Capitolo quarto La virtù
1. Il problema delle virtù civili in Alberto Magno: la definizione di virtù, il rapporto tra le virtù cardinali, la
denominazione “cardinali/politiche”
Una volta definite tutte le cause della virtù, dopo un lungo processo che gli ha permesso di delineare tutti i punti critici e di sciogliere le controversie, Alberto chiude il cerchio cercando di offrire una definizione della virtù in sé.
Il tema viene introdotto a partire da quattro definizioni, due da Agostino, una da Cicerone e l’ultima da Aristotele. La prima definizione ‘agostiniana’, per cui «la virtù è una buona qualità della mente, per la quale viviamo bene e non compiamo il male, con cui Dio compie il bene in noi senza di noi»1, si trova in realtà nel Commento alle Sentenze di Pietro
Lombardo. La seconda definizione invece è proprio di Agostino, che nel De
moribus ecclesiae (I, 15, 25) scrive:
Quod si virtus ad beatam vitam nos ducit, nihil omnino esse virtutem affirmaverim nisi summum amorem Dei. Namque illud quod quadripartita dicitur virtus, ex ipsius amoris vario quodam affectu, quantum intelligo, dicitur. Itaque illas quattuor virtutes, quarum utinam ita in mentibus vis ut nomina in ore sunt omnium, sic etiam definire non dubitem, ut temperantia sit amor integrum se praebens ei quod amatur, fortitudo amor facile tolerans omnia propter quod amatur, iustitia amor soli amato serviens et propterea recte dominans, prudentia amor ea quibus adiuvatur ab eis quibus impeditur sagaciter seligens2.
1 Alberto Magno, De bono, cit., tr. I, q. V, art. 1, p. 67, ll. 8-10: «Virtus est bona qualtas mentis, qua recte vivitur, qua nemo male utitur, quam deus in nobis sine nobis operatur». 2 Agostino, De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manicheorum, De quantitate animae, J.K. Coyle et al., Edizioni Augustinus, Palermo 1991, libro I, 15, 25.
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Per quanto concerne la virtù che ci guida ad una vita di beatitudine, sono pronto ad affermare che la virtù non è nient’altro che amore perfetto di Dio. Infatti considero la quadruplice divisione della virtù come derivata da quattro forme di amore. Queste quattro virtù (potessero sentirne tutti un’influenza nella loro mente per quante volte ne pronunciano i nomi con la bocca!) non avrei esitazione a definirle: la temperanza è amore che si dà interamente a ciò che è amato; la fortezza è amore che sopporta con prontezza ogni cosa per il bene dell’oggetto amato; la giustizia è amore che serve solo l’oggetto amato e per questo governa con giustizia; la prudenza è amore che distingue con sagacia tra ciò che ostacola e ciò che aiuta (trad. mia).
Le obiezioni alle affermazioni agostiniane riportate da Alberto sono molteplici e tra esse ne spiccano due: è discutibile che la virtù si riferisca alla mente, dal momento che porta a perfezione la parte irrazionale dell’anima, non la parte superiore3; la seconda obiezione è che, come è stato già stabilito
nelle pagine precedenti, causa della virtù è la volontà assieme a scelta e deliberazione, dunque non Dio, come vorrebbe la prima definizione4. Nelle
sue risposte Alberto risolve sostenendo che la prima definizione parla della virtù infusa per mezzo della grazia, per cui ben si spiega quel «quam deus operatur in nobis sine nobis»5, mentre le cause efficienti già trattate si
riferiscono alla virtù consuetudinale. Inoltre alla precedente obiezione risponde sostenendo che, sebbene la virtù perfezioni la parte irrazionale dell’anima umana, essa partecipa in un certo senso della ragione, come vedremo, grazie alla prudenza ed alla giustizia6.
Ma perché riferirsi ad una definizione del tutto sovrannaturale della virtù quando qui l’intento primario è definire una virtù naturale umana? Cunningham spiega così questo punto controverso:
3 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. V, art. 1, p. 68, ll. 1-7. 4 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 68, ll. 43-46.
5Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 67, ll. 9-10. Cfr. ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 73, ll. 6-12.
6Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 72, ll. 75-78: «Virtutes autem animae sive potentiae, quae secundum se sunt irrationales, secundum ordinem tamen ad rationem participant qualiter ratione et ita participant etiam mente».
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Forse Alberto ha iniziato la sua analisi della virtù vera e propria con questa definizione agostiniano-teocentrica per rispetto della tradizione. La maggior parte dei trattati sulla virtù di questo periodo del Medioevo iniziano in questo modo. È più probabile, comunque, che lo scopo primario di Alberto fosse strategico e dialettico: restringendo questa definizione alle virtù infuse, poteva poi metterla da parte, per poi procedere più decisamente a difendere lo status speciale della virtù naturale7.
