l’umanità non diventerà mai completamente areligiosa o post- religiosa: se ciò avvenisse, non sarebbe solo la fine della religione, ma anche la fine dell’uomo. L’uomo, infatti, che non si ponesse più i grandi problemi del senso della vita e della morte, del senso del dolore e del peccato, del significato della storia umana e del destino dell'uomo e del mondo, non sarebbe più uomo».10 Di qui allora

l'apertura non solo a quel mondo di segni e di simboli che caratterizza uno degli aspetti della religio, ma anche a tutte le altre forme espressive di religio che siamo soliti etichettare con il termine religiosità, e che si esprimono nelle tante forme della

pietas popularis.11

Come è possibile rapportare un giusto riconoscimento e promozione dell'autonomia propria dell'ordine temporale, con la dimensione soprannaturale? e come rivivere nella fede questo rapporto? L'attenzione ai valori delle realtà di questo mondo e del loro ruolo effettivo può scaturire da una più profonda assiduità con la Scrittura. Da un legame vitale tra Bibbia, Liturgia e cultura sarà sempre più possibile operare quel giusto apprezzamento dei valori propri della città secolare. Ciò comporta una rinnovata attenzione sia al linguaggio da valorizzare nell'annuncio del messaggio cristiano, sia alla complessa competenza che è richiesta agli operatori pastorali perché attraverso il loro ministero si realizzi quella comunicazione così unica tra Dio e il suo popolo quale si attua nell’azione liturgica. 2.2. La risposta solo in un linguaggio liturgico più adeguato?

È tipica del nostro tempo la problematica del linguaggio; nella sua immediatezza il linguaggio liturgico provoca l'uomo secolarizzato a confrontarsi con espressioni di fede che non intendono mettere in discussione l'autonomia delle realtà di questo mondo, ma che richiamano impegno ad agire nella storia.

Sorge pertanto l’interrogativo: come evitare che il culto appaia come qualcosa di alienante nei riguardi della responsabilità dell'uomo nella costruzione della storia? L'urgenza di porre “segni della fede” adeguati, appare come problema sempre aperto nelle più diverse espressioni liturgiche della comunità cristiana. Ed è doveroso domandarsi ancora: che cosa percepisce l'uomo contemporaneo di certi simboli, di

9 L. GILKEY,Secolarizzazione, in Enciclopedia del Novecento, Ed. Enciclopedia Italiana, vol. VI, Roma 1982, p.427. «Come sono comparsi culti per riempire il vuoto della vita personale creato da una società industriale urbana, così sono comparse le ideologie per riempire il vuoto lasciato nella vita pubblica dall’arretramento delle religioni tradizionali. Ogni cultura abbisogna di saldi e radicati fondamenti spirituali: un senso profondo di ciò che è reale, di ciò che è vero, di ciò che ha valore» (ibidem, 428).

10 G.DE ROSA,o.c., 228.

11 Cf CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Lev, Città del Vaticano 2002.

gesti non usuali, della permanenza in luoghi sacri, dell'uso di oggetti particolari? per quale motivo si richiedono riti propri e fissi, luoghi e cose “sacri” perché il culto raggiunga il suo obiettivo?

Bisogna prendere atto che con la riforma liturgica voluta dal Vaticano II si è compiuto un lavoro di reinterpretazione e soprattutto di traduzione del linguaggio (= parole e segni, verbale e non verbale) utilizzato nella liturgia, per far vivere con maggior consapevolezza agli uomini del nostro tempo l'incontro con Cristo nei suoi misteri. Non si tratta più di far riferimento a traduzioni dal latino alla lingua parlata, quanto dell'impegno di tradurre il contenuto eucologico della tradizione secondo le categorie dell’uomo contemporaneo, e insieme della capacità di elaborare riti e testi, frutto della tradizione orante e creativa della Chiesa del nostro tempo. Ma come è possibile realizzare questo?

– Bibbia e liturgia: punto di passaggio obbligato. Essenziale punto di riferimento è la Scrittura, perché la parola di Dio, rivelata e annunciata, diventa viva ed efficace nella

celebrazione; non solo, ma dà valore e contenuto a tutte le forme espressive della celebrazione stessa. È la parola di Dio che fa del rito sacramentale un segno di salvezza. Di conseguenza, il ritorno ad una conoscenza più sapienziale della Scrittura rimane la prima e più efficace risposta alla tentazione di un culto vuoto, alienante. Inoltre indica l'unica via di soluzione in ordine al problema del linguaggio. Questo infatti risulta adeguato alla sua funzione quando possiede una forte capacità espressiva e comunicativa del mistero di cui è segno; un sufficiente grado di comprensione; e una notevole efficacia di coinvolgimento a livello personale e comunitario.

Il problema del linguaggio liturgico è essenzialmente legato alla poca familiarità con il linguaggio biblico. Nonostante la grande presenza della Parola di Dio nella vita della Chiesa, l'operatore constata quanto cammino resti ancora da percorrere perché tale Parola sia ancora di più "parola" per questa particolare assemblea. Il Lezionario, i Catechismi, l'opera dell'Apostolato biblico, le scuole di preghiera, la lectio divina... sono tutte occasioni per continuare a fare esperienza di quel linguaggio simbolico entro cui è racchiuso il parametro dell'intera (e di ciascuna) vicenda e realtà umana.

Sollecitata dalle interpellanze della secolarizzazione, la comunità ecclesiale è chiamata a ri-significare i simboli a partire dalla Bibbia valorizzando tutta la loro innata forza pedagogica e psicologica (oltre che antropologica e biblica). Il percorso da affrontare è quello di muoversi secondo una metodologia che educhi con i simboli iniziando dalla ritualità più ordinaria della vita. Il simbolico non è come il "virtuale"; la sua funzione è quella di far sperimentare una dimensione reale (l’evento di salvezza) attraverso i segni di quell'interlingua qual è appunto la liturgia vista come opera divina e umana. In questa linea qualunque simbolismo liturgico non potrà mai discostarsi da quello biblico che, a sua volta, rispecchia la parabola della vita orientata verso la sua sorgente.

– La “cultura” della comunità di fede, criterio ermeneutico. Ulteriore punto di

riferimento è la comunità di fede, che vive in un particolare contesto culturale e spesso si trova a doversi confrontare con altri fattori culturali. Nel contempo l’assemblea è il locus in cui la comunicazione divino-umana e umano-divina avviene. Di conseguenza il problema potrà trovare la sua soluzione solo in una visuale più oggettiva della celebrazione, in cui questa comunicazione ascendente, discendente e orizzontale si deve attuare. È questo un dato di fatto che deve necessariamente portare all’acquisizione di un linguaggio costituito da formule e gesti. Tutto questo perché la celebrazione non sia la risultante di ciò che è scritto nel libro, ma l'espressione della comunità che nella celebrazione stessa rivive la propria fede, la manifesta e la attua.

«Se non si crea un nuovo linguaggio liturgico, la liturgia resterà sempre e solo un abito di festa, che... può avere anche forme e colori esotici, che fanno colore, ma non esprimono chi li indossa. Soprattutto, sarebbe il segno che la nostra teologia non ha ripensato la rivelazione come cosa viva, come annuncio di presenza, e che la realtà eterna della storia della salvezza non si è temporalizzata in un linguaggio che la incarni nel nostro momento, e che quindi ha cessato di essere storia per restare solo racconto di una storia fatto in termini e toni di altri tempi».12

Quanto espresso molti anni fa è il segno di attese che in buona parte sono state colmate. Resta sempre attuale l’impegno di educare al linguaggio liturgico facendo comprendere la matrice essenzialmente biblica che lo pervade. Entrare nella complessità di questi linguaggi costituisce il segreto anche per il superamento del ritualismo: tentazione sempre riemergente nella storia delle comunità ecclesiali quando dimenticano che la liturgia non è il rito, ma Gesù Cristo presente e operante nei santi misteri.

Una certa concezione magica e meccanica dell’incontro dell’uomo con Dio mediante la celebrazione ha fatto sì che si stendesse un velo di sacralità che, invece di aprire alla contemplazione del mistero, ne ha offuscato la realtà. Per questo l’impegno dell’adattamento e dell’inculturazione del Vangelo e della liturgia, unitamente all’educazione al linguaggio liturgico, costituisce la migliore risposta alla sfida posta dai “derivati” della secolarizzazione.

3. Prospettive

Si tratta ora di approfondire questa realtà: come attuare le prospettive di cui sopra all'interno della liturgia? In un mondo manipolato dalla scienza e dalla tecnica, che significato può avere la fede in Dio e la preghiera? In che senso si può parlare di tempo sacro, di persona sacra, di luogo o di oggetto sacro?

Un sommario esame porta a concludere che il processo di secolarizzazione opera sì una certa desacralizzazione, ma di un falso sacro; una desacralizzazione che coinvolge la dimensione tempo, luoghi, realtà, persone non per svuotarla della sua

consistenza, ma per restituirle la giusta e genuina dimensione sacrale, e dunque in definitiva per purificare la fede.

3.1. “Realtà e oggetti” secolarizzati?

La Bibbia ci offre una visione del mondo come realtà dipendente da Dio e affidata all'uomo. La dipendenza da Dio richiama la trascendenza di lui rispetto alle singole realtà, ma evidenzia pure la consistenza di queste ultime e la loro relatività rispetto al progetto di Dio affidato all'inventività e creatività dell'uomo: è l'uomo infatti che domina le cose, dà il nome agli animali... (cf Gn 1,28-30; 2,19-20). Su questa linea si può affermare che il mondo non è sacro in se stesso, ma può esserlo quando per l’uomo diventa segno dell’opera del Creatore, o dall'uomo stesso è scelto come mezzo per comunicare con il soprannaturale.

L'ottica in cui si pone la liturgia di fronte al valore intrinseco sacrale degli oggetti è molto chiara. Essa prende forma da un’affermazione che troviamo nella preghiera eucaristica IV, là dove il discorso storico-salvifico è assunto come parte integrante del rendimento di grazie della comunità:

«Tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore, a tua immagine hai formato l’uomo, alle sue mani operose hai affidato l’universo, perché nell’obbedienza a te, suo Creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato».

La stessa prospettiva, più attualizzata, la troviamo nelle collette della messa «per la santificazione del lavoro»: Dio Padre è riconosciuto e invocato come colui che chiama «gli uomini a cooperare, mediante il lavoro quotidiano, al disegno immenso della... creazione»; come colui che ha «sottomesso al lavoro dell’uomo le immense risorse del cosmo» perché l’uomo sia un degno collaboratore «al progetto della creazione», e cooperi «giorno per giorno alla redenzione del Cristo salvatore».

Le realtà create da Dio sono affidate all’uomo perché questi se ne serva come segno e strumento nella cooperazione alla realizzazione del progetto stesso di Dio. Esse non sono il fine, ma solo il mezzo. Ecco perché la Chiesa nella sua storia, soprattutto dal medioevo in poi, ha “sacralizzato” tutte le realtà creando una serie infinita di benedizioni per gli oggetti (cf Rituale e Benedizionale), perché il loro uso ricordasse all’uomo la loro effettiva finalità. L’accento dunque si pone non tanto sull’oggetto in sé (come tale non è né sacro né profano) quanto sul rapporto che si stabilisce tra l’oggetto e l’utente. È questo rapporto che mette in luce il carattere di

sacralità delle cose, ma evidenzia pure il loro ridimensionamento o

desacralizzazione; lo ricorda con forza l'orazione dopo la comunione della II domenica di avvento: «insegnaci... a valutare con sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo». È la linea orante che emerge dalla maggior parte delle orazioni dopo la comunione.

Se prescindiamo dalla storia delle religioni e concentriamo l'attenzione sulla esperienza del popolo di Israele, a proposito del luogo sacro troviamo una progressiva evoluzione che va dalla tenda-tabernacolo come luogo di incontro tra Dio e il suo popolo (cf Es 3), all'arca dell'alleanza, luogo della presenza di Dio, al santuario e successivamente al tempio, luogo dell'incontro tra Dio e il suo popolo: per questo considerati “luoghi sacri”.

La venuta del Cristo darà compimento a questi luoghi-segni relativizzandoli e inglobandoli nel segno-realtà del suo corpo: con l'incarnazione del Figlio, Dio è venuto ad abitare in mezzo al suo popolo; non solo, ma sarà proprio il corpo di Cristo il nuovo e definitivo tempio in cui Dio si incontrerà con il suo popolo e il popolo potrà continuare a comunicare con il proprio Dio.

In contesto cristiano non ha più senso parlare di “luogo sacro”, perché la sacralità del luogo non dipende da coordinate spazio-temporali, ma dalla santità delle persone che si riuniscono nel nome del Signore: queste sono le pietre vive che formano l'edificio spirituale che è la Chiesa santa del Dio vivente (cf 1Pt 2,5; Ef 2,19-22; Eb 8,1); ed è per questo che «i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità» (Gv 4,23).

Se prescindiamo dal rito della Dedicazione della chiesa e dell'altare,13 il Messale

Romano, nella messa rituale «per la dedicazione della chiesa», richiama l'attenzione sulla chiesa edificio per sottolinearne la finalizzazione alla comunità, con queste espressioni:

«... il popolo, che si raduna in questo luogo a te consacrato per celebrare i tuoi misteri, ottenga i benefici della salvezza»;14

«... la comunità che si raduna in questa santa dimora possa offrirti un servizio degno e irreprensibile e ottenga pienamente i frutti della redenzione»;15

«Tu ci hai dato la gioia di costruirti fra le nostre case una dimora, dove continui a colmare di favori la tua famiglia pellegrina sulla terra e ci offri il segno e lo strumento della nostra unione con te. In questo luogo santo... tu ci edifichi come tempio vivo» perché «la tua chiesa... raggiunga la sua pienezza nella... santa Gerusalemme».16

Il richiamo dunque alla funzionalità e alla significatività del tempio, del luogo sacro per eccellenza, ricorda che «i templi fanno da contrappeso, nella nostra vita quotidiana, alla preponderanza dell’immediato o, se si vuole, del profano che tende a staccarsi dalla nostra relazione col valore ultimo... ricoprendolo e nascondendolo sotto la pesante coltre di polvere delle cose quotidiane. Quello che interessa è avere chiese che, senza separarsi dalla vita quotidiana, si aprano nel mezzo di essa e

13 PONTIFICALE ROMANO, Benedizione degli oli e Dedicazione della chiesa e dell’altare [Conferenza Episcopale Italiana], Lev, Città del Vaticano 1980.

14 Messale Romano [Conferenza Episcopale Italiana], Lev, Città del Vaticano 21983, p. 765: orazione sulle offerte.

15 Ibidem, Comune della dedicazione della chiesa, p. 645: colletta. 16 Ibidem, p. 646: prefazio.

irradino, attraverso i loro simboli, i valori ultimi ancorati alle espressioni limitate della nostra esistenza».17

3.3. “Tempi” secolarizzati?

Per il cristiano il tempo è la realtà entro cui si attua la salvezza: la categoria di cui Dio si serve per rivelarsi ad extra. La comunità cristiana rinnova questa fede all'inizio della veglia pasquale nel rito della «preparazione del cero»:

«Il Cristo ieri e oggi. Principio e fine. Alfa e Omega. A lui appartengono il tempo e i secoli. A lui la gloria e il potere per tutti i secoli in eterno. Amen».18

In questa professione di fede nella regalità di Cristo, l'assemblea riconosce che il tempo non le appartiene, ma lo vive come mezzo per conseguire l'Omega, per comunicare con tutto il mistero di Cristo distribuito nel corso dell'anno, dall'incarnazione alla pentecoste e all'attesa del ritorno del Signore (cf SC 102).

Nel rito sembra doversi vedere la cristallizzazione di quella sacralità che accompagna la dimensione tempo presso tutte le religioni e le culture, e che trova nel

calendario una organica espressione e significato.19 Per il cristiano ciò che dà

significato alla dimensione tempo non è tanto l'alternarsi dei giorni, dei mesi, delle stagioni quanto la certezza che l'opus redemptionis è concretamente vissuto proprio all'interno di tale ciclo naturale, dove gli elementi sole e luce sono assunti come segni di Gesù Cristo, «sole di giustizia», «luce che non conosce tramonto».

Nel contesto non meraviglia dunque il fatto che per il cristiano l'anno liturgico ruoti attorno alla pasqua di Cristo: è da questo evento annualmente riproposto che acquista valore e significato la successione delle “stagioni” che la Chiesa chiama

tempi liturgici, o «ciclo dei tempi, delle solennità e delle feste, attraverso cui si svolge e

si celebra il mistero della redenzione nell’anno liturgico».20

È alla luce della realtà della pasqua che l'eventuale tentazione di sacralizzare il tempo viene ridimensionata: questo rimane solo il mezzo, non il fine, come ricorda Paolo quando scrive ai Colossesi: «Nessuno vi giudichi quanto al mangiare o al bere o rispetto a feste annuali o a noviluni o sabati, che sono ombra di cose che dovranno venire; ma la realtà è il corpo di Cristo» (2,16-17). Se questo è il nucleo di tutto, non ha più senso ritenere più o meno sacro un giorno al posto di un altro. «Per il cristiano, è festa... non un giorno particolare della settimana, ma tutta la sua vita inaugurata dall’evento pasquale, poiché tutta la vita è un’offerta e una possibilità di dono salvifico». Pertanto la domenica cristiana non è il battesimo del sabato

17 L. MALDONADO,Secolarizzazione della liturgia, Paoline, Roma 1972, p. 382. 18 Messale Romano..., o.c., p. 163, n. 11.

19 Cf A.DI NOLA, Calendario, in Enciclopedia delle Religioni, vol. I, Vallecchi, Firenze 1970, pp. 1435- 1441.

20 Messale Romano..., o.c., Norme generali per l’ordinamento dell’anno liturgico e del calendario, n. 50a, p. LVII.

giudaico: «Quello che sostituisce il sabato, o meglio, quello che il sabato significava, non è un giorno, bensì tutto il tempo nuovo che nasce e trascorre post Christum».21

Nel documento Dispensa 2016-17 (pagine 40-50)

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