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Cv IV XII 3-7 [10] Come è stato opportunamente notato, nell‟ambito della riflessione sulla ricchezza,

La Consolatio philosophiae nelle opere di Dante

2.2 Confronti cert

2.2.10 Cv IV XII 3-7 [10] Come è stato opportunamente notato, nell‟ambito della riflessione sulla ricchezza,

che occupa una parte consistente del IV trattato del Convivio, la Consolatio non soltanto

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«Così lo vediamo (scil. Dante) […] spingere lo scrupolo fino a conservare la frase di Boezio pulchrum

pulcherrimus ipse Mundum mente gerens con l‟esatto, ma un po‟ sforzato, “tu, bellissimo, bello mondo

nella mente portante”» (F.MAGGINI, I primi volgarizzamenti dai classici latini, Firenze, Le Monnier, 1952, p. 93).

147

GROPPI, Dante traduttore cit., p. 134.

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«Nel caso di Dante questi fenomeni si verificano (con frequenza bassissima) quasi esclusivamente nel

Convivio dove la parola dell‟auctoritas, simulacro di verità basilari, è mutata il meno possibile (e dunque

non digesta), e dove essenziale per l‟autore è semmai mostrare la possibilità di una riproduzione, in lingua di sì, di costrutti e lemmi del repertorio latino; le altre opere in volgare sottopongono in vece il testo-base ad un filtraggio più accurato» (ivi).

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Cfr. Schede correlate: Pd I 74 [17]; Pd II 130-138 [18]; Pd VII 64-66 [19]; Pg XXVIII 90 [47]; Pd XXXIII 19-33; 46-48; 52-54 [62]; Rime 14 (CVI) 49 [78]; If X 102 [82]; Pd I 1 [92]; Pd I 103-108 [94].

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viene menzionata esplicitamente dall‟autore con almeno quattro citazioni, ma, se si valuta l‟influenza boeziana sulle concezioni dantesche da una specola più generale, «costituisce una delle fonti più importanti»150.

Il capitolo XII si apre con la denuncia della «imperfezione delle ricchezze», che non si manifesta soltanto nella loro indiscriminata acquisizione iniziale ma è lampante altresì ove si considerino i pericoli che provengono dal loro successivo incremento (Cv IV XII 1); la nocività dei beni materiali consiste soprattutto in quella apparenza di perfezione che ne nasconde i reali difetti e dalle cui insidie più nascoste occorre essere in guardia, come confermano le testimonianze di Boezio e di Cicerone (Cv IV XII 3-7):

E quelle cose che prima non mostrano li loro difetti sono più pericolose, però che di loro molte fiate prendere guardia non si può: sì come vedemo nel traditore, che nella faccia dinanzi si mostra amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d‟amistade chiude lo difetto della inimistade. E per questo modo le ricchezze pericolosamente nel loro acrescimento sono imperfette, che, sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario. Promettono le false traditrici sempre, in certo numero adunate, rendere lo raunatore pieno d‟ogni appagamento; e con questa promessione conducono l‟umana volontade in vizio d‟avarizia. E per questo le chiama Boezio, in quello Di Consolazione, pericolose, dicendo: “Ohmè! chi fu quel primo che li pesi dell‟oro coperto e le pietre che si voleano ascondere, preziosi pericoli, cavòe?”. Promettono le false traditrici, se bene si guarda, di tòrre ogni sete e ogni mancanza, e aportare ogni saziamento e bastanza; e questo fanno nel principio a ciascuno uomo, questa promessione in certa quantità di loro acrescimento affermando; e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e di refrigerio danno e recano sete di casso febricante intollerabile; e in loco di bastanza recano nuovo termine, cioè maggiore quantitate a[l] desiderio, e con questa, paura grande [e] sollicitudine sopra l‟acquisto. Sì che veramente non quietano, ma più danno cura, la qual prima sanza loro non si avea. E però dice Tulio in quello Di Paradosso, abominando le ricchezze: “Io in nullo tempo per fermo né le pecunie di costoro, né le magioni magnifiche né le ricchezze né le segnorie né l‟allegrezze delle quali massimamente sono astretti, tra cose buone o desiderabili essere dissi: con ciò sia cosa che certo io vedesse li uomini nell‟abondanza di queste cose massimamente desiderare quelle di che abonda[va]no. Però che in nullo tempo si compie né si sazia la sete della cupiditate; né solamente per desiderio d‟acrescere quelle cose che hanno si tormentano, ma eziandio tormento hanno nella paura di perdere quelle”. E queste tutte parole sono di Tulio, e così giacciono in quello libro che detto è. E a maggiore testimonianza di questa imperfezione, ecco Boezio in quello Di Consolazione dicente: “Se quanta rena volve lo mare turbato dal vento, se quante stelle rilucono, la dea della ricchezza largisca, l‟umana generazione non cesserà di piangere”.