Insomma tale definizione servirebbe a delimitare ancora una volta il campo di studio di Alberto, che non si occupa di virtù infuse dalla grazia ma solo di quelle naturalmente acquisite dall’uomo con l’esercizio.
Le altre due definizioni presenti, di Cicerone e di Aristotele, si riferiscono invece proprio alla virtù consuetudinaria. Quella ciceroniana recita: «La virtù è l’habitus dell’anima che si accorda alla natura al modo della ragione»8. Cicerone la formula nel De inventione quando, per definire
l’onesto, sostiene che ciò che abbraccia tutti gli attributi dell’onesto è la virtù9. Siamo nel punto in cui egli procederà poi a trattare delle quattro
virtù.
Dalla definizione ciceroniana deriva una concezione della virtù come di un habitus conforme alla ragione; ma qualcuno potrebbe obiettare che la virtù ha a che fare con quella parte dell’anima che è irrazionale e concupiscibile10. Un’altra obiezione muove contro quel «si accorda alla
natura al modo della ragione», sostenendo che si accorda più in modo contrario, ovvero irrazionale, alla natura11.
Alberto tiene in considerazione tutte queste obiezioni e tuttavia spazza il campo da ogni dubbio: la definizione di Cicerone è buona, ben provata e si riferisce alla virtù consuetudinale. Nella risposta ad 13um Alberto replica che ci possono essere due cause moventi della volontà: una è la fantasia, l’altra l’intelletto. Mentre la fantasia può causare opere perverse e inclinare al male, l’intelletto è sempre retto12. Conformarsi ad
7 Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p. 160, traduzione mia.
8 «Virtus est animi habitus naturae modo rationis consentaneus», Alberto Magno, De bono, tr. I, q. V, art. 1, p. 67, ll. 14-15. Cfr. Cicerone, De inventione, cit., p. 301, II, 53.
9 Cicerone, De inventione, II, 53.
10 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. V, art. 1, p. 68, ll. 72-74. 11 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 69, ll. 15-16.
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esso significa conformarsi all’habitus razionale e naturale umano. La similitudine fatta tra la virtù e la natura è motivata dal modo in cui entrambe si muovono verso il proprio oggetto determinato: difatti «così come la forma muove nella natura in modo certo e determinato, così la virtù muove al medio in modo certo e determinato»13. Si può dire che come la forma sta
alla natura, così il giusto mezzo sta alla virtù. Infine, la virtù è più certa dell’arte e si avvicina alla certezza della natura per il modo che abbiamo detto.
L’ultima definizione è sicuramente quella più nota: «La virtù è l’habitus volontario consistente in una medietà rispetto a noi, [concernente la scelta] fatta per una determinata ragione così come la farebbe il saggio»14.
Aristotele in questo passaggio ha già stabilito che il giusto mezzo è l’intermedio rispetto a noi, che non è mai uno solo né lo stesso per tutti e che non è da cogliere secondo la proporzione matematica15. Egli ribadisce
che la virtù, come la natura, è più precisa di ogni arte e che riguarda le passioni e le azioni. In questo contesto si colloca anche la presa di coscienza della difficoltà del compiere azioni virtuose, poiché è «facile fallire il bersaglio, difficile il coglierlo»16. La stessa definizione aristotelica viene
adottate nel De natura boni17, nel commento Super III Sententiarum18 e nei
commenti biblici19, con poche variazioni. Aristotele deve aver colpito
positivamente Alberto in modo così profondo che egli non è mai riuscito a staccarsi del tutto da questa definizione e tende a tornarvi sempre.
Ogni passaggio di questa definizione è criticato aspramente nelle obiezioni. È opportuno considerare punto per punto le obiezioni e le risposte relative di Alberto.
13 «Sicut enim forma movet in natura certe et determinate, sic virtus movet ad medium determinate et certe», ibidem, traduzione mia.
14 «Virtus est habitus voluntarius in medietate consistens quoad nos, determinata ratione, et ut sapiens determinabit», ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 67, ll. 16-18, traduzione mia. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6, 1107 a.
15 Ivi, II, 6, 1106 a 15- 1106 b. 16 Ivi, II, 6, 1106 b 32.
17 Tracey, The Moral Thought of Albert the Great, cit., p. 354. 18 Ivi, cit., p. 367.
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Definizione di Aristotele Obiezioni Risposte di Alberto La virtù è un habitus Ogni habitus è o infuso o
acquisito. L’habitus acquisito ha bisogno di una disposizione20.
