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L’insoddisfacente interpretazione dell’art 810 c.c.

U NA STRADA PIÙ IN SALITA PER IL LORO RICONOSCIMENTO

2. L’insoddisfacente interpretazione dell’art 810 c.c.

Svolte queste premesse sulla “pluralità”, diciamo così, degli statuti proprietari, risulta ora necessario, definire (e quindi delimitare) ciò che invece, nel nostro sistema, può costituire oggetto di proprietà – vale a dire i beni – e verificare, per quanto qui interessa, se i nuovi beni possono rientrare in questa definizione.

Nel nostro ordinamento, secondo l’art. 810 c.c., “Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”.

Ma quali sono le “cose” di cui all’art. 810? Sono “le entità dotate del requisito della corporalità”? Oppure sono “tutte le entità immaginabili dal soggetto e diverse da lui”?(135)

Secondo Zencovich, la collazione delle norme del codice riferibili ai beni non potrebbe che portare ad accogliere la seconda definizione. E difatti: sono “beni” ai sensi del codice tutte le entità che costituiscono il patrimonio dell'assente (artt. 50 e 64 c.c.), del de cuius (artt. 456 e ss. c.c., e tra questi, a titolo di esempio, artt. 485, 487, 493, ecc.), o del minore (artt. 320 e ss. c.c.); sono “beni” quelli che costituiscono il patrimonio dell'impresa (art. 2555 c.c.); e, ancora, sono “beni” quelli che formano oggetto della garanzia patrimoniale generale (art. 2740 c.c.). È dunque evidente che negli esempi citati la nozione di “bene” può certamente ricomprendere situazioni giuridiche le più diverse, anche riferite ad entità non corporali.

Ma l'art 810 del codice costituisce il presupposto dell'art. 832. E accettare una definizione così ampia rischia di condurre alla possibilità di considerare diritti di proprietà anche altri diritti, fino a ricomprendere, in ipotesi gli stessi diritti di credito, con i conseguenti (irresoluti) problemi teorici di cui si è accennato(136).

Peraltro, la connotazione “fisicista” o “corporalista” da assegnare al termine cosa non è certamente una forzatura. Il progetto preliminare del codice civile forniva al riguardo la seguente, inequivoca, definizione: “Cose nel senso della legge sono tutti gli oggetti corporali o altre entità naturali sucettibili di

generali del diritto privato, vol. VI, in Principi e problemi del diritto privato, Padova, 2000, 3 ss.);

sulla molteplicità insita nel concetto di proprietà, tra i molti, si può invece fare riferimento a GROSSI (Un altro modo di possedere, Milano, 1977).

(135) ZENCOVICH, voce Cosa, cit., 1982, 440. (136) Ibidem.

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appropriazione o utilizzazione”(137). E dunque l'art. 810, almeno stando al significato (non vincolante) che gli volle attribuire il legislatore del tempo, andrebbe in effetti interpretato nel senso “fisicista”. Addirittura iper-fisicista se si considera che per il legislatore del 1942 il requisito della “corporalità”o “naturalità” non è da riservarsi agli oggetti di proprietà (ma a maggior ragione ne è caratteristica essenziale), bensì a tutti gli oggetti suscettibili di qualsiasi forma di “appropriazione o utilizzazione”.

In questa congerie di prospettive, la giurisprudenza, posta di fronte al dilemma se tentare di attribuire all'art. 810 un significato compiuto, con il rischio di determinare una serie di scompensi che si sarebbero riprodotti sull'intera struttura e lettura del codice o, viceversa, se conservare una “facile” coerenza sistematica del codice, privando però l'art. 810 del suo carattere di postulato generale e riducendolo a mera enunciazione di portata relativa e non prescrittiva, sembra non avere mai avuto dubbi nel percorrere questa seconda via. A testimonianza di una generale volontà di scansare il pericolo, vi sarebbe un uso pressoché nullo di questo articolo fatto dalle corti, e laddove utilizzato, si evincerebbe che manca qualsiasi riferimento a un filone di interpretazione costante, talché molte pronunce appaiono addirittura “casuali”(138), con l’unica rilevante eccezione dell’uniformità di posizione nell’attribuire natura di bene ai sensi dell’art. 810 c.c. alla quota di partecipazione in s.r.l.(139).

Da ultimo, e non meno importante, non esiste in dottrina una uniformità di vedute circa il significato da attribuire al termine cosa di cui all’art. 810; e, soprattutto, non esiste una teoria generale dei beni che abbia un sufficiente grado di condivisione per essere presa a modello(140).

(137) Cfr. ZENCOVICH, nota 42.

(138) A mero titolo di esempio: sono qualificati come beni immateriali, e come tali possono formare oggetto di diritti di proprietà “pur se atteggiantesi in maniera particolare rispetto al

tradizionale e più antico diritto di proprietà su cose materiali” (P. Trento, infra cit.): lo spazio o

l’etere (P. Trento, 17 maggio 1983, Giur. M., 1983, 1306); i brevetti (Cass. I, 7 novembre 1996, n. 9728); le banche dati (P. Roma, 14 dicembre 1989, Foro It., 1990, I, 2673); l’ambiente (Cass. III, 19 giugno 1996, n. 5650).

(139) Secondo la giurisprudenza, per orientamento ormai costante, “la quota di partecipazione in

una società a responsabilità limitata esprime una posizione contrattuale obiettivata [n.d.r. il

riferimento è, presumibilmente, all’autorevole posizione di Scozzafava] che va considerata come

bene immateriale equiparabile al bene mobile non iscritto in pubblico registro ai sensi dell‘art. 812 c.c.(…) giacché la quota, pur non configurandosi come bene materiale al pari dell‘azione, ha tuttavia un valore patrimoniale oggettivo, costituito dalla frazione del patrimonio che rappresenta, e va perciò configurata come oggetto unitario di diritti e non come un mero diritto di credito” (Cass. I, 26 maggio 2000, n. 6957, Giur. It., 2000, 2309; conf.: T. Messina, 10 gennaio

2006; limitatamente alla possibilità di promuovere atti esecutivi sul bene, cfr. Cass. III, 12 dicembre 1986, n. 7409; o ancora, sempre partendo dal presupposto che la quota è un bene e non un diritto di credito, in relazione all’efficacia del trasferimento, cfr. Cass. I, 23 gennaio 1997, n. 697, Giur. It., 1997, 720; e, infine, nel senso che anche le quote di società di persone rientrano nel novero dei beni, cfr. Cass. I, 30 gennaio 1997, n. 934, Giur. It., 1997, 2177).

(140) A questo proposito, scrive Gambaro che le riflessioni dei civilisti in tema di beni risentono in maniera determinante di una tendenza “neo-sistematica”, “che facoltizza ogni giurista che prenda

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Per utilizzare le parole di uno studioso “non sistematico” come De Nova, “l‘impressione è che la dottrina civilistica dei beni sia caratterizzata da gravi ritardi”(141).

Ora, poiché la disputa dottrinale, per lo più di matrice civilistica, esula dall’ambito della presente ricerca, ed è invece utile conoscere lo stato attuale del dibattito teorico per capire come le nuove proprietà che andremo ad esaminare possano essere inquadrate nell’ordinamento ed in che termini (i.e., se come beni o come un quid novi) i nuovi beni si debbano misurare con la nozione costituzionale di proprietà, l’approccio che si è scelto è stato quello di “registrare” le attuali tendenze maggioritarie, attraverso un excursus delle (quasi sempre diverse) nozioni di bene che si possono rinvenire nei principali manuali “istituzionali” (e che, a loro volta, sono frutto, in parte, delle elaborazioni degli stessi autori e, in parte, di un richiamo alle teoriche più note in tema di beni proposte negli ultimi decenni dagli studiosi).

Partendo dal manuale di Torrente e Schlesinger, si può leggere che “I concetti di «bene» e «cosa» sono spesso confusi”(142), e che “in senso giuridico «bene» è non tanto la res come tale, quanto il «diritto» sulla res, perché è questo che ha un valore in funzione della sua negoziabilità, tanto è vero che sulla medesima res possono concorrere più diritti (si pensi, ad es., alla nuda proprietà, all‘usufrutto, alla locazione e all‘ipoteca che possono concorrere su uno stesso fondo)”(143).

A una interpretazione che prevede la corrispondenza tra diritto e bene, dovrebbe però seguire la conclusione che la distinzione tra beni materiali e immateriali è “rinunciabile”. (I beni, che sono diritti, sarebbero “naturalmente” sempre immateriali).

E invece nel manuale di Torrente e Schlesinger, seppure premettendosi che ne sarebbe in dubbio l’“utilità pratica” (ma più che di utilità pratica si tratta di coerenza del sistema), la distinzione tra categorie di beni non è rinunciata; e la parola bene non è più utilizzata per designare il diritto, come era stato all’inizio della trattazione, ma qualifica ora l’oggetto del diritto, talché vengono considerati beni immateriali: “la «quota» di una società a responsabilità limitata”, gli “strumenti finanziari(…) per i quali la legge (…) impone la dematerializzazione”, i “dati personali”, il “contenuto delle banche dati”, fino alla conclusione che

cit., 45). E che le divergenze si accentuano al massimo livello quando si passa alla trattazione

monografica: “a questo livello l'originalità della visione e l'indipendenza di pensiero fanno

normalmente aggio sull'adesione ad una corrente di pensiero e ciò dispensa gli autori da ogni ricognizione di quelle concretamente riscontrabili in ciascun momento. Questa beata situazione di libertà si riscontra sia in opere monografiche sia in articoli di pura dottrina sia in parti di trattati e voci enciclopediche” (Ibidem).

(141) G. DE NOVA, I nuovi beni come categoria giuridica, in G. DE NOVA, B. INZITARI, G. TREMONTI,G.VISENTINI, Dalle res alle new properties, Milano, 1991, 12.

(142) A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 2007, 166. (143) Ult. cit., 167.

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“qualsiasi idea – anche se non coperta da privative – può, a certe condizioni, diventare un «bene»”(144).

Nulla si dice in ordine alla questione se i beni immateriali possano rientrare nell’ambito di operatività dell’art. 810.

È interessante notare che, sul fronte delle nuove proprietà, in base a questa impostazione, si potrebbe ad esempio sostenere, con Reich, che il diritto di esclusiva conferito al privato a mezzo della concessione amministrativa è un bene; che la risorsa pubblica data in concessione è la cosa sottostante; che tale bene concorre con un altro bene, che è il diritto di proprietà pubblica sulla medesima cosa; che entrambi i diritti hanno carattere di realità, realizzando ciascuno nel proprio ambito una forma di esclusiva; e che, conseguentemente, le utilità che derivano al privato possono ben essere tutelate secondo schemi di derivazione proprietaria.

Se passiamo ad altro autore, la prospettiva cambia però radicalmente. Secondo Gazzoni, non sono le cose ad essere oggetto di diritti (come recita l’art. 810) o i beni ad essere diritti (come sostiene Torrente), bensì “i beni sono oggetto di diritti”, derivandone che “Si è pertanto titolari non del bene ma del diritto sul bene. Consegue da ciò che la circolazione dei beni, dal punto di vista giuridico, è in realtà circolazione dei diritti, perché il bene segue solo la sorte del diritto, essendone oggetto”(145).

Quanto ai beni immateriali, essi “sono oggetto di un diritto assoluto e costituiscono un numerus clausus, essendo tali solo quelli tutelati erga omnes dalla legge. Rientrano in questa categoria i segni distintivi dell‘impresa, le opere dell‘ingegno e le invenzioni industriali (art. 2584), i modelli di utilità (art. 2592), i modelli e disegni ornamentali (art. 2593). Non vi rientra invece il c.d. Know- how”(146).

A parte la sensazione di disorientamento conseguente alla assoluta diversità dell’impostazioni di Torrente rispetto a quella di Gazzoni, nell’ottica di individuare punti di riferimento a cui ancorare i nuovi beni, si potrebbe opinare che l’approccio adottato da Gazzoni ha il pregio di definire in maniera coerente i beni immateriali e di porre in evidenza alcune questioni che si potrebbero definire “decisive”, di cui si discuterà ampiamente nel prosieguo della ricerca. In particolare, che tali beni, nel “sistema del codice” (rectius, nel sistema basato sull'art. 810 c.c.), sono solo e rigorosamente quelli stabiliti dalla legge (per lo più da leggi speciali); che per essi è previsto un diritto assoluto di esclusiva; e che in assenza di una specifica determinazione del legislatore, non è possibile modificarne il perimetro. Per i nuovi beni, la strada del loro riconoscimento sarebbe dunque in salita, ma se non altro ne appare chiaro il perimetro.

