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If V 121-123 [15] Durante il suo vibrante colloquio con Francesca, dopo avere manifestato con una

La Consolatio philosophiae nelle opere di Dante

2.2 Confronti cert

2.2.15 If V 121-123 [15] Durante il suo vibrante colloquio con Francesca, dopo avere manifestato con una

intonazione marcatamente elegiaca la propria intima partecipazione al dolore di lei («Francesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi fanno tristo e pio», vv. 116-117), Dante domanda infine allo spirito lussurioso per mezzo di quale segnale e in che occasione Amore abbia concesso ai due amanti di venire a conoscenza del loro reciproco desiderio (vv. 118-120). La risposta di Francesca non esaudisce immediatamente la curiosità del pellegrino cominciando piuttosto con una sentenza preliminare, che esprime tutta la sofferenza dello spirito infernale al ricordo della perduta felicità terrena:

…Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice

200

Cfr. in particolare i vv. 16-18 («Infino a qui l‟un giogo di Parnaso / assai mi fu; ma or con amendue / m‟è uopo intrar nell‟aringo rimaso»), in cui Dante ammette in termini allegorici l‟insufficienza degli strumenti poetici impiegati nelle cantiche precedenti, invocando ora per la trattazione della difficile materia una superiore capacità intellettiva, cioè un grado di sapienza (attributo imprescindibile dall‟arte poetica) che gli consenta di spingersi attraverso il beato regno e di approdare alla contemplazione della beatitudine divina.

201

Cfr. Scheda correlata: Pd XXXIII 19-33; 46-48; 52-54 [62].

202

Cfr. in generale Capitolo III: 3 Dalla Consolatio philosophiae alla Commedia: le tracce di un apprendistato poetico; e, in particolare, 3.2.4 Dalla „Donna gentile‟ a Beatrice: tracce di una retractatio poetica nella Commedia.

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ne la miseria; e ciò sa ‟l tuo dottore203

.

Le parole di Francesca corrispondono ad un passo della Consolatio (II pr. 4 § 2), del quale, seppure con qualche libertà, costituiscono una traduzione abbastanza letterale:

…Nam in omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem.

Chiamenti inserisce questo confronto tra gli esempi di «ipotesti filosofici» classificando la versione dantesca come «traduzione libera» o «adattamento» del testo di partenza; nonostante la parziale «ri-creazione dell‟originale», la resa volgare mantiene tuttavia un indiscutibile tratto di fedeltà rispetto all‟«ipotesto» boeziano riproducendone pedissequamente quantomeno il concetto204. Una certa libertà sia nella trasposizione dei lessemi («dolore» in luogo di «infortunii»; «miseria» in luogo di «adversitate fortunae»), sia nella disposizione sintattica (la versione dantesca sovverte la sequenza „presente infelice-passato felice‟ del testo latino - «in omni adversitate fortunae… fuisse felicem» - relegando all‟ultimo verso della terzina l‟allusione - «ne la miseria» - alla presente disgrazia) si spiega anche con l‟esigenza del traduttore di modulare il passaggio dalla forma prosastica alla struttura più rigida e vincolante del ritmo metrico. D‟altra parte la versione dantesca mantiene intatti sia un lemma-chiave come «felice», che, come il corrispettivo boeziano «felicem», ricorre significativamente in posizione finale; sia l‟impiego del superlativo relativo («Nessun maggior dolore…» si rifà a «infelicissimum est…»).

La dipendenza della terzina dantesca dal passo boeziano, oggi generalmente accolta dai critici, è stata postulata già da una parte dei commentatori antichi, seppur non senza qualche significativo distinguo circa la problematica identificazione del «tuo dottore» con Boezio, che invece suscita ancora oggi la perplessità di buona parte della critica ed è generalmente rifiutata in favore della identificazione con Virgilio, in effetti avanzata, come si vedrà, già dai primi esegeti.