La virtù consuetudinale è prima una disposizione e poi un habitus21.
Volontario Sono volontarie le operazioni, non l’habitus22.
L’habitus virtuoso è volontario per il suo principio di generazione. La volontà è la principale causa efficiente di virtù23.
consistente in una medietà rispetto a noi
La medietà è rispetto all’oggetto e non a noi24.
Il medio della cosa differisce dal medio rispetto a noi, che cambia a seconda dell’oggetto e dell’opera25.
[…] così come la farebbe il saggio.
Ma il sapere non conferisce niente di più alla virtù26.
Il sapiente determina il medio. Il sapere congiunto all’opera determina la virtù27.
La definizione aristotelica è per Alberto la migliore, quella che veramente definisce la virtù consuetudinale. La virtù è un habitus che consiste in una medietà tra piaceri e dolori, che esige la conoscenza di tutte le circostanze con un fine conveniente all’atto che tiene conto delle circostanze materiali; tale medio è virtuoso, mentre gli estremi sono le corruzioni dell’anima che portano al vizio e distolgono dalla virtù28. Essa è
20 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. V, art. 1, p. 70, ll. 3-9.
21 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 74, ad 25um, ll. 60-71. Qui come si può vedere Alberto accoglie in parte l’obiezione mossa ad Aristotele e concede che la virtù sia prima una disposizione e poi un habitus, sebbene non sia definita dal suo essere disposizione ma dal suo essere habitus. Inoltre per quanto riguarda la domanda “come si passa dalla disposizione all’habitus?”, egli risponde che non c’è differenza qualitativa tra l’habitus e la disposizione.
22 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 70, ll. 29-31: «Preaterea, supra habitum est, quod habitus non omnino sunt voluntarii, sed operationes, ergo iterum male dicitur habitus voluntarius». 23 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 74, ad 28um, ll. 87-89: «Ad aliud dicendum, quod virtutis non est voluntarius nisi quoad principium suae generationis». Cfr. ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 75, ll. 10- 14.
24 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 71.
25 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 75, ad 36um, ll. 50-53: «Ad aliud dicendum, quod per li quoad nos notatur distinctio medii tam a medio rei, quod non est in genere medii virtutis, quam etiam a medio, quod est in diversis operantibus et diversis operationibus».
26 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 71, ll. 60-61: «Et quocumque modo accipiat, videtur falsum, quia ipse dicit, quod scire parum vel nihil confert ad virtutem».
27 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 75, ad 39um, ll. 78-90.
28 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 74, ad 22um, ll. 14-34: «Ad existentiam virtutis exiguntur omnes circumstantiae cum fine convenientes ad actum super debitam materiam, ad malum autem et ad vitium sufficit corruptio uniuscuiusque per se. […] Virtus est medie inter delectationes et tristitias».
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potenzialità per il soggetto di cui è perfezionamento: porta a miglioramento le qualità personali29. Come abbiamo visto, la virtù è per Alberto prima una
disposizione e poi un habitus: in altre parole egli sostiene che vi sia qualcosa di innato, una componente che nasce con l’uomo e che permette lo sviluppo delle virtù30. Questo è assolutamente assente dal testo aristotelico, che mai
avrebbe ammesso tale componente innata. La virtù è volontaria non come le sue operazioni, che sono appieno volontarie, ma lo è per il suo cominciamento, nel quale interviene la volontà spingendo l’uomo a compiere azioni virtuose. In seguito, quando l’habitus è sviluppato, tale componente volontaria sbiadisce senza però mai sparire del tutto31.
Il discorso qui sviluppato non è avulso da elementi metafisici, che Alberto riporta costantemente nella sua trattazione morale. Difatti si legge che «il bene che è posto nella definizione della virtù non è soltanto il bene fisico o il bene in genere, ma il bene formale»32, ovvero non si tratta di
generiche istanze di bene ma di un bene determinato, l’onesto, che rientra nell’essenza della virtù33. Qui Alberto, definendo il bene della virtù con
l’onesto, si avvicina molto alla trattazione ciceroniana. L’onesto è ciò che è desiderato per se stesso, come un fine, ed è così che dovremmo pensare alla virtù34. Ancora una volta troviamo qui il concetto fondamentale di «totum
potestativum»35: l’onesto è un tutto potestativo, la cui perfezione si
compone delle potenze particolari di tutte le sue parti, ovvero di tutte le virtù.
