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Ep XIII 89 [14] Nel penultimo paragrafo della controversa Epistola a Cangrande, in margine a quella

La Consolatio philosophiae nelle opere di Dante

2.2 Confronti cert

2.2.14 Ep XIII 89 [14] Nel penultimo paragrafo della controversa Epistola a Cangrande, in margine a quella

sezione del trattato (§§ 44-87) dedicata alla esposizione letterale dei primi versi del

Paradiso (classificati sotto la definizione di „prologo‟), Dante accenna al contenuto

della restante, ben più cospicua, parte della cantica (cioè, propriamente, la „parte espositiva‟)195

, alludendo in breve alla ascesa celeste del protagonista e all‟incontro con le anime beate in ciascun cerchio. L‟autore si sofferma a questo punto sul principio della vera beatitudine stabilendo che quest‟ultima consiste nella contemplazione della verità divina, ed invoca a riprova di tale affermazione l‟autorità di fonti a lui familiari, le Sacre Scritture e la Consolatio:

In parte vero executiva, que fuit divisa contra prologum, nec dividendo nec sententiando quicquam dicetur ad praesens, nisi hoc, quod ubique procedetur ascendendo de celo in celum, et recitabitur de animabus beatis inventis in quolibet orbe, et quod vera illa beatitudo in sentiendo veritatis principium constitit; ut patet per Iohannem ibi: «Hec est vita eterna , ut cognoscant te Deum verum etc.»; et per Boetium in tertio De Consolatione ibi: «Te cernere finis». Inde est quod ad ostendendum gloriam beatitudinis in illis animabus, ab eis tanquam videntibus omnem veritatem multa querentur que magnam habent utilitatem et delectationem.

La citazione boeziana è estrapolata dalla invocazione finale del metro 9 del libro III (v. 27), in cui la Filosofia, intercedendo per il suo discepolo, si rivolge a Dio e lo definisce contemporaneamente principio, fine, guida e meta nella cui visione si appaga completamente ogni desiderio umano di felicità (Cons. III m. 9 vv. 26-28):

…tu namque serenum,

tu requies tranquilla piis, te cernere finis, principium vector dux semita terminus idem.

Come è stato osservato, il contenuto mistico dell‟inno boeziano, soprattutto per l‟insistenza sul motivo neoplatonico dell‟ascensione celeste da parte della mente umana, che anela a raggiungere la dimora divina per contemplarvi il vero bene, si accosta con profitto a diversi luoghi del Paradiso (in particolare, per le affinità con l‟orazione di san

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L‟autore, infatti, ha preliminarmente enunciato che la terza cantica della Commedia è in primo luogo suddivisibile in due parti: «Dividitur ergo ista pars, seu tertia cantica que Paradisus dicitur, principaliter in duas partes, scilicet in prologum et partem executivam» (Ep XIII 43); per il testo dell‟Epistola a

182 Bernardo, nell‟ambito del canto XXXIII)196

, rispondendo pienamente alle istanze filosofiche che regolano la logica ascensionale del viaggio dantesco197. Non sorprende, dunque, che Dante faccia menzione di questo passo boeziano proprio nella veste di espositore della terza cantica della Commedia, evidentemente attribuendo un valore didascalico alla citazione, che serve a chiarire al lettore il fine ultimo del viaggio dantesco e stabilisce, neppure troppo implicitamente, un parallelismo poetico tra il percorso ascensionale del Paradiso ed il viaggio di Boezio, spinto dalla sua Filosofia al superamento della miseria terrena e alla contemplazione finale della vera beatitudine («te cernere finis»)198.

Nell‟accessus alla terza cantica Dante detta, dunque, le istruzioni essenziali per l‟interpretazione della più audace impresa poetica, che ha termine in Dio stesso, ed annovera la Consolatio come un autorevole tentativo di approdo alla somma verità condotto, analogamente al proprio, per mezzo della poesia; ma l‟accostamento suggerito in modo sintetico si spiega ancora meglio con la glossa di Guglielmo al v. 27 dell‟inno boeziano:

TE CERNERE FINIS. Finis dicitur ultima rei pars ut finis agri. Finis etiam dicitur consumptio rei

ut finis vitae. Iterum finis dicitur propter quod fit aliquid. Ita in hoc loco finis dicitur deum cernere, quia quicquid agunt sapientes ad hoc agunt ut deum facie ad faciem videant, quia haec est vera et beata vita199.

Il commentatore dilata, infatti, il concetto della formula boeziana approssimandone il significato alle parole conclusive della Epistola dantesca: si precisa il senso dell‟esperienza ascetica di Boezio, il cui esaurimento nella piena contemplazione di Dio («facie ad faciem») viene classificato come il fine naturalmente imprescindibile di chi è detentore della sapienza («sapientes ad hoc agunt»); e si chiarisce che in Dio stesso è l‟unica fonte di verità e beatitudine («haec est vera et beata vita»). La prima spiegazione esalta il vincolo tra il successo dell‟ascensione mistica ed il grado di sapienza del protagonista, secondo un principio di adeguatezza intellettuale alla missione celeste che

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Cfr. Schede correlate: Pd I 74 [17]; Pd II 130-138 [18]; Pd VII 64-66 [19]; Pd I 1 [92]; e, soprattutto,

Pd XXXIII 19-33; 46-48; 52-54 [62].

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«Del resto, il contenuto mistico degli ultimi versi dell‟inno boeziano poteva appagare facilmente la concezione mistico-filosofica dantesca, poiché designavano Iddio come principio, guida, termine, fine di ogni visione, appagamento; e se non si ricollegano direttamente a questo passo boeziano i numerosi accenni danteschi a questi attributi divini, certo ancora una volta si potrà parlare di suggestioni operate dal filosofo sul nostro poeta. Soprattutto la definizione di Dio come “serenum”, “requies tranquilla piis”, “finis” dell‟ansia umana di vedere, ricorre ripetutamente nei passi danteschi» (TATEO, Boezio cit., p. 657).

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Si consideri il giudizio di Alfonsi, che valuta la citazione boeziana nel contesto dell‟Epistola a

Cangrande una «preziosa conferma del senso profondo della Consolatio che […] attinge il suo vertice e

la sua espressione più schietta nell‟avviare appunto gli uomini al fine ultimo, Dio, cui la filosofia prepara e spiana la via; e insieme ci indica anche indirettamente i legami tra Boezio e Dante per la concezione della stessa Divina Commedia» (ALFONSI, Dante e la “Consolatio philosophiae” cit., p. 16).

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sorregge anche l‟iter del poema e che per Dante culmina, in prossimità dell‟impresa più difficile, nella necessità di uno sforzo conoscitivo supplementare (Pd I 13-33)200. La seconda definizione di Guglielmo, che descrive il fine divino come la vita «vera et beata», richiama espressamente la formula utilizzata da Dante nell‟autoesegesi dell‟Epistola per classificare la meta del proprio viaggio (definita, appunto, «illa vera beatitudo»), formula che lo stesso autore dell‟Epistola spiega facendo appello tanto all‟auctoritas evangelica («ut patet per Iohannem ibi...», cfr. Ioann. 17, 3), quanto, ed è la coincidenza che qui interessa rilevare, al penultimo verso del carme boeziano O qui

perpetua («...et per Boetium in tertio De Consolatione ibi...»).

A riprova dell‟interesse di questo confronto con il commento boeziano va anticipato che la medesima glossa di Guglielmo consente di accostare con maggiore efficacia la parte conclusiva dell‟inno tardo antico anche ad altri tra i luoghi danteschi201: la citazione di Cons. III m. 9 v. 27 va comunque registrata come l‟unica attestazione esplicita (e, dunque, la più preziosa) di una relazione diretta tra la concezione poetica del Paradiso ed il modello lirico rappresentato dal carme boeziano202.

2.2.15 If V 121-123 [15]