La prima attestazione di questo raffronto si deve a Guido da Pisa:

Et ell‟a me, nessun magior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria:

Huic sententie concordat Boetius, secundo libro De Consolatione, dicens ad Philosophiam: Hoc est quod recolentem vehementius quoquit: Nam in omni adversitate fortune infelicissimum genus infortunii est fuisse felicem. Et nota quod non dicit infelix, sed infelicissimum. Nam, ut ait commentator, duo [c. 66 r.] sunt genera infortunii, unum continuum, aliud interpollatum. Primum scilicet continuum est infelix; secundum vero, scilicet interpollatum, est infelicissimum, eo quod primum consuetudine minus nocet 205.

203

Per il testo della Commedia mi avvalgo della Edizione Nazionale della Società Dantesca Italiana, 4 voll., a cura di G.PETROCCHI, Milano, Mondadori, 1966-1967.

204

Cfr. CHIAMENTI, Dante Alighieri cit., p. 176 e n.

205

185

Oltre a rilevare l‟affinità testuale tra i due passi, postulandone implicitamente il collegamento, il frate carmelitano allude nella seconda parte della glossa ad un imprecisato «commentator», la cui chiosa serve a spiegare l‟impiego da parte di Boezio del superlativo «infelicissimum», più adatto dell‟aggettivo di grado positivo a designare quel particolare «genus infortunii interpollatum», che per il suo carattere discontinuo, succedendo ad un precedente stato di felicità, affligge ancora di più chi ne sia colpito. È interessante verificare che la glossa riportata da Guido riprende alla lettera il commento di Nicola Trevet, noto dagli inizi del Trecento come il «commentator» della Consolatio per antonomasia206, che chiosa la sententia boeziana distinguendo appunto tra due generi di sventura:

Duo sunt genera infortunii: unum continuum, aliud interpolatum prosperitate et adversitate. Primum est infelix; secundum vero infelicius eo quod primum ex consuetudine minus nocet207.

La menzione di questa glossa da parte di Guido, se da un lato testimonia la dimestichezza del pisano con il commento del domenicano inglese, peraltro ricavabile da diversi altri luoghi delle Expositiones208, dall‟altro è pertinente sul piano strettamente contenutistico poiché la definizione di «interpolatum prosperitate», in effetti, si attaglia al caso di Francesca, la cui «miseria», come quella lamentata da Boezio, segue ad un «tempo felice» e per tale discontinuità non è paragonabile a nessun altro genere di dolore («Nessun maggior dolore»).

Se è sicuramente Trevet a filtrare la ricezione del passo boeziano da parte di Guido209, è tuttavia nella glossa di Guglielmo che si ravvisa un elemento di affinità più stringente con la versione dantesca: l‟aggettivo «miser», assente nel passo originale della Consolatio (in cui ad esso corrisponde sul piano semantico l‟analogo «infelix», invece ripreso da Trevet), viene infatti riferito dal maestro di Chartres al sostantivo boeziano «adversitas», che Dante traduce proprio con «miseria»:

206

Cfr. Capitolo I: 1.3.3.1 Nicola Trevet.

207

NICHOLAS TREVET on Boethius cit., II pr. 4 § 2 (p. 219).

208

Cfr. Appendice: IV Guido da Pisa.

209

A conferma della relazione tra i due testi si consideri che la seconda parte della glossa di Guido, ove vengono citati due passi senecani, rispettivamente dal De tranquillitate animi (VIII 3) e dalla Consolatio

ad Helviam matrem (II 3; per questo passo andrebbe peraltro emendata la erronea lezione «Hesbiam»,

errore di trascrizione probabilmente riconducibile all‟originaria grafia «Helbiam», a sua volta variante foneticamente ammissibile del più consueto «Helviam»), riproduce fedelmente la continuazione della glossa di Trevet («Unde Seneca ad Serenum de tranquillitate animi ait: tolerabilius faciliusque est non acquirere quam amittere. Ideoque letiores videbis quos numquam Fortuna respexit quam quos deseruit. Idem ad Helviam matrem suam de consolacione filii: unum habet assidua infelicitas bonum: quod quos semper vexat indurat»). Questi, se nella prima parte della chiosa, per le affinità evidenti, può essersi rifatto al testo di Guglielmo; nella più originale seconda parte ricorre alla propria specifica competenza delle opere di Seneca, con una duplice citazione di cui infatti non si ravvisa menzione nel commento del maestro di Chartres.

