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I beni di interesse pubblico privatizzati, privatizzabili o valorizzabil

O DELLE PROPRIETÀ “ SOTTO FALSO NOME ”

5. Terza macro-categoria: le autorizzazioni amministrative all’utilizzo di risorse pubbliche

5.2. I beni di interesse pubblico privatizzati, privatizzabili o valorizzabil

nell’ambito di una gestione di tipo strettamente privatistico e imprenditoriale

del 13 aprile 2011, con richiesta di maggiori informazioni al Ministero dello Sviluppo Economico). Nel mentre, si sta però già sviluppando un esteso contenzioso sul punto, a fronte dell’attuale interpretazione strettamente letterale data alla norma da parte del Ministero dello Sviluppo Economico che prevede l’assoggettamento alle nuove norme anche delle richieste di proroga di permesso o di concessione da rilasciarsi in base a permesso ottenuto con le vecchie norme; il che, come è evidente, equivale a negarne il rilascio (Cfr. Ricorso Tar Abruzzo, R.G 174/2011, Ricorso Tar Lazio 6 ottobre 2011, Petroceltic c. Ministero Sviluppo Economico e

Ministero dell‘Ambiente).

(311) Il divieto generalizzato di eseguire attività di esplorazione, ricerca e produzione di idrocarburi su una fascia di mare assai estesa (sostanzialmente in corrispondenza di tutta la costa nazionale, attesa la notevole quantità di siti costieri protetti, a vario titolo, sul territorio nazionale) appare infatti irragionevole, sproporzionato ed oggettivamente discriminatorio in relazione all’assoluta genericità dell’indefinito parametro di riferimento adottato dal legislatore (aree a qualsiasi titolo

protette) al fine di precludere l’esercizio delle attività minerarie in mare.

(312) In aggiunta, si osservi che il tema della ricerca e produzione di idrocarburi in mare investe necessariamente i profili dell’approvvigionamento energetico e della definizione della “politica

energetica nazionale” così come delineata nella legislazione di principio emanata in attuazione

dell’art. 117, co. 3, Cost. Al riguardo, occorre tenere presente che, i principi fondamentali e gli obiettivi generali della politica energetica del Paese includono, ai sensi dell’art. 1, co. 3, della l. 239/2004 (di riordino del settore energetico): “a) assicurare l‘economicità dell‘energia offerta ai

clienti finali e le condizioni di non discriminazione degli operatori nel territorio nazionale, anche al fine di promuovere la competitività del sistema economico del Paese nel contesto europeo e internazionale”; “e) perseguire il miglioramento della sostenibilità ambientale dell‘energia, anche in termini di uso razionale delle risorse territoriali, di tutela della salute e di rispetto degli impegni assunti a livello internazionale (…)”; “g) valorizzare le risorse nazionali di idrocarburi, favorendone la prospezione e l‘utilizzo con modalità compatibili con l‘ambiente”. In ottemperanza

al dovere di bilanciamento richiesto dalla disciplina costituzionale e euro-unitaria di riferimento, al momento di legiferare in materia di energia, il legislatore si è giustamente preoccupato di evidenziare l’imprescindibilità del necessario contemperamento tra le esigenze di tutela ambientale e quelle di sviluppo energetico, tra l’altro espressamente richiamando l’obiettivo di “valorizzare le

risorse nazionali di idrocarburi”. Allo stesso modo, al momento di attuare la delega per la

modifica del TUA, con l’approvazione del d.lgs. 128/2010 che ha introdotto il contestato art. 6, co. 17, il Governo avrebbe dovuto operare un ragionevole ed equilibrato bilanciamento, anche in ossequio ai principi di buon andamento, non contraddittorietà, proporzionalità, e non discriminazione, tra le esigenze di protezione dell’ambiente e quelle di esercizio dell’attività di produzione di idrocarburi che, in quanto essenziale ai fini della politica energetica nazionale, deve essere valutata anche in considerazione degli interessi generali che la stessa mira a perseguire.

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Si è detto che, nell’ambito delle nuove proprietà, accanto alle autorizzazioni amministrative, e nella stessa macro-categoria che si è individuata, un posto importante spetta a quei beni che pur conservando il vincolo di destinazione pubblico, perdono anche la struttura tipicamente pubblica del regime dell’appartenenza e si configurano quali beni venduti o vendibili ai privati o valorizzabili nell‘ambito di una gestione di tipo strettamente privatistico e imprenditoriale.

Questo nuovo regime riguarda un nucleo significativo di beni pubblici che negli ultimi anni sono stati oggetto di provvedimenti di privatizzazione(313), e tra questi molti beni del patrimonio immobiliare dello Stato(314). Per essi, come già accennato, si potrebbe utilizzare la definizione di beni di interesse pubblico privatizzati, privatizzabili o valorizzabili nell‘ambito di una gestione di tipo strettamente privatistico e imprenditoriale.

Per meglio apprezzare il rilievo che questa categoria sempre più va assumendo può essere utile compiere alcune specifiche considerazioni sui beni pubblici e sulla loro recente evoluzione. La Commissione Ministeriale per la

(313) In sintesi, a partire dagli anni Novanta (il d.l. 386/1991, il c.d. decreto privatizzazioni, autorizzava la Sogei ad individuare beni disponibili del patrimonio pubblico suscettibili di successiva alienazione), la disciplina del patrimonio pubblico ha subito importanti cambiamenti. Da una concezione statico-conservativa si è passati ad una concezione dinamico-produttiva (con d.lgs. 300/1999 è stata costituita l’Agenzia del Demanio per la valorizzazione, ricognizione, incremento della redditività, razionalizzazione, programmazione e monitoraggio degli interventi edilizi e vigilanza sul patrimonio immobiliare dello Stato). In particolare è stata prevista la possibilità di trasferire a soggetti organizzati in forma privata la proprietà di beni pubblici. La regola dell’incommerciabilità assoluta dei beni pubblici demaniali si è trasformata in

commerciabilità sottoposta a vincoli per tutelarne l'uso pubblico. Insomma, fino al 2001, la regola

del codice civile per cui i beni pubblici devono appartenere a enti pubblici subisce numerose eccezioni (per lo più contenute nelle singole manovre finanziarie). Si tratta però di casi specifici che lasciano presumere come il principio generale codicistico rimanga valido. Successivamente, a partire dal 2002 (con la creazione della Patrimonio dello Stato S.p.a.), questo tipo di norme assume contenuto più generale. Ciò induce a ritenere superato il legame tra bene pubblico ed ente pubblico.

(314) La Commissione d'indagine sul patrimonio immobiliare pubblico, istituita con D.P.C.M. 15 ottobre 1985 (conclusione lavori 15 ottobre 1987), ha valutato il patrimonio complessivo dello Stato (comprendendo terreni e fabbricati di demanio e patrimonio), al 1987, in 651.000 mld di lire (mancando però molti dati rilevanti, quali ospedali, università, immobili dell'Enel, terreni delle regioni, ecc.). L'indagine è la prima realizzata dall'unità d'Italia e le risultanze sono a tutt'oggi utilizzate come base informativa per valutare il patrimonio immobiliare attuale (nel 2002, il Ministero dell'Economia ha stimato il patrimonio pubblico in 805 mld di euro (319 per fabbricati e 486 per terreni): per giungere a questi valori si è proceduto a una rivalutazione dei dati forniti a suo tempo dalla Commissione Cassese). La Commissione si è, tra l'altro proposta due grandi "funzioni-obiettivo": a) acquisire le informazioni contenute nel nuovo catasto edilizio urbano (obiettivo perseguito nell'ambito di una ricerca coordinata dal CNR nel 1992); b) individuare: (i) i beni per i quali la gestione pubblica è necessaria; (ii) i beni da dare in concessione, ma a canoni redditizi; (iii) i beni da conferire a fondi di gestione a capitale misto per la loro collocazione sul mercato al fine di procurare entrate al Tesoro; (iv) immobili da trasferire ad enti pubblici in alternativa a trasferimenti monetari; (v) i beni di interesse storico e artistico da ristrutturare con finanziamenti pubblici, ma coinvolgendo anche capitali privati; (vi) i beni da vendere.

