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Dall’esperienza del linguaggio biblico al suo prolungamento nella liturgia Il termine latino beatus cerca di esprimere il senso del greco makários che – usato

Nel documento Dispensa 2016-17 (pagine 168-172)

«CALICE DELLA BENEDIZIONE»

1. Dall’esperienza del linguaggio biblico al suo prolungamento nella liturgia Il termine latino beatus cerca di esprimere il senso del greco makários che – usato

già da Pindaro nella grecità classica – significa “essere libero dalle cure e preoccupazioni quotidiane”; ritrovarsi nella condizione degli dèi e di coloro che partecipano a quella felice esistenza. Verso il sec. IV a. C. il significato originario sembra sbiadirsi tanto che il termine viene ad indicare solo una persona “felice”.

Nel linguaggio dei LXX il termine è contrassegnato dal significato prevalente di “augurio di felicità” e di tutto ciò che è inerente alla “benedizione” ascendente e discendente, o che ne costituisce il frutto (prosperità, sapienza…), realizzando così un intreccio tra la felicità religiosa (dono della sapienza divina) e quella terrena (frutto dei doni del Creatore).

Da questo quadro di riferimento – qui ridotto ad un’estrema sintesi – si comprende il passaggio dal greco dei LXX al latino della Vulgata. Nell’AT il termine

ai Salmi. Nel NT le occorrenze sono 82; di queste 31 appartengono ai Vangeli, in particolare al discorso della montagna (Mt 5, 1-12, e Lc 6, 20-23) da dove scaturisce «la promessa di un futuro che porta con sé il mutamento radicale del presente».

Per il termine beatitudo nella Vulgata la presenza è estremamente ridotta a quattro testi, di cui solo uno nell’AT:

1 Gn 30,13: «Dixitque Lia: Hoc pro beatitudine mea: Beatam quippe me dicent mulieres…»;

2 Rm 4,6: «Sicut et David dicit beatitudinem hominis, cui Deus accepto fert iustitiam sine operibus»;

3 Rm 4,9: «Beatitudo ergo haec in circumcisione tantum manet, an etiam in praeputio?»; 4 Gal 4,15: «Ubi est ergo beatitudo vestra? Testimonium enim perhibeo vobis…».

È sulla lunghezza d’onda del linguaggio biblico che si è sviluppato quello liturgico. Il significato unitario del termine beatus-beatitudo – pur nella polivalenza di variegate sfumature – ha fatto sì che la liturgia valorizzasse in modo esponenziale soprattutto il termine beatus.

Con l’aiuto della concordanza verbale è possibile constatare l’uso dei due termini almeno nell’editio typica tertia del Missale Romanum. Per un panorama completo circa l’uso nella liturgia bisognerebbe esaminare tutti i libri liturgici, compresa la Liturgia delle

Ore e il Martirologio dove si narra, si canta e si invoca la piena beatifica realizzazione

della santità.

A differenza di beatitudo, presente solo 21 volte, il termine beatus ricorre ben 538 volte, nella sue varie forme (al superlativo una volta beatissimus e otto volte beatissima). La statistica pone in evidenza lo status dei santi – a cominciare dalla Beata Vergine Maria – che hanno raggiunto la pienezza della santità e quindi vivono perennemente felici – è il significato originario del termine – e per questo possono intercedere per i fratelli in cammino mentre adorano la Trinità Ss.ma con il loro eterno cantico di lode.

Quale “lettura” è possibile realizzare da questo uso? Sarebbe interessante esaminare le occorrenze del MR e vederne le variegate sfumature. In questo ambito però per rispondere alle attese indicate nel titolo, è necessario continuare la riflessione in prospettiva di teologia liturgica, per cogliere il rapporto – al di là dei termini – tra l’esperienza liturgica e ciò che essa realizza: la beatitudine.

Dall’esperienza spirituale alla vita mistica per una beatitudine senza tramonto: ecco la sfida che l’esperienza liturgica della Chiesa continuamente ripropone e a cui costantemente il fedele deve fare riferimento se vuol vivere beato e conseguire la

beatitudine eterna.

Con l'avvenimento del Concilio Ecumenico Vaticano II si è aperto un ulteriore capitolo nell’esperienza liturgica del fedele. Esso viene ad aggiungersi a quanto è andato maturando nell'arco di venti secoli, a partire dalle prime forti ed essenziali

diversificate che la storia della liturgia, della spiritualità e della mistica sottopongono all'attenzione del credente e lo interpellano nella sua ricerca di assoluto.

L'evento “spirituale” del Vaticano II segna una tappa miliare di questo fiume maestoso di esperienza cristiana che parte comunque e sempre dall'evento liturgico della celebrazione per ritornare continuamente a tale locus dell'esperienza di Dio e con Dio dopo aver attraversato il vissuto per trasformarlo in perenne beatitudo. Il titolo di un prezioso contributo di L. Bouyer, Dal mistero alla mistica, non è solo un'intuizione recente, ma la puntualizzazione di un dato di fatto nella vita cristiana: la mistica costituisce il vertice di quell'esperienza beatifica del mistero che parte dalla vita, s'incontra con esso nella celebrazione, per ritornare ad una vita sempre più misterica, cioè all'insegna di quella logica delle beatitudini proclamate in tante forme nella Bibbia.