(144) Per Biondi, la pretesa che i beni siano al contempo gli oggetti tutelati e i diritti che li tutelano è, semplicemente, una “impossibilità logica” (Cosa corporale ed incorporale (diritto civile), in

Nss. Dig. It., IV, 1017).

(145) GAZZONI, Manuale di diritto privato, Firenze, 2000, 193. (146) Ult. cit., 197.

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Una prospettiva ancora diversa, questa volta più aderente alla lettera dell’art. 810, si può poi rinvenire nel manuale di Galgano. Secondo l’autore, “sono beni le «cose»”(147). Pertanto, “non ogni entità suscettibile di formare oggetto di diritti è, dunque, un bene, ma solo quelle entità che sono definibili come cose. Tali sono gli oggetti materiali o, secondo una più antica qualificazione, corporali, ossia le entità suscettibili di percezione sensibile”(148).

Conseguentemente, “Non sono beni in senso tecnico, perché non sono cose, i cosiddetti beni immateriali, quali le opere dell‘ingegno, le invenzioni industriali, i segni distintivi”(149).

Questa conclusione, prosegue l’autore, “non è frutto di una astratta deduzione dal concetto di cosa”; essa “emerge piuttosto, per l‘induzione dalla disciplina legislativa dei beni”; e infatti “Il concetto di bene quale cosa materiale delimita l‘ambito di applicazione delle norme che il terzo libro del codice civile dedica alla proprietà e agli altri diritti reali”(150).

Anche in questo caso, a differenza che in Torrente, si può perlomeno rilevare che il ragionamento svolto è coerente. Se però siamo alla ricerca di punti di riferimento, la conclusione non può che essere che una lettura così restrittiva lascia vuoti enormi. E infatti, ragionando secondo questa impostazione, non solo non possono essere annoverate tra i beni “le opere dell‘ingegno, le invenzioni industriali, i segni distintivi”, (e tantomeno lo potrebbero le concessioni e le licenze amministrative di cui si è detto sopra), ma nemmeno lo potrebbero essere, ad esempio, gli strumenti finanziari dematerializzati, che, dunque, in virtù del progresso tecnologico, perderebbero la possibilità di godere della tutela proprietaria(151)!

Cambiando ancora prospettiva, nel manuale di Trabucchi si può leggere che “il concetto di bene coincide(…) con una qualificazione giuridica di ciò che può formare oggetto di interesse umano”; dunque “esso deve sempre riferirsi a una cosa quale parte del mondo”; ma in questo senso cosa “non è soltanto ciò che forma parte del mondo esteriore e sensibile, ciò che occupa uno spazio o agisce sui sensi (le cose solide, liquide, aeriformi, e i fluidi o le energie come l'elettricità, sono tutte res corporales)”, ma anche “tutto ciò che ha vita unicamente nel mondo dello spirito, come la creazione inventiva e l‘idea dell‘opera artistica o tecnica (res incorporales, o beni immateriali)”(152).

(147) F. GALGANO, Diritto Civile e Commerciale, Vol. I, Le categorie generali. Le persone. La

proprietà, Padova, 1999, 324.

(148) Ibidem. (149) Ib. (150) Ib.

(151) In realtà, non sembra ci possano essere dubbi sul fatto della loro assoggettabilità alla disciplina proprietaria. Agli strumenti finanziari dematerializzati è dedicato un paragrafo specifico nel successivo Capitolo Terzo.

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Questa impostazione, rispetto alle precedenti, è quella che mostra maggiore apertura al recepimento nel nostro ordinamento, nell’ambito dei beni, delle nuove forme di ricchezza.