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NAM IN OMNI. Duo sunt genera infortunii: unum continuum, aliud interpolatum prosperitate. Continuum miserum est, sed interpolatum miserius: quia ex consuetudine non tantum nocet istud, quia non consueuit maxime nocet illud210.

La rassegna dei commenti antichi prosegue con le Chiose Ambrosiane, dove il passo boeziano viene semplicemente accostato ai versi danteschi211, e con le Chiose Filippine, in cui la questione della identificazione di quel «dottore», che Francesca chiama a testimone della sentenza appena enunciata, viene proposta per la prima volta in termini di una alternativa tra lo stesso Boezio e, in seconda battuta, Virgilio (Aen. II 3):

[il tuo dottore], scilicet Boetius, qui dicit: «nil infelicius quam meminisse fuisse felicem»; vel Virgilius, in secundo Eneidos, qui dicit: «Infandum regina iubes renovare dolorem», et cetera212.

A questo riguardo Andrea Mazzucchi suggerisce il confronto con il commento di Guglielmo Maramauro, che probabilmente attinge nel suo commento alla chiosa appena menzionata, e considera «erronea» la «proposta identificativa del tuo dottore con Boezio» avanzata dal chiosatore del codice Filippino: un errore probabilmente indotto dalla evidente matrice boeziana della sentenza pronunciata da Francesca, che deve aver suggerito al commentatore di riferire all‟autore della Consolatio, e non già al più probabile Virgilio, anche il titolo di «dottore» di Dante richiamato a margine della sentenza213.

Anche Maramauro, probabilmente dipendendo dalle Chiose Filippine, riconosce nelle parole di Francesca, accanto all‟auctoritas virgiliana, l‟eco della sentenza della

Consolatio:

Qui Francesca responde che multo è rincresevele cossa a essere stato in sommo stato e poi trovarsi in miseria. E QUESTO ETC., cioè V., che era tenuto sancto e mo è dampnato nel limbo. E D. se conface cum V.: «Infandum regina iubes etc.». E Boetio dice: «Nil infelicius quam meminisse esse felicem»214.

Il commentatore napoletano, superando la duplice proposta del chiosatore filippino, come già Iacopo della Lana215, identifica il «dottore» con Virgilio, per il quale la

210

GUILLELMI DE CONCHIS, In Consolationem, II pr. 4 § 2 [10-14].

211

Cfr. Le Chiose Ambrosiane alla „Commedia‟, a cura di L.C.ROSSI,Pisa, Scuola Normale Superiore, 1990, If V 121.

212

Chiose Filippine. Ms. CF 2 16 della Bibl. Oratoriana dei Girolamini di Napoli, a cura di A.

MAZZUCCHI, Roma, Salerno Editrice, 2002, 2 tomi, If V 123.

213

Cfr. ivi, p. 207 n. 61.

214

GUGLIELMO MARAMAURO, Expositione sopra l‟«Inferno» di Dante Alligieri, a cura di P.G.PISONI e S. BELLOMO, Padova, Editrice Antenore, 1998, If V 121-123.

215

«Qui risponde e dice ch‟a ricordarsi del tempo avventuroso e gaudioso in lo tempo della tristezza e miseria, si genera grandissimo dolore; ma per adempiere suo affetto e disiderio si li dirà; e aduce testimonianza a suo esordio lo suo autore overo signore, cioè Virgilio, che ricordandosi del suo essere in lo mondo, poeta e in grande stato, e ora vedersi nel limbo senza grazia e speranza di bene non è senza dolore e gramezza» (Comedia di Dante degli Allagherii col commento di IACOPO GIOVANNI DALLA LANA

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dannazione nel limbo dopo gli splendori della vita terrena corrisponderebbe al dolore descritto da Francesca.