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Riforma dei ―beni pubblici‖, recentemente istituita presso il Ministero della Giustizia nel giugno 2007, e presieduta da Stefano Rodotà, prendendo atto del mutato contesto economico e sociale e di come le leggi speciali abbiano di fatto mutato seppure in maniera disorganica il relativo regime codicistico, proponeva di dividere i beni pubblici in categorie diverse a seconda delle esigenze che le loro utilità sono in grado di soddisfare (così evidenziando, dunque, che il criterio guida non è quello dell’appartenenza alla sfera della proprietà pubblica, bensì il fatto che tali beni esprimono una utilità pubblica non derogabile).

In una tale ottica, la Commissione, nella sua proposta finale, proponeva di “catalogare” i beni pubblici in: a) i beni ad appartenenza pubblica necessaria, che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali: “Vi rientrano fra gli altri: le opere destinate alla difesa, le spiagge e le rade; le reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze, gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale” (art. 1, comma 3, lett. d), n. 1) dello schema di disegno legge delega presentato dalla Commissione al Governo al termine del proprio lavoro); b) i beni pubblici sociali, le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare i bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona: “Vi rientrano fra gli altri: le case dell'edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali; gli istituti di istruzione e asili; le reti locali di pubblico servizio”; per essi è ammessa la circolazione, subordinata al mantenimento del vincolo di destinazione; la cessazione del vincolo di destinazione è subordinata alla condizione che gli enti pubblici titolari del potere di rimuoverlo assicurino il mantenimento o il miglioramento della qualità dei servizi sociali erogati (art. 1, comma 3, lett. d), n. 2) dello schema di disegno legge delega cit.); c) i beni pubblici fruttiferi, che sono residuali rispetto alle altre due categorie e si possono definire come beni privati in appartenenza pubblica cedibili o gestibili con strumenti di diritto privato; vi si può certamente ricomprendere il patrimonio immobiliare pubblico che non rientra nelle categorie sub a) e b) (art. 1, comma 3, lett. d), n. 3) dello schema di disegno legge delega cit.).

Ora, prendendo ad esame questa divisione, si può provare a immaginarne le conseguenze in caso di provvedimenti di privatizzazione o gestione secondo criteri privatistici. Per i beni pubblici fruttiferi che dovessero passare in proprietà a soggetti privati, nulla quaestio: il regime di appartenenza rimane quello della proprietà privata. Invece per i beni ricompresi nelle categorie sub a) e (soprattutto) b) che hanno perso o dovessero perdere la struttura tipicamente pubblica del regime dell’appartenenza e che, come accennato, si dovessero configurare quali beni venduti o vendibili ai privati o valorizzabili nell‘ambito di una gestione di tipo strettamente privatistico e imprenditoriale, si determinerebbe, e in alcuni casi si è determinato, un regime proprietario estremamente difforme da quello classico: in via generale, per essi è dato un forte vincolo di destinazione; i diritti

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trasferiti possono essere “pieni o parziali” (art. 7, comma 1, d.l. 63/2002); continua, secondo alcuni autori, seppure in via di fatto, o dovrebbe continuare, secondo altri, ad applicarsi una sorta di regime demaniale, ecc.

Un esempio può chiarire la questione e dare la misura delle problematiche di carattere proprietario che i processi di privatizzazione che si sono realizzati negli ultimi anni hanno finito con il determinare(315).

Il d.l. 63/2002, convertito nella l. 112/2002, con cui si costituisce la Patrimonio dello Stato S.p.a. per “valorizzare, gestire ed alienare il patrimonio dello Stato” (art. 7, comma 1), prevede che “alla Patrimonio dello Stato S.p.a. possono essere trasferiti diritti pieni o parziali su beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato, sui beni immobili facenti parte del demanio dello Stato e comunque sugli altri beni compresi nel conto generale del patrimonio dello Stato [...], ovvero ogni altro diritto costituito a favore dello Stato” (art. 7, comma 10).

Ora, nonostante sia fatto salvo, nominalmente, il regime di cui all’art. 823 c.c. (i.e., lo statuto di tali beni rimane quello demaniale), la possibile alienazione di beni che, proprio perché demaniali, dovrebbero essere sottratti a qualsiasi circolazione, ha fatto sorgere non poche perplessità in ordine al rischio che si determini (o si sia determinata) una “sdemanializzazione di fatto”.

Ad una prima lettura, sembrerebbe infatti sufficiente un decreto ministeriale per togliere a qualsiasi bene pubblico la qualifica della demanialità, producendo il passaggio a patrimonio disponibile. Ma se questa fosse l’unica interpretazione possibile dovrebbe fortemente dubitarsi della legittimità costituzionale di una tale disposizione; almeno per coloro secondo i quali l'art. 42 Cost., nella parte in cui dispone che “La proprietà è pubblica o privata”, non si deve leggere (solamente) nel senso che i beni possono appartenere a soggetti pubblici o privati, ma si deve leggere (anche) nel senso che deve essere assicurato un certo regime proprietario (pubblico) di taluni beni dello Stato e degli altri enti pubblici.

Un’opzione interpretativa possibile – per sciogliere l’apparente contraddizione di beni demaniali che vengono ceduti (e che non sarebbe possibile cedere) ma di cui viene fatto salvo (apparentemente) il regime demaniale – potrebbe essere, si è detto(316), di distinguere tra le diverse attività rientranti nell’oggetto sociale di Patrimonio S.p.A.

La Patrimonio S.p.A., come si è visto, è istituita non solo per l’“alienazione” ma anche per la “gestione” e “valorizzazione” del patrimonio dello Stato. Pertanto, una interpretazione costituzionalmente orientata potrebbe essere che il trasferimento di beni demaniali sarà finalizzato non ad un ulteriore

(315) Sul punto, cfr. G. NAPOLITANO, in La Patrimonio dello Stato S.p.A. tra passato e futuro:

verso la scomposizione del regime demaniale e la gestione privata dei beni pubblici?, in Riv. Dir. Civ., 2004, pp. 50 ss.

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trasferimento – in ipotesi a Infrastrutture S.p.A., ché si porrebbe in contrasto con il regime suddetto – ma alla esclusiva “gestione” e “valorizzazione” di tali beni.

Peraltro, un approccio totalmente diverso potrebbe poi essere adottato se si muovesse da una diversa lettura dell’art. 42 Cost. Infatti, se si parte dall’assunto (contrario rispetto a quanto appena riportato) che tale norma mira “semplicemente” ad affermare la pari dignità della proprietà pubblica e di quella privata, operando un rinvio al legislatore ordinario per la definizione del contenuto della prima, “allora sarebbero possibili i modi più vari di organizzazione e regolazione della proprietà pubblica”(317). E in tale ottica, il conferimento di beni alla Patrimonio S.p.a. potrebbe semplicemente configurare un diverso modello di “organizzazione e regolazione della proprietà pubblica”(318).

Le due opzioni, in assenza di una lettura univoca dell’art. 42 Cost., sono entrambe sostenibili e, in ogni caso, a modesto parere di chi scrive, le differenze sembrano essere più di facciata che di vera sostanza. Nella prima ipotesi ci troveremmo infatti di fronte ad una proprietà privata soggetta a vincoli molto stretti. Addirittura più stretti rispetto ai tanti vincoli a cui naturaliter sono soggetti i nuovi beni (vincoli che peraltro, come si è visto, inducono una parte della dottrina, proprio per questo motivo, a propendere per la non assoggettabilità di tali beni agli istituti proprietari).

Nella seconda ipotesi, ci troveremmo di fronte ad una modalità assolutamente originale di organizzazione della proprietà pubblica, in base alla quale pressoché tutti i poteri di gestione sono conferiti (a tempo?) ad un soggetto privato mentre la titolarità (formale) rimane in capo al soggetto pubblico.

Se si volesse ricercare una soluzione la più possibile compatibile con la nostra tradizione giuridica, si dovrebbe forse optare per la prima di tali possibilità e valutare quali possano essere i limiti “legittimi” che si possono imporre allo statuto proprietario.

Un utile metro di paragone potrebbe essere rappresentato dalla disciplina dei c.d. “beni privati di interesse pubblico”, teorizzati da Sandulli(319), che ben rappresentano il caso di beni che incorporano un rilevante interesse pubblico ma il cui statuto è, almeno nominalmente, privato, seppure soggetto a limitazioni anche di rilievo per conciliarne appunto l'interesse pubblico.

Secondo Sandulli, i “beni privati di interesse pubblico” sono, a titolo di esempio: a) le “strade vicinali (…) di proprietà privata (…) vincolate all‘uso pubblico (art. 19, L. 20-3-1865, n. 2248, all. F, in relazione agli artt. 825 e 823 cod. civ.)”(320); b) le “autostrade e (…) strade ferrate di uso pubblico costruite e

(317)Ult. cit, p. 543. (318).Ibidem.

(319) A.M. SANDULLI, Spunti per lo studio dei beni privati di interesse pubblico, in Dir. Econ., 1956, 163-176.

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gestite da privati, in virtù di concessioni di costruzione ed esercizio (…)”(321); c) “gli aerodromi e gli impianti aeronautici privati”(322); d) “le cave e le torbiere di proprietà privata”(323); e) i “terreni d‘interesse idrogeologico, [ne]i boschi e [nel]le foreste privati”(324); f) “altri beni privati, nei quali la caratteristica di beni d‘interesse pubblico nel senso sopra delineato è di palese evidenza, sono quelli d‘interesse storico, artistico, archeologico, paletnologico, paleontologico, nonché le collezioni di oggetti d‘arte”(325); g) gli “archivi e i materiali archivistici privati di interesse storico particolarmente importante”(326); h) “quei beni immobili – naturali o artificiali – i quali costituiscono, o contribuiscono costituire, bellezze naturali, o singolarità geologiche, o quadri di non comune bellezza, o aspetti caratteristici aventi valore estetico e tradizionale, o quadri panoramici, nonché quei luoghi che costituiscono punti di vista accessibili al pubblico per il godimento di quadri panoramici”(327).

Per questi beni, “l‘essere di interesse pubblico, importando addirittura un particolare regime della cosa, diventa qualità di questa, così come lo è, per i beni demaniali e patrimoniali indisponibili, la qualità di cosa pubblica [n.d.r. Sandulli scrive questo saggio nel 1956; oggi, a fronte dei processi di privatizzazione di cui si è parlato, non è nemmeno più certo che i beni demaniali e patrimoniali indisponibili rechino in sé la qualità di “cosa pubblica”]”(328).

E, concretamente, tali beni, ciascuno in forma diversa, eppure perfettamente legittima, sono assoggettati a un particolare regime che implica, tra l'altro: vincoli di destinazione, vincoli di immodificabilità, vincoli di ammissione al godimento pubblico, diritti di prelazione da parte dell'Amministrazione, particolari regimi di polizia, di interventi e di tutela pubblica.

Non è forse sbagliato pensare che attingere a queste categorie di beni e, più in generale, a questo modello teorico, potrebbe offrire soluzioni già collaudate, suscettibili, in ipotesi, di prefigurare un “autorevole” modello di nuova proprietà per i beni pubblici che si vuole dare in gestione ai privati, in grado pur tuttavia di essere ricompreso all’interno della nozione costituzionale di proprietà privata.

Anche in questo caso, come è evidente, la conclusione è per una polisemia della nozione di proprietà. Che, assieme alle altre accennate nei paragrafi precedenti, andrà dunque verificata a livello costituzionale.

6. Quarta macro-categoria: i nuovi beni pubblici immateriali (321) Ibidem. (322) Ult.cit., 170. (323) Ibidem. (324) Ult.cit., 171. (325) Ult.cit., 172. (326) Ult.cit., 173. (327) Ult.cit., 174. (328) Ult.cit., 166.

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