L’autore ha peraltro cura di specificare che per inquadrare correttamente “tutto ciò che ha vita unicamente nel mondo dello spirito”, in dottrina, si è anche utilizzata la locuzione di “cosa in senso giuridico”, e che il termine cosa andrebbe inteso sia in senso naturalistico sia in senso giuridico, e dunque nel suo significato più vasto di “quiddità oggettiva”.(153).

Rimangono comunque aperte almeno due questioni. Una di carattere teorico generale: e cioè come si possa conciliare questa ampia definizione con il carattere “fisicista” delle norme del libro terzo del codice civile. E una di carattere, diciamo così, particolare, relativa al fatto se si possano ricomprendere nella nozione di cosa in senso giuridico anche i diritti che sono oggetto di altri diritti, come avviene ad esempio nel pegno di crediti, la cui esistenza, a differenza delle opere dell’intelletto, non è tanto un atto dello spirito quanto un atto giuridico.

L’autore non chiarisce nessuno degli ultimi due aspetti accennati, cosicché, anche in questo caso, non è possibile chiudere con una parola di certezza.

Conclusivamente, si deve dunque prendere atto che assumendo come metro la prospettiva “istituzionale” non è possibile trarre alcuna indicazione definitiva di teoria dei beni e, soprattutto, per quanto interessa, non è possibile rinvenire una posizione dottrinale sufficientemente legittimata per sostenere in via di interpretazione l’esistenza all’interno del nostro ordinamento di una categoria dei beni immateriali.

La scelta che si è fatta è stata dunque di rinunciare a qualsiasi sistematica sui nuovi beni – ché appunto non esiste nella nostra dottrina, nel senso che nessuna delle teorizzazioni proposte può dirsi abbia avuto la forza di ergersi a modello – e, semplicemente, di osservare e misurare i nuovi beni “sul campo”, in base alla loro capacità di essere autonomamente considerati (in questo senso, dunque la “quiddità oggettiva”), e dunque di esprimere una relazione di esclusiva del soggetto che ne esercita l’appartenenza rispetto alla platea dei terzi.

Adottando una condotta prudente, si è ritenuto di dare per dimostrata questa “quiddità oggettiva” nei soli casi in cui, o l’utilità descritta goda di un riconoscimento normativo che ne profili, direttamente o indirettamente, un’utilizzo latu sensu esclusivo(154), ovvero presenti elementi di similitudine molto stretti con una utilità normata, tanto da potersi ritenere che ne costituisca

(153) Ult. cit., 528.

(154) E ciò per l’ovvia considerazione che un’utilità normata positivamente, per il solo fatto di esserlo, acquista una sua “quiddità oggettiva”, anche nell’ipotesi estrema in cui tale utilità non sia un’utilità che già esiste nel mondo delle cose e che venga solo riconosciuta dal diritto, ma sia da quest’ultimo addirittura creata, come è il caso del credito quando l’ordinamento consente che possa essere, ad esempio, oggetto di pegno.

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una specificazione (come vedremo nel prossimo capitolo, è questo il caso, ad esempio dei domain names non aziendali, formalmente privi di riconoscimento normativo, rispetto ai domain names aziendali, disciplinati invece, seppure in modo incompleto dal Codice della proprietà industriale).

Il prossimo capitolo sarà dunque dedicato a ricavare una “mappa” dei beni immateriali sulla base di questo minimo criterio di appartenenza.

Avremo così un quadro (certamente impreciso e incompleto, pur tuttavia – forse – esemplificativo), di quali sono i nuovi beni che, ad un tempo, potrebbero concorrere a formare la (nuova) nozione costituzionale di proprietà (nella prospettiva che la nozione costituzionale di proprietà è in parte anche rinvenibile dalle evoluzioni e mutamenti del sistema delle appartenenze come si vengono sviluppando dal contesto sociale) e che, allo stesso tempo, dovranno essere comparati, ricercandone le eventuali corrispondenze, a quei nuovi beni che, nell’ambito della tutela multilivello dei diritti, sono già reputati, ad esempio dalla giurisprudenza delle corti europee, essere parte integrante di una nozione “costituzionale” di proprietà.

3. Il “sistema del codice” e la proposta del “quasi” numerus clausus

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