29 Ibidem, ad 24um, ll. 53-59: «Ad id quod ibicitur, quod sit in genere potentiae, dicendum, quod non. Cum autem virtus diffinitur per potentiam, intelligitur de virtute naturali, vel si intelligitur de virtute, quae est habitus, tunc non diffinitur per potentiam, nisi sit per subiectum, cuius ipsa est perfectiva et quod ipsa ponit in ultimo suo posse. Concedimus autem, quod est in genere habitus».
30 Ibidem, ad 25um, ll. 60-72: «Licet consuetudinalis virtus prius sit in dispositione quam in habitu, non tamen tunc est virtus et propter hoc non diffinitur per dispositionem. […] Ens qualitatis, quod est quid in dispositione et habitu, non habet differentiam».
31 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 75, ad 29um, ll. 10-13: «Licet plura sint efficientia virtutem, unum tamen est principale, quod est voluntas. Hoc enim est efficiens operationis, quae immediate causat virtutem consuetudinalem».
32 «Bonum quod ponitur in diffinitione virtutis non est bonum naturae vel in genere tantum, sed est bonum formale», ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 71, ad 1um, ll. 73-75.
33 Ibidem, l. 76: «Quod est honestum et substantiale virtuti».
34 Ivi, tr. I, q. V, art. 1, p. 72, ad 3um, ll. 51-53: «Honestum enim est, quod propter se expetitur, et hoc est finis. Et si virtus pars honestatis, secundum hoc erit bonum, quod est honestum».
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Tornando a riflessioni metafisiche, Alberto afferma che come istanza di bene si può concepire la virtù in tre modi: come fine in se stessa, come mezzo per un bene, ovvero la felicità, e come effetto prodotto da un bene precedente, ovvero la buona disposizione inclinante al perfezionamento della virtù36. Tuttavia non vi è contraddizione nel considerare la virtù sia
come fine che come mezzo37, ma dobbiamo considerare che essa si comporti
proprio come l’onesto, fine in sé e mezzo per un fine che è bene.
Alberto è ben conscio della difficoltà dell’opera che sta concependo e di tutti gli ostacoli pratici che possono insorgere nel mettere in pratica le sue idee. Non fa quindi mistero della componente difficoltosa della virtù, mettendola anzi in luce come modo per distinguere l’habitus dalla mera disposizione38: la virtù nasce da una difficile applicazione di principi,
ripetendo atti virtuosi nei quali emerge tutto lo sforzo del condurre una vita virtuosa. Essa inclinerà l’uomo all’eccellenza. Alberto è ben conscio della componente dinamica dell’azione morale.
Come abbiamo visto nella definizione ciceroniana, la ragione è non meno indispensabile della volontà alla costruzione dell’impalcatura virtuosa. In effetti «sebbene sia la ragione che la volontà siano giustamente distinte come differenti facoltà umane, non possono in realtà essere separate»39. La ragione interviene nel comporre la virtù, che partecipa di
essa: sebbene infatti «le virtù dell’anima o potenzialità […] siano secundum
se irrazionali, tuttavia secondo l’ordine partecipano alla ragione»40, come a
dire che le virtù nascono come perfezionamenti di parti irrazionali,
36 Ibidem, ad 2um, ll. 27-29: «Virtus dicitur bonum tribus modis, scilicet quia est finis et ad bonum et a bono».
37 Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p. 162: «Even though we may view virtue in two different perspectives, as an end and as a means, there is no contradiction involved when we predicate both absolute good and usefulness of virtue. On the contrary, the useful good is itself a virtual part of the honestum».
38 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. V, art. 1, p. 74, ad 25um, ll. 68-72: «Differentiae autem supervenientes, quae distinguunt ipsum, sunt difficile mobile et facile mobile, et illae etiam non sunt simpliciter oppositae, sed una ponit ordinem ad alteram, sicut est ordo imperfecti ad perfectum».
39 «Though both reason and will are rightfully distinguished as different human powers, they cannot in reality be divorced», Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p.164, traduzione mia.
40 Alberto Magno, De bono, cit., tr. I, q. V, art. 1, p. 72, ad 5um, ll. 75-77: «Virtutes autem animae sive potentiae, quae secundum se sunt irrationales, secundum ordinem tamen ad rationem participant qualiter ratione», traduzione mia.
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concupiscibile ed irascibile, dell’animo umano, ma per giungere all’eccellenza hanno bisogno della ragion pratica, di una riflessione su quelli che sono i principi che guidano l’azione, su quelli che sono gli scopi. In altre parole ancora una volta è evidenziato il ruolo della prudenza tra tutte le virtù: «la virtù morale non nasce semplicemente dalla ragione, ma dalla ragione informata dalla saggezza morale. Infatti, la virtù non può essere separata dalla ragione prudenziale, poiché è la prudenza che determina sia il fine che la struttura intelