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1.5 La Consolatio nella letteratura medievale prima di Dante

1.5.3.2 Bono Giambon

All‟ambito della trattatistica morale appartiene un altro letterato attivo nella seconda metà del XIII secolo, che a buon diritto merita di essere annoverato tra i principali imitatori del modello boeziano, il giudice fiorentino Bono Giamboni (la cui attività è documentata dal 1261 al 1292, autore di alcuni pregevoli rifacimenti in volgare di opere

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«Lasciata da parte l‟allegoria che informa tutta l‟operetta, nel lungo dialogo tra Melibeo e la moglie Prudenza, nei quali la savia donna comincia da‟ più facili lenimenti del dolore di lui per farglisi appresso vera maestra di morali virtù si rispecchia chiaramente la parola della Filosofia, sublime consolatrice del sapiente romano incarcerato da Teodorico» (MURARI, Dante e Boezio cit., p. 201).

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Dei trattati morali di Albertano da Brescia, volgarizzamento inedito fatto nel 1268 da ANDREA DA

GROSSETO, a cura di F.SELMI, Bologna, Romagnoli, 1873.

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Volgarizzamento dei trattati morali di Albertano giudice di Brescia da SOFFREDI DEL GRAZIA notaro pistojese fatto innanzi al 1278, a cura di S.CIAMPI, Firenze, L. Allegrini e Gio. Mazzoni, stampatori arcivescovili alla Croce rossa , 1832.

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latine e soprattutto della narrazione allegorica del Libro de‟ Vizî e delle Virtudi, che recano seppure in misura diversa tracce evidenti di un‟influenza generale della

Consolatio sulla produzione letteraria di Bono. Reminiscenze boeziane sono evidenti

nel trattato Della miseria dell‟uomo, rifacimento piuttosto libero della celeberrima trattazione De miseria humanae conditionis (meglio nota come De contemptu mundi, databile tra il 1191 ed il 1198) di Lotario di Segni (pontefice dal 1198 al 1216 col nome di Innocenzo III), che con accenti meno oscuri rispetto al modello si configura come un compendio pratico di norme morali desunte principalmente dalle opere di Boezio, Albertano da Brescia e Onorio d‟Autun276. Il debito verso l‟autore della Consolatio

appare sin dal Prologo, ove Bono descrive da un‟analoga specola autobiografica l‟«epifania» notturna di una voce che, destandolo dai turbamenti di una tenebra allegoricamente allusiva alla caligine dello spirito, gli rammenta proprio gli ammaestramenti di Boezio intorno alla miseria della condizione umana:

Pensando duramente sopra certe cose, laonde mi pareva in questo mondo dalla ventura essere gravato, sí s‟infiammava d‟ira e di mal talento spesse volte il cuore mio, e tutta la persona ne stava turbata: onde una notte, fortemente pensando, udii una boce, che mi chiamò, e disse: Che fai, Bono Giamboni? Di che pensi cotanto, e combatti te medesimo con tanti pensieri? Bene ti doverresti ricordare di quello che disse Boezio: Neuna cosa è misera all‟uomo, se non quanto egli pensa che misera gli sia; perché ogni ventura è a lui beata, secondamente ch‟egli in pace la porta. Se‟ tu forte di sí vano pensamento, che tu credi essere venuto nel mondo, e de‟ pericoli del mondo non sentire? Male dunque ti ricorda del detto di Boezio, che disse: Non fue unque niuno uomo sí bene apposto in questo mondo di ventura beata, che dello stato suo, per molti modi, non si potesse turbare.

Dopo avere rievocato l‟auctoritas di altre sentenze (sia classiche sia cristiane) opportune al caso di Bono, la voce si tace lasciando però intendere al protagonista di rappresentare la Sapienza, venuta in soccorso di lui allo scopo di consolarne gli affanni e di impartirgli gli ammaestramenti necessari a riscattarlo dalle tenebre nelle quali egli «pensando giacea doloroso»:

E nel partire che si fece la boce fui desto, e guarda‟mi d‟intorno e non viddi nulla. Allora mi segnai, e umilemente orai, e dissi: Boce di sapienza e di beatitudine, che a me per consolarmi se‟ venuta, dammi forza e vigore di trovare quello, onde tu m‟hai ammaestrato. E quando hei cosí detto, mi levai ritto in piede del tenebroso luogo, ove pensando giacea doloroso, e cominciai a cercare la Scrittura, e a vedere i detti de‟ Savi sopra la miseria della vita dell‟uomo. E quando hei assai cercato e veduto e diligentemente considerato, sí si mosse il cuore mio a pietade, e cominciai dirottamente a piagnere, pensando tanta miseria, quanta nella creatura dell‟uomo e della femmina avea trovata.

Se il richiamo esplicito alle sentenze boeziane nell‟esordio del prologo svela immediatamente la volontà dell‟autore di dichiarare la dipendenza delle proprie nozioni morali dalla lezione autorevole della Consolatio, il brano successivo estende i margini

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BONO GIAMBONI, Della miseria dell‟uomo. Giardino di consolazione. Introduzione alle virtú, aggiuntavi La scala dei claustrali, testi inediti, tranne il terzo trattato, pubblicati ed illustrati con note dal dottor F.TASSI, Firenze, Piatti, 1836.

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dell‟emulazione boeziana ai dettagli narrativi del racconto allegorico di Bono, al cospetto del quale il prosimetro tardoantico svolgeva evidentemente una influenza profonda non solo come utile compendio di sentenze morali ma anche come modello letterario efficacemente imitabile sia per i contenuti allegorici sia per la concezione stilistica277. Infatti sebbene qui non figuri l‟immagine sensibile di una Donna dai tratti simbolici assimilabili alla iconografia della Filosofia boeziana, la Voce invisibile della descrizione di Bono viene comunque rappresentata come una „figura‟ allegorica che, come la guida di Boezio, rappresenta la sapienza e la beatitudine (spirituale) e si è palesata al proprio allievo, il quale ne rivendica la benevolenza maturata da un antico apprendistato, con il duplice fine della consolazione e dell‟ammaestramento. Inoltre lo statuto stilistico del brano (che sostanzia l‟opera nella sua interezza, come viene

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La scena descritta nel prologo del trattato di Bono, se da un lato per svariati dettagli narrativi appare come un evidente calco della prosa iniziale della Consolatio, dall‟altro si presta ad un suggestivo raffronto testuale con un passo dantesco della Vita nova (XII, 1-3; 9) caratterizzato dal medesimo registro elegiaco, nel quale il protagonista, coincidente con l‟autore secondo la stessa specola autobiografica di Bono, descrive l‟interruzione del proprio sonno a causa di una improvvisa e surreale apparizione notturna: «Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d'amarissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la mia camera, là ov'io potea lamentarmi sanza essere udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo "Amore, aiuta lo tuo fedele", m'addormentai come un pargoletto battuto lagrimando. Avvenne quasi nel mezzo de lo mio dormire che me parve vedere ne la mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e pensando molto quanto a la vista sua, mi riguardava là ov'io giacea; e quando m'avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: "Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra". […] E dette queste parole, sì disparve, e lo mio sonno fue rotto» (Per il testo della Vita nuova mi avvalgo dell‟Edizione Nazionale della Società Dantesca Italiana, a cura di M. BARBI, Firenze, Bemporad, 1932). Le affinità più evidenti con i due passi di Bono presi in esame riguardano innanzitutto la connotazione elegiaca della situazione in cui versano i due protagonisti, rappresentati mediante scelte lessicali che afferiscono al medesimo codice stilistico; ma tratti comuni possono essere individuati anche nel particolare narrativo dell‟irruzione nella scena iniziale, dominata dalla solitaria lamentatio del protagonista, di una misteriosa apparizione (sia pure solo acustica in Bono; mentre è anche visiva in Dante). Il confronto tra i due testi suggerisce però accostamenti ancora più puntuali che, se non sono sufficienti a postularne la dipendenza diretta, autorizzano l‟ipotesi che l‟incipit del trattato Della miseria di Bono proprio in ragione della forte connotazione elegiaca e dell‟evidente imitazione boeziana, che sebbene con altre velleità sostanziano anche il progetto poetico della Vita nova, fosse uno dei meno noti modelli contemporanei pur presenti nell‟officina dantesca durante il concepimento del prosimetro: sono analoghe le espressioni che descrivono lo stato dei due protagonisti, colti dalle rispettive apparizioni mentre „giacciono‟ pensierosi («ove pensando giacea doloroso» nel trattato Della miseria; «e pensando molto quanto a la vista sua, mi riguardava là ov'io giacea» nella Vita

nova); lo stesso grado di affinità testuale si riscontra nei due passaggi che definiscono il primo

manifestarsi della apparizione come un improvviso appello al protagonista («udii una boce, che mi

chiamò» nel trattato Della miseria; «pareami che sospirando mi chiamasse» nella Vita nova); ancora una

sovrapposizione è possibile tra la narrazione di Bono e quella di Dante relativamente al congedo della misteriosa voce/figura che, ugualmente improvvisa, lascia il protagonista in un brusco stato di veglia («E

nel partire che si fece la boce fui desto» nel trattato Della miseria; «E dette queste parole, sì disparve, e lo mio sonno fue rotto» nella Vita nova). Come suggerisce l‟interesse di questi raffronti, l‟accostamento dei

testi di Bono e di Dante andrebbe certamente esteso a porzioni testuali più significative, ma già attraverso i pochi passaggi presi in considerazione ne emergono sia generali affinità di ordine stilistico riconducibili come detto alla condivisione del medesimo modello boeziano, sia somiglianze più stringenti da cui si può intuire l‟influenza sulla produzione elegiaca di Dante da parte di auctores contemporanei che si erano già misurati in un esercizio emulativo della fonte tardoantica.

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annunciato sin dal titolo), in cui occorrono lemmi come „doloroso‟, „miseria‟, „piagnere‟ dalla inequivocabile accezione elegiaca, testimonia un ulteriore livello dell‟imitazione boeziana da parte di Bono, che consiste più strettamente nella pedissequa ricezione dello stile elegiaco proprio dell‟incipit della Consolatio. Secondo quanto gli studi più autorevoli hanno accertato, è tuttavia nella sua opera maggiore che Bono testimonia con sistematica evidenza il ricorso al modello strutturale della Consolatio: il Libro de‟ Vizî e

delle Virtudi, scrittura originale che rielabora una redazione antecedente (il Trattato di Virtù e di Vizî), mutua infatti dal prosimetro tardoantico sia la cornice pseudo-

autobiografica sia il tema del dialogo tra l‟autore-protagonista e la personificazione della Filosofia278. Quest‟ultima, chiamata «maestra delle Virtù», dopo avere ammonito Bono ne guida il viaggio verso il palazzo della Fede, conducendolo durante il cammino presso la cima di un monte, da cui il protagonista può assistere alle battaglie tra le Virtù e i Vizi, tra la Fede cristiana e le altre Religioni e le Eresie; concluso lo scontro, che ha sancito la sconfitta dell‟esercito dei Vizi e la morte della Superbia, Bono approda al cospetto delle quattro Virtù cardinali che gli illustrano le norme necessarie al conseguimento del paradiso e ne iscrivono il nome nella loro «matricola» con la promessa per il pellegrino di una rinnovata prosperità terrena e della ventura beatitudine celeste. Come si può evincere dalla complessità degli intrecci allegorici, il novero delle fonti latine impiegate nella pur originale combinazione narrativa del Libro non può essere ristretto alla sola Consolatio e comprende tra i modelli più importanti la

Psycomachia di Prudenzio, le Parabolae di san Bernardo, l‟Anticladianus di Alano di

Lilla, l‟In Rufinum di Claudiano e il De invenzione di Cicerone (attraverso la versione volgare del Fiore di Rettorica, di cui lo stesso Bono aveva steso un rimaneggiamento); eppure il prosimetro boeziano assolve ad una specifica funzione esemplare offrendo all‟autore, come già nell‟incipit del trattato Della miseria, l‟«inquadramento» dialogico entro cui organizzare la fitta trama del viaggio allegorico, condotto sotto gli auspici di un personaggio chiaramente allusivo al modello di riferimento279. La personificazione della Filosofia infatti, seppure ripresa con significative variazioni in testi di matrice „boeziana‟ del XII secolo (l‟Elegia di Arrigo da Settimello e il De planctu Naturae di

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BONO GIAMBONI, Il Libro de‟ Vizî e delle Virtudi e Il Trattato di Virtù e di Vizî, a cura di C.SEGRE, Torino, Einaudi, 1968.

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«Passando alla cornice, i brani certamente composti da Bono si presentano assai numerosi. Per esempio tutto l‟inquadramento boeziano, che è da confrontare con quelli, analoghi ma diversi, sia del

Trattato, sia della Miseria. Come Arrigo da Settimello, come Teperto, nella lett. 33 dell‟ epistolario

guittoniano, come l‟autore della nov. 72 del Novellino, Bono conosceva a menadito la Consolatio, tanto da poterne dare una versione medievaleggiante, sostituendo al concetto filosofico di felicità quello cristiano di gloria mondana» (BONO GIAMBONI, Il Libro de‟ Vizî cit., p. XVIII).

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Alano di Lilla) che erano molto probabilmente noti a Bono, testimonia nelle circostanze della sua apparizione e nel dialogo iniziale con il protagonista (carico di venature elegiache) la dipendenza diretta dall‟incipit della Consolatio, peraltro dichiarata dopo alcuni riferimenti indiretti al prosimetro dalla citazione esplicita del suo carme conclusivo, che riprova la volontà di emulazione letteraria da parte dall‟autore del Libro (II, 1-3):

Lamentandomi duramente nella profondità d‟una oscura notte nel modo che avete udito di sopra, e dirottamente piangendo e luttando, m‟apparve sopra capo una figura, che disse: - Figliuol mio, forte mi maraviglio che, essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, in ciò che stai sempe col capo chinato, e guardi le scure cose della terra, laonde se‟ infermato e caduto in pericolosa malattia. Ma se rizzassi il capo, e guardassi il cielo, e le dilettevoli cose del cielo considerassi, come dee far l‟uomo naturalmente, d‟ogni tua malizia saresti purgato, e vedresti la malizia de‟ tuo‟ reggimenti, e sarestine dolente. Or non ti ricorda di quello che disse Boezio: «Con ciò si cosa che tutti gli altri animali guardino la terra e seguitino le cose terrene per natura, solo all‟uomo è dato guardar lo cielo, e le celestiali cose contemplare e vedere»280?

Più che come semplice reminiscenza boeziana è appropriato interpretare larghi frammenti del brano di Bono come un esercizio di traduzione letterale di ben noti passi della Consolatio dal latino in volgare fiorentino (di un certo interesse anche in ragione della prossimità cronologica e culturale rispetto alle traduzioni di stralci del testo boeziano proposte da Dante nelle prose del Convivio). Segnatamente l‟esordio del capitolo II del Libro, in cui l‟autore protagonista descrive la apparizione contestuale alle proprie lamentazioni di una figura femminile, è il calco fedele dell‟incipit della prosa 1 del libro I della Consolatio, ove Boezio annuncia l‟improvvisa «epifania» della Filosofia che lo coglie mentre egli è intento a comporre in versi il proprio dolore; le parole rivolte a Bono dalla Filosofia, che gli rimprovera di stare «col capo chinato» come un infermo grave, riecheggiano il carme 2 del libro I del prosimetro (vv. 6-27), nel quale la Donna descrive l‟abisso spirituale di Boezio costretto dal peso dei suoi mali a tenere il «vultum…declivem» (la medesima posa «visuque in terram defixo» caratterizza il protagonista della Consolatio di fronte all‟ammonimento rivolto dalla Filosofia alle Muse nella prosa 1 del libro I §13); infine Bono dichiara la propria fonte riportando quasi alla lettera nella propria versione volgare i versi 8-11 del carme 5 del libro V, ultima sezione metrica della Consolatio, in cui la Filosofia contrappone la predisposizione degli animali alla contemplazione delle cose terrene alla virtù della stirpe umana di mirare il cielo «recto vultu» (v. 13). La narrazione pseudo – autobiografica di Bono comprende altre significative occorrenze boeziane, presenti sia sotto forma di citazioni dirette del testo della Consolatio (introdotte in genere dalla formula «onde dice Boezio…»), sia sotto forma di allusioni più o meno esplicite alle

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allegorie morali e ai precetti filosofici contenuti nel modello: il Libro de‟ Vizî e delle

Virtudi va dunque considerato a tutti gli effetti come la prima testimonianza di prosa

d‟arte in volgare fiorentino profondamente influenzata dai temi morali e dalle ragioni stilistiche della Consolatio ma anche, alla luce delle rivendicazioni di Segre intorno alla centralità di quest‟opera e del suo autore («forse il maggior prosatore toscano del Duecento») nell‟ambiente culturale fiorentino predantesco, come l‟immediato precursore della prosa „boeziana‟ del Convivio281

. Occorre, in assenza di indizi testuali stringenti, non enfatizzare i termini del possibile parallelismo tra l‟opera di Bono e quella di Dante, ché l‟imitazione del modello tardoantico appare comunque più capillare e profonda in quest‟ultima (sin dalla ripresa non casuale della forma prosimetrica), comportandone l‟adesione ad un complesso sistema di corrispondenze allegoriche e stilistiche con il modello boeziano, che solo marginalmente può essere rintracciato nella prosa di Bono e di certo senza la complessità dei significati poetici perseguiti da Dante mediante la ripresa dello schema simbolico boeziano, peraltro già acquisito ad un nuovo linguaggio lirico con l‟esperimento della Vita nova. Cionondimeno il Libro di Bono anticipa alcuni aspetti sostanziali dell‟imitazione boeziana del Convivio (che, in attesa di osservazioni più approfondite, vanno dalla traduzione letterale di passi della Consolatio alla personificazione allegorica della Filosofia e alla cornice autobiografica, nella quale si sovrappongono le identità dell‟io protagonista e dell‟io narrante con l‟esito di una prosa ricca di implicazioni metaletterarie), meritando appieno la collocazione entro quella triade di antecedenti danteschi concepiti negli stessi anni e nel medesimo ambiente fiorentino che è completata nel giudizio di Segre dal volgarizzamento della

Somme le roi di Zucchero Bencivenni e dal Tesoretto di Brunetto Latini282.

281

«Dante, che fu il primo a circondare di un alone mitico la sua attività di scrittore, non cita mai il più modesto Bono; eppure a lui si sarebbero in parte adattate le enfatiche espressioni del primo libro del

Convivio. A lui ch‟è forse il maggior prosatore toscano del Duecento» (Ivi, p. XXIX).

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«…il Libro de‟ Vizî e delle Virtudi trova subito l‟esatta sistemazione cronologica nell‟ambiente fiorentino, tra il Tesoretto, al cui schema è assai vicino, pur senza tradirne l‟imitazione, e la Somme le roi nel volgarizzamento di Zucchero Bencivenni, che è legato direttamente (come dimostreremo in altra sede) al Libro di Bono. Così il triumvirato fiorentino predantesco (Brunetto, Bono e Zucchero) ci appare unito da un‟attività concorde e da affinità tematiche, le quali ci richiamano, pur nella loro inferiorità, alla

Divina Commedia» (Ivi, pp. XXV-XXVI). In effetti Segre allude a punti di contatto non trascurabili tra

l‟opera di Bono (unitamente a quelle di Brunetto e Zucchero) e quella di Dante con riferimento particolare non già al Convivio (di cui lo studioso tratta comunque poco dopo) bensì alla Commedia, della quale il Libro aveva anticipato soprattutto il tema del viaggio allegorico verso la conquista delle Virtù per mezzo della Filosofia e della Fede, come anche il modello di „collaborazione‟ tra la prima guida di Bono (Filosofia), deputata ad un ammaestramento intorno alle cose terrene e la seconda guida (Fede), cui spetta invece l‟insegnamento di dottrine più elevate, secondo uno schema che stando alle interpretazioni allegoriche diffuse già presso i primi commentatori, Dante avrebbe riesumato nel poema con l‟assegnazione al proprio personaggio della duplice guida di Virgilio (la ragione filosofica) e di Beatrice (la ragione teologica).

98 1.5.3.3 Brunetto Latini

È proprio «ser Brunetto», l‟illustre intellettuale e uomo politico fiorentino collocato da Dante tra i violenti contro natura puniti nel terzo girone del settimo cerchio infernale (If XV 22-124), ma anche teneramente ricordato dal poeta come «la cara e buona imagine paterna» (v. 83) che gli aveva insegnato «come l‟uom s‟etterna» (v. 85), ad occupare un posto preminente nel novero degli autori „boeziani‟ di area italiana del XIII secolo. Questi svolse una mediazione fondamentale tra la ricezione neoplatonica del modello tardoantico, peculiare dei prosimetra francesi del XII secolo, e le istanze culturali della civiltà letteraria comunale, alla luce delle quali nella Firenze della seconda metà del Duecento la Consolatio poteva essere accolta ed interpretata dalla specola di una nuova cultura retorica e di un „umanesimo civile‟, che in Toscana contrassegnarono l‟impegno politico, la formazione e la produzione letteraria di diverse generazioni di scrittori tra la seconda metà del XIII e la prima metà del XIV secolo. La profonda conoscenza della grande tradizione enciclopedica ed allegorica transalpina fu certo favorita dal lungo esilio che Brunetto Latini (1220-1294) trascorse in Francia negli anni compresi tra la vittoria di Manfredi a Montaperti (4 settembre 1260) e la rivincita guelfa a Benevento (28 febbraio 1266): a questo periodo si fanno risalire la composizione del Tresor283 (vasta somma enciclopedica in tre libri, concepita in lingua francese sul modello degli Specula d‟oltralpe) e la stesura del Tesoretto284 (quasi una riduzione visionario - allegorica dell‟opera maggiore in volgare fiorentino), che significativamente recano tracce tangibili dell‟influenza esercitata dalla lettura dei „boeziani di Francia‟ sulla cultura filosofica e su alcune tra le principali scelte stilistico-