La testimonianza autorevole della pericolosità insita nelle ricchezze mondane proviene dai versi conclusivi di un carme boeziano, nel quale si commemora la felicità di una mitica prior aetas, immune dalle insidie dell‟oro, e si biasima l‟avvento delle dovizie un tempo nascoste come l‟origine dei mali del mondo (Cons. II m. 5, vv. 27- 30):

Heu, primus quis fuit ille auri qui pondera tecti gemmasque latere volentes pretiosa pericula fodit?

150

TATEO, Boezio cit., p. 656. I passi boeziani menzionati nella presente scheda, ad eccezione di Cons. III pr. 3 §§ 2-4 e 11, sono accostati al testo dantesco (a) in MOORE, Studies in Dante cit., p. 356. Per gli altri luoghi danteschi che si rifanno, più o meno apertamente, alla riflessione di Boezio sulle ricchezze mondane, cfr. Schede correlate: Cv IV XIII 10-14 [11]; If VII 7-54 [30]; Pg XIV 86-87 [38]; Cv IV XI 8 [75].

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La prima traduzione dantesca si contraddistingue per una evidente intenzione di fedeltà rispetto al testo di partenza che si manifesta innanzitutto, come ha osservato Chiamenti, nel mantenimento dell‟ordo originario, con la sola eccezione della resa del boeziano «gemmasque latere pericula» in «le pietre che si voleano ascondere»151, inevitabile adattamento della struttura sintattica latina alla consuetudine linguistica dell‟«ipotesto». D‟altra parte nella versione del Convivio si riscontra sia la presenza di veri e propri calchi («pretiosa pericula» trasposto in «preziosi pericoli»), sia la conservazione del verbo in posizione finale («fodit» tradotto da «cavòe») ad ulteriore salvaguardia della forma sintattica e della veste fonica dell‟originale152, spiegabile, come si è detto altrove, con la volontà del traduttore di discostarsi il meno possibile dalle movenze stilistiche dell‟auctoritas153

.

Il modello boeziano viene nuovamente invocato poco dopo dall‟autore che, «a maggiore testimonianza» della imperfezione propria delle ricchezze, affianca al ricordo di Cicerone la citazione di un altro nucleo di versi della Consolatio, estrapolati questa volta dal carme che conclude l‟incontro immaginario tra Boezio e la Fortuna e che, per mezzo della iperbole esordiale, denuncia la insaziabilità della cupidigia umana, cui neppure tutte le dovizie sparse dall‟Abbondanza sarebbero sufficienti ad estinguere la fame di ricchezza (Cons. II m. 2, vv. 1-8)154:

Si quantas rapidis flatibus incitus pontus versat harenas

aut quot stelliferis edita noctibus caelo sidera fulgent,

tantas fundat opes nec retrahat manum pleno Copia cornu,

humanum miseras haud ideo genus cesset flere querelas.

La traduzione dantesca si contraddistingue in questo caso per una significativa «condensazione» del testo latino155, ma anche per la tendenza ad operare alcune «piccole dilatazioni epesegetiche» che mirano, come nel caso della estensione del

151

Cfr. CHIAMENTI, Dante Alighieri cit., p. 27.

152

«Noto anche la bipolarizzazione di pondera, tradotto sul piano semantico da pesi , ma su quello fonico da coperto (che a sua volta corrisponde a tecta), poiché si ha Cui POndERa > COPERtO» (ivi, pp. 27-28).

153

Che la citazione del passo boeziano implichi per la resa dantesca non solo il tentativo di fedele adesione ai contenuti speculativi della fonte, ma anche l‟imitazione del suo abito stilistico (nonostante il passaggio rilevante dalla forma metrica della Consolatio a quella prosastica del Convivio) è già felice intuizione di Groppi: «…il poeta volgare mira a rendere anche nel giro del periodo un‟immagine possibilmente esatta non pur del pensiero, ma dello stile poetico del suo autore» (GROPPI, Dante

traduttore cit., p. 134).

154

Il passo boeziano sulla insaziabilità della cupidigia umana è tenuto presente anche nell‟ambito delle riflessioni dantesche sulla fortuna e sull‟avarizia; cfr. Schede correlate: If VII 61-96 [31]; If I 97-99 [80].

155

«Soppresse le coloriture rapidis di flatibus, stelliferis edita noctibus caelo di sidera, pleno cornu di copia, miseras di querelas, Dante condensa in cose e moto» (GROPPI, Dante traduttore cit., pp. 133-134).

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boeziano «Copia» nel più esplicito «la dea della ricchezza», ad adeguare un termine culturalmente connotato ad una istanza esegetica modernizzante156. La chiosa di Gugliemo di Conches, dopo avere illustrato in sintesi il contenuto dei versi boeziani sottolinenandone il tema della insaziabilità dell‟avarizia (che è anche alla base della citazione dantesca)157, assume la allusione al corno pieno dell‟abbondanza (v. 6) come pretesto per una ampia digressione intorno alla discesa agli inferi di Ercole, al quale si deve secondo i mitografi il ritrovamento di quell‟oggetto propiziatorio che lo stesso eroe avrebbe successivamente sacrificato alla dea della ricchezza158. Oltre che per l‟analoga tendenza alla estensione epesegetica di un termine come il boeziano «Copia», il cui significato per un lettore medievale non era necessariamente scontato, rispetto al passo del Convivio la chiosa di Guglielmo riveste interesse soprattutto per la sua parte conclusiva, dedicata alla chiusura del carme boeziano (vv. 15-18)159, dove il commentatore riprende il tema della irrefrenata ansia di ricchezza, irrazionalmente inesauribile negli uomini facoltosi, servendosi di una preziosa citazione classica:

Quae iam frena. Frena quae retentant cupidinem alicuius rei sunt ista, vel quia non est alicui necessaria, vel quia vilis est, vel quia ad sufficientiam aliquis habet de ea. Sed aliquis tanto plus cupit temporalia quanto plus possidet secundum Iuvenalem:

crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crescit.

Il riferimento di Guglielmo alla Satira XIV di Giovenale (v. 139), sebbene non consenta di stabilire la conoscenza di quest‟ultima da parte di Dante per il tramite indiretto della glossa boeziana, suggerisce un raffronto con quel paragrafo del Convivio, successivo alla citazione della Consolatio, ove il nome dello stesso Giovenale ricorre tra

156

Cfr. CHIAMENTI, Dante Alighieri cit., p. 141.

157

«In his versibus conqueritur Fortuna de avaritia hominum, quae tanta sit quod numquam potest satiari» (GUILLELMI DE CONCHIS, In Consolationem, II m. 2, 1 [2-4]).

158

«Legitur in fabulis de Hercule quod, cum descenderet ad inferos, invenit ibi cornu quoddam. Quod inde extraxit et Copiae sacrificavit, quo illa fudit necessaria cuidam pleno cuidam semipleno» (ivi, II m. 2, 5-6 [5-8]). Ercole (le cui gesta saranno ricordate da Guglielmo anche a proposito del carme 7 del libro IV) incarna la rappresentazione dell‟uomo sapiente ed eloquente, sicché la sua stessa proverbiale virtù di addomesticare i mostri più insidiosi viene interpretata come allegoria della capacità di domare i vizi, che pertiene appunto a colui che è dotato di sapienza ed eloquenza («Hercules […] dicitur monstra terrae domare, quia sapiens et eloquens omnia vitia domat»). La discesa negli inferi corrisponde allo sforzo di conoscenza delle cose terrene attuato dal sapiente, che rappresentato da Ercole, ha il merito di riportare la fertilità ove essa manchi. L‟excursus del commentatore è interessante perché in un certo senso eccentrico rispetto alla materia specifica del carme boeziano; inoltre vi si allude al motivo topico del sapiente che beneficia l‟intera umanità grazie al proprio sacrificio che consiste, secondo il rivestimento mitologico, nella discesa infernale di Ercole («Hercules vero ad inferos descendit, cum sapientes homines ad cognitionem terrenorum descendunt»). Il contenuto della chiosa sembra quasi anticipare un altro luogo della Consolatio, il notissimo metro 12 del libro III, dedicato ad Orfeo, la cui discesa nel regno dell‟oltretomba si connota per diretta ammissione dello stesso Boezio come l‟allegoria del vincolo del sapiente alle cose terrene e che per il suo intrinseco valore metapoetico assume, come si vedrà, notevole rilevanza in chiave dantesca.

159

«Quae iam praecipitem frena cupidinem / certo fine retentent , / largis cum potius muneribus fluens / sitis ardescit habendi?» (Cons. II m. 2 vv. 15-18).

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quei poeti latini che si sono scagliati contro la insaziabile cupidigia di ricchezza (Cv IV

XII 8):

E perché più testimonianza, a ciò ridurre per pruova, si conviene, lascisi stare quanto contra esse (scil. ricchezze) Salomone e suo padre grida; quanto contra esse Seneca, massimamente a Lucillo scrivendo; quanto Orazio, quanto Iuvenale e, brievemente, quanto ogni scrittore, ogni poeta; e quanto la verace Scrittura divina chiama contro queste false meretrici, piene di tutti defetti; e pongasi mente, per avere oculata fede, pur a la vita di coloro che dietro a esse vanno, come vivono sicuri quando di quelle hanno raunate, come s‟appagano, come si riposano.

Sebbene in riferimento ai svariati riscontri testuali «facilmente documentabili» Ettore Paratore sospetti «che Giovenale fosse direttamente noto a Dante», il ricordo del poeta satirico latino rinvierebbe in questo passo del Convivio ad almeno due luoghi dell‟opera giovenaliana (Sat. III 143-144; XIV 135 ss.) piuttosto noti attraverso florilegi, come testimonia la loro frequenza in numerosi testi medievali, e dei quali pertanto lo stesso Dante sarebbe venuto a conoscenza per il tramite di qualche fonte indiretta160. A questo riguardo è stata avanzata da Ovidio Capitani l‟ipotesi che in particolare il ricordo di Sat. XIV 139 («crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crescit»), verso che sintetizza quel concetto della fame insaziabile di ricchezza per il quale Dante effettivamente ricorda tra gli altri poeti anche Giovenale, potesse giungere all‟autore del Convivio attraverso una citazione implicita contenuta nel De peccato usure di Remigio dei Girolami161. Questa congettura, oltre a doversi misurare con la carenza di prove convincenti che Dante abbia mai attinto direttamente al trattato del domenicano fiorentino, non tiene conto straordinaria diffusione della sententia giovenaliana, attestata anche da numerosi commentatori danteschi antichi. D‟altra parte, senza avanzare per questo ipotesi avventate, va registrata l‟affinità, quantomeno contestuale, tra il ricordo di Giovenale in Cv IV XII 8 e la glossa di Guglielmo. In quest‟ultima infatti non solo la citazione di Sat. XIV 139 è esplicita, chiaramente vincolata cioè a quel nome del poeta latino che Dante annovera fra i detrattori delle ricchezze mondane, ma occorre proprio nell‟ambito del commento a quel medesimo carme boeziano che l‟autore del Convivio ha citato nel paragrafo precedente, mostrando così di accomunare il ricordo della

Consolatio e quello di Giovenale nella propria invettiva contro la cupidigia. La visione

del contesto, nel quale Dante ricorda l‟impegno poetico di Giovenale contro le «false meretrici», in un capitolo profondamente intriso di reminiscenze boeziane e che

160

E.PARATORE, Giovenale, in Enciclopedia dantesca cit., vol. III, pp. 197-202: 198.

161

«Iuxta illud poete “Crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crescit” et magis durescit ad non subveniendum indigentibus sine extorsione usure» (O.CAPITANI, Il De peccato usure di Remigio de‟

Girolami, in Studi medievali, 3ª s., VI/II [1965], pp. 537-662: 629); l‟ipotesi di una reminiscenza

giovenaliana attraverso la mediazione implicita di Remigio in Cv IV XII 5 e 8 è avanzata inO.CAPITANI,

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sembrerebbe presupporre altresì la conoscenza dell‟esemplare verso giovenaliano, suggerisce dunque di tenere nella debita considerazione la glossa di Guglielmo, dalla quale Dante avrebbe potuto estrapolare, ancor più che il comunissimo verso del poeta satirico, il già collaudato abbinamento di quest‟ultimo al metro boeziano.

Come si è appena rivelato efficace, l‟allargamento della indagine ai passi limitrofi alle due citazioni della Consolatio fin qui esaminate rivela, in effetti, fino a che punto la trama intertestuale con l‟opera boeziana sia estesa anche alle „vicinanze‟ di quelli che appaiono come i riferimenti più espliciti.

In Cv IV XII 3 la denuncia delle false promesse prodotte dalle ricchezze («che, sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario»), che precede la prima citazione esplicita della Consolatio, richiama un altro luogo boeziano, in cui la Filosofia biasima le ricchezze poiché le giudica incapaci di apportare quei benefici falsamente promessi (Cons. III pr. 3 §§ 2-4 e 11):

Considera namque, an per ea, quibus se homines adepturos beatitudinem putant, ad destinatum finem valeant pervenire. Si enim vel pecunia vel honores ceteraque tale quid afferunt, cui nihil bonorum abesse videatur, nos quoque fateamur fieri aliquos horum adeptione felices. Quodsi neque id valent efficere, quod promittunt, bonisque pluribus carent, nonne liquido falsa in eis beatitudinis species deprehenditur? […] Opes igitur nihilo indigentem sufficientemque sibi facere nequeunt et hoc erat, quod promittere videbantur.

Se non si può escludere, come sostiene Proto, che insieme al passo boeziano anche alcune Epistulae di Seneca (LXXXVII, 18 ss.; CXV, 16-18; CXIX, 6-14) abbiano influenzato la concezione dantesca delle ricchezze come «false traditrici», né va contestato che le osservazioni di Cv IV XII 3 richiamano «altre citazioni comunissime nella letteratura medievale»162, la dipendenza dalla Consolatio è comunque evidente sia per la aderenza teorica alla dottrina boeziana (anche la riflessione del Convivio sottolinea la sproporzione tra l‟apparenza promettente delle ricchezze e la loro effettiva insufficienza al raggiungimento della felicità umana)163 sia, soprattutto, per gli indizi ricavabili dal contesto (lo stesso Dante rivela, infatti, attraverso le due citazioni successive che la fonte primaria dell‟intero capitolo va riconosciuta nella Consolatio).

Pertinente è pure il raffronto tra Cv IV XII 5, in cui viene enunciata la insaziabilità del desiderio di ricchezza («Promettono le false traditrici, se bene si guarda, di tòrre ogni sete e ogni mancanza, e aportare ogni saziamento e bastanza etc.»), ed un passo della Consolatio, che insiste sulla presunta capacità dei beni terreni di colmare l‟ansia di

162

E. PROTO, Note al «Convivio» dantesco: le ricchezze e la scienza, Torino, Loescher, 1915, p. 23.

163

Il medesimo concetto ricorre, in sintesi, nella chiosa di Guglielmo di Conches: «Deinde est probatio quod error abducit eos a vero bono, qui in temporalibus quaerunt beatitudinem; et primitus per divitias probando quod non faciunt quod promittunt» (GUILLELMI DE CONCHIS, In Consolationem, III pr. 2 [2-6]).

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possesso, invece aumentata dall‟accrescimento delle stesse ricchezze (Cons. II pr. 5 §§ 22-23):

Quid autem tanto fortunae strepitu desideratis? Fugare, credo, indigentiam copia quaeritis. Atqui hoc vobis in contrarium cedit, pluribus quippe amminiculis opus est ad tuendam pretiosae supellectilis varietatem verumque illud est permultis eos indigere, qui permulta possideant, contraque minimum, qui abundantiam suam naturae necessitate, non ambitus superfluitate metiantur.

Sebbene nel passo del Convivio non siano ravvisabili i presupposti testuali di una citazione implicita (il richiamo simbolico al tema scritturale della „sete‟ è assente nella fonte tardoantica), anche in questo caso le affinità teoriche con il brano della Consolatio e l‟esame del contesto, entro cui si colloca il motivo dantesco della insaziabilità, accertano l‟ennesima cifra boeziana riconoscibile in questo capitolo.

2.2.11 Cv IV XIII 10-14 [11]