La stessa chiave di lettura viene suggerita da Giovanni Boccaccio che, se da un lato riconduce a Boezio la sentenza, dall‟altro interpreta il «tuo dottore» come una chiara allusione a Virgilio, adducendo a suffragio di tale proposta identificativa la testimonianza di alcuni passaggi dell‟opera del poeta augusteo (in primo luogo il già menzionato Aen. II 3), che acclarano quest‟ultimo come „esperto‟ nella materia del dolore e pertanto meritevole del riconoscimento accordatogli da Francesca:

Ed ella a me: nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice. Chiama «felice» il tempo

il quale aveva nella presente vita, per rispetto a quello che ha nella dannazione perpetua, la qual chiama «miseria», dicendo: Nella miseria; e veramente grandissimo dolore è, e questo assai chiaro testimonia Boezio, in libro De consolatione, dicendo: «Summum infortunii genus est fuisse felicem»; e ciò sa ‟l tuo dottore, cioè Virgilio, il quale, e nel principio della narrazion fatta da Enea de‟ casi troiani a Didone e ancora nel dolore di Didone nella partita d‟Enea, assai chiaramente il dimostra216.

Ulteriori attestazioni della matrice boeziana della citazione si ravvisano nella chiosa tardo trecentesca di Francesco da Buti (che però insiste sulla proposta identificativa del «tuo dottore» con Virgilio adducendo le stesse motivazioni fornite da Maramauro)217 e in quella quattrocentesca di Matteo Chironomo (che si limita all‟accostamento testuale)218.

Una menzione particolare meritano i commenti cinquecenteschi di Trifon Gabriele e Bernardino Daniello, che, con risolutezza estranea agli esegeti precedenti, confutano la corrente tesi „virgiliana‟ identificando certamente il «dottore» dantesco con l‟autore della Consolatio. Il primo, in polemica con l‟opinione tradizionale accolta da Cristoforo Landino219, riconosce nel «dottore» di Dante quel Boezio, autore di un‟opera

216

GIOVANNI BOCCACCIO, Il Comento alla „Divina Commedia‟ e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di

D.GUERRI, Bari, Gius. Laterza e figli, 1918, 3 voll. (voll. XII-XIV delle Opere volgari di Giovanni

Boccaccio: «Scrittori d‟Italia», 84-86), If V, Esposizione litterale 121-123.

217

«Perché Virgilio era morto com‟ella; cioè Francesca, e ricordavasi della vita mondana che reputava felice, però dice: e ciò sa il tuo Dottore; cioè quel ch‟io ò detto» (Commento di FRANCESCO DA BUTI

sopra la Divina Comedia di Dante Allighieri, pubbl. per cura di C.GIANNINI, Pisa, Fratelli Nistri, 1858- 1862 [ediz. anast., con premessa di F. Mazzoni, ivi, 1989], If V 121-138).

218

Cfr. MATTEO CHIRONOMO, Chiose alla „Commedia‟, a cura di A. MAZZUCCHI, Salerno Editrice, Roma, 2004, If V 121-123.

219

«Quando l‟anima esce del corpo puro et sanza alchuna contagione d‟alchun peccato, rimane semplice nella propria natura, nè altro pensa se non alla sua felicità, la quale è fruire Dio, et a quello, perchè non è aggravato d‟alchuna terrestre mole, facilmente et con sommo desiderio vola. Ma quello che si parte lordo et coinquinato di peccati ne‟ quali ha riposto ogni sua felicità, niente altro desidera se non exercitar quegli. Onde optimamente dixe l‟Appocalipse: “opera enim illorum sequuntur illos”, et Virgilio “que gratia currum Armorumque fuit vivis que cura nitentes Pascere equos eadem sequitur tellure repostos”. Et el pensare alle voluptà passate nel tempo che non le possono exercitare è loro gran passione et non piccholo tormento. Questo adunque dimostra per sententia generale dicendo che nessuno dolore è maggiore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Et arroge et ciò sa el tuo doctore perchè Virgilio nel sexto significa questa medesima sententia ne‟ versi già decti. Altri dicono ciò sa el tuo doctore, perchè al presente è dannato nel limbo, et privato della gloria, la quale haveva appresso a Octaviano. Ma la prima

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consolatoria che ne aveva alleviato il dolore per l‟esilio subìto e che lo stesso Dante avrebbe eletto a personale conforto e, per questo, condotto sempre con sé durante le peregrinazioni successive alla sua cacciata da Firenze:

E CIÒ SA IL TUO DOTTORE: s‟inganna il Landino, che Virgilio in niun luoco dice questa sentenza, ma chiama il suo dottore Boetio, il quale, come fu bandezzato, subito scrisse una consolatione del suo bando, che è quel libro che ora si chiama Consolation filosofica. Dante nella Vita nova dice che, subito che fu bandito, si diede a leggere detta Consolatione di Boetio, e dice che ne prese molto conforto e sempre lo portava seco, ovunque s‟andasse; e Boetio dice questa sententia: «quod nullum genus infelicitatis maius est quam fuisse felicem»220.

Chiaramente imprecisa l‟allusione alla Vita nova in cui, secondo il commentatore, Dante darebbe notizia del suo accostamento alla Consolatio, riferito invece nel Convivio (II XII 2) e semmai ivi cronologicamente ascritto dallo stesso autore agli anni giovanili del libello.

Se si eccettua la testimonianza di Alessandro Vellutello, che nel rispetto della tradizione esegetica trecentesca attribuisce la sentenza a Boezio, ma identifica il «dottore» con Virgilio221, si può dire che l‟esegesi cinquecentesca propenda per la tesi inaugurata da Trifon Gabriele, alla cui glossa si rifà sostanzialmente il più tardo Bernardino Daniello:

Dimanda adunque il Poeta à Francesca, come essi amanti si accorsero del lascivo amore, che l‟uno all‟altro portava; il perché ella da capo facendosi glielo narra, dicendo, non ritrovarsi maggior dolore, che ricordarsi del tempo felice nella miseria. E ciò sa‟l tu DOTTORE, non Virgilio come vogliono alcuni, ma Boetio, il quale il Poeta nostro haveva sempre in mano, e leggeva continuamente, come quegli che si trovava in essilio, come era Boetio, quando scrisse il libro de Philosophica consolatione: onde il Poeta medesimo nel suo convivio à questo proposito dice: Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che s‟argomentava di sanare, provide, poi né ‟l mio né l‟altrui consolare valeva ritornare al modo, che alcuno sconsolato havea tenuto a à consolarsi: et misemi ad allegare, et leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale cattivo e discacciato, consolato si haveva etc. Il luogo è questo, nel secondo libro de Consolatione, Prosa quarta: In omni adversitate fortunae, infoelicissimum genus infortunij est , fuisse foelicem222.

Come Trifon Gabriele, così Daniello sottolinea l‟affinità biografica tra Boezio e Dante, accomunati dalla necessità di opporre alla traumatica esperienza dell‟esilio un conforto „letterario‟, rappresentato per entrambi dal volume della Consolatio,

sententia quadra meglo» (CRISTOFORO LANDINO, Comento sopra la Commedia, a cura di P.

PROCACCIOLI, 4 voll., Roma, Salerno, 2001, If V 121-123).

220

Annotazioni nel Dante fatte con M. TRIFON GABRIELE in Bassano, a cura di L.PERTILE, Bologna, Commissione per i testi in lingua, 1993, If V 123.

221

«Et ella a me: - Nessun maggior dolore, volendo Francesca satisfar a la domanda del poeta mostra, per questa general sententia, non poterlo fare senza grandissimo dolor di lei e di Paulo, perchè la sententia è questa, che nessun dolore è maggiore di quel di colui, ch'essendo in miseria, si ricorda de la passata felicità, come vuol inferire, che allhora dovea intervenir a lei. E la sententia è di Boet. in quel De cons., ove dice «In omni adversitate fortune, infelicissimum genus est infortunii fuisse foelicem». E ciò sa il tuo dottore, perchè Virg. al principio del secondo pone questa sententia medesima dicendo a Dido «Infandum regina iubes renovare dolorem» (ALESSANDRO VELLUTELLO, La „Comedia‟ di Dante Aligieri con la nova

espositione, 3 voll., a cura di D.PIROVANO, Roma, Salerno, 2006, If V 121-123).

222

L‟espositione di BERNARDINO DANIELLO da Lucca sopra la Comedia di Dante, ed. by R.HOLLANDER

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appositamente concepita dal primo e «continuamente» consultata dal secondo. L‟identificazione del «dottore» di Dante trova qui una convincente chiave di lettura, visto che a Boezio spetterebbe a ragion veduta questo titolo per avere trasmesso mediante l‟esempio poetico-filosofico della Consolatio i precetti necessari al conforto della miseria che segue al tempo felice, sperimentata sia dal personaggio di Francesca, cui è affidata la sentenza, sia direttamente dallo stesso Dante. Daniello recupera inoltre il passo del Convivio nel quale l‟autore attesta il proprio giovanile incontro con l‟opera boeziana, già erroneamente riferito da Trifon Gabriele alla Vita nova.

Nell‟ambito degli studi moderni va registrata la cautela di Moore che, per l‟autorevolezza riconosciuta comunque all‟alternativa ipotesi virgiliana, classifica il confronto tra If V 121-123 e Cons. II pr. 4 § 2 come molto probabile (b)223. Lo studioso inglese, sebbene giudichi la citazione dantesca come una ripresa quasi letterale del passo boeziano224, non si sbilancia circa l‟identificazione del «tuo dottore», ritenendo plausibile che l‟epiteto si riferisca allo stesso Boezio, ma neppure escludendo che alluda a Virgilio, più che per motivazioni biografiche, in ragione di quel famoso verso dell‟Eneide (II 3) spesso evocato dai commentatori antichi225

. In realtà Moore valuta poco stringente il raffronto con il verso virgiliano ed ipotizza un collegamento tra i frequenti elogi a Boezio attestati nel Convivio e la probabile menzione del filosofo come «dottore», da intendersi come un ulteriore riconoscimento della sua auctoritas, coerente in particolare con la certificazione della Consolatio come modello retorico in Cv II XV 2

(scheda 7)226.

Per l‟identificazione del «dottore» con Boezio, sulla scorta dei commentatori cinquecenteschi, si pronuncia Murari, osservando opportunamente che quel titolo nella

Commedia non è riservato esclusivamente a Virgilio (If V 70; XVI 13, 48; Pg XVII 2;

XXI 22, 131) e che quindi, come designa anche Stazio (Pg XXIV 143), non è da escludere possa riferirsi pure a Boezio, tanto più che l‟autore della Consolatio viene insignito altrove di appellativi altrettanto onorevoli e affini sul piano semantico quali,

223

Cfr. MOORE, Studies in Dante cit., pp. 282-283; 356.

224

«These words seem to be an almost verbatim reproduction of a paasage in Boethius» (ivi, p. 283).

225

«At the same time it is extremely doubtful whether Boethius would have been referred to (especially in language put into the mouth of Francesca) as „il dottore‟ di Dante. This title would much more naturally belong to Virgil (the „dottore‟ then present), thogh it is not easy to identify any passage corresponding to this in his works. Hence it has been suggested, but improbably enough, that it may merely refer to Virgil‟s personal exeperience of life. […] The passage from Virgil, wich is generally thought to be referred to, is Aen. ii. 3» (ivi).

226

«Is it not perhaps possible that in consideration of the debt acknowledged to Boethius by Dante in the passage above quoted from the Convito (and specially Conv. II. xvi), that he may have here given to him