Il punto essenziale è determinato dall'esperienza personale e comunitaria del mistero del Cristo, perché in lui «Dio non solo parla all'uomo, ma lo cerca»; parallelamente è attraverso di lui che l'uomo ricerca e incontra Dio nel suo mistero trinitario. Questa esperienza, che diventa soglia obbligatoria per un incontro interpersonale con il mistero di Dio – pienezza di ogni beatitudine –, il cristiano la inizia, la continua, la sviluppa e la compie nel contesto proprio del sacramento. È possibile, pertanto – anzi per vari aspetti è “doveroso” – accostare i sacramenti come

locus imprescindibile per la realizzazione di una mistica cristiana che è perfetta

beatitudine.

2. «Per celebrare i santi misteri...»: l’inizio di una esperienza beatifica

Una delle prime frasi che il fedele raccoglie all'inizio di ogni celebrazione memoriale della Pasqua nell'eucaristia è: «Per celebrare i santi misteri...». L'espressione dà l'avvio ad una esperienza trinitaria unica nel suo genere, che rinvia a quanto ha annunciato Paolo quando tratta dell'«adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio» (Ef 3,9). Non è solo un mistero "rivelato". Cristo stesso lo ha portato a compimento nella sua Pasqua, e lo ha affidato alla sua Chiesa come una realtà da prolungare, attualizzandolo, attraverso la celebrazione: «Fate questo in memoria di me» (1 Cor 11,24.25) e culminante nella beatitudine-invito: «Beati gli invitati alla Cena del Signore» che risuona in ogni eucaristia, e la cui risposta è il segno concreto di compimento del sacrificio nella vita del fedele.

Da quell'Ultima Cena, ritualizzazione del mistero che sarebbe stato compiuto sulla Croce, la Chiesa ha iniziato a prolungare in ogni tempo e luogo l'evento unico e irripetibile che dà senso al mistero pasquale, anzi che ne costituisce l'essenza, annunciandolo e celebrandolo perché sia vissuto in progressiva pienezza fino all’eskaton.

2.1. Un culto in Spirito e verità

Le esperienze religiose dell'uomo biblico sono senza dubbio complesse; esse rivelano un cammino di progressiva educazione ad un rapporto con il Dio che si è fatto storia nella storia di un determinato popolo. È un cammino esperienziale quello che viene delineandosi lungo l'ampio arco di vicende umano-divine raccontate nell'AT; un'esperienza in cui la "conoscenza" si attua e si manifesta anche nelle forme cultuali.

Ma è proprio osservando la reazione dei profeti di fronte alle "vuote" forme cultuali (ritualismo) che si percepisce la progressiva precisazione del senso del culto visto come esperienza religiosa integrale. Il culto non ha senso se non è garantito e accompagnato da scelte di vita personali e di gruppo improntate alle più diverse forme di giustizia. L'indice non è puntato contro il linguaggio rituale sic et simpliciter, ma contro un linguaggio che non ritualizza scelte di vita perché queste mancano.

La rivelazione, in tal modo, elabora e conferma una vera rivoluzione sacrificale. Il sacrificio – cruento o incruento – acquisterà il suo ruolo di sacrum facere, cioè di riportare alla santità della sua prima origine quello che di più prezioso ha l'uomo (la sua vita), quando non sarà un gesto vuoto o automatico, ma un segno reale di una vita

realmente vissuta nell'ottica dell'alleanza che il rito formalizza come linguaggio che

annuncia e attua (performatività) in vista di una ricomposizione di tutte le realtà create nell’esperienza beatifica in seno alla Trinità Ss.ma.

L'esempio e l'insegnamento del Cristo costituiscono il termine ultimo di riferimento per vedere la dimensione cultuale come l'esperienza misterica essenziale di una relazione totalizzante – pur nella limitatezza del linguaggio simbolico – con il mistero di Dio che si è fatto storia per trasformare la storia dell’uomo in un luogo e in un tempo di salvezza.

2.2. Il culto della Chiesa

Fin dagli inizi, la Chiesa matura progressivamente – non senza inevitabili difficoltà e incertezze – nel superamento di una mentalità veterotestamentaria. La triade «fede - sacramenti - opere» viene a caratterizzare, in una prospettiva di sintesi, il superamento di ogni frammentazione. L'esperienza religiosa per il cristiano non sarà un momento tra i tanti della vita, ma il momento in cui scelte di fede e scelte di vita troveranno la loro sintesi e il loro inveramento.

L'ascolto di una Parola di salvezza avrà piena attuazione nella celebrazione dei «sacramenti della fede» e nella condotta di una vita morale improntata alla carità e alla giustizia, ispirata alla carità sacrificale del Cristo.

Partecipando alla pienezza del Cristo incontrato nei santi misteri, il fedele prende parte – pur in modi differenziati – al suo sacerdozio, ed è così costituito in tempio vivente di Dio, in popolo sacerdotale, in offerta gradita: si realizza in tal modo una

piena immedesimazione nella missione e nell'opera del Cristo sotto l'azione dello Spirito. Il culto del cristiano sarà pertanto un culto “spirituale” perché mosso e vivificato dallo Spirito, e tale da ricondurre ogni volontà e ogni realtà creata all'interno del progetto dell'alleanza.

Lo sviluppo successivo permette di constatare la pluriforme varietà con cui l'esperienza religiosa cristiana si è manifestata e condensata in particolari esperienze che, accanto ai sacramenti, hanno contribuito a diffondere, nel tessuto dei più diversi quotidiani, aspetti religiosi complementari ma comunque importanti ai fini di una celebrazione del «sacrificio spirituale» nella liturgia della vita.

Nel documento Dispensa 2016-17 (pagine 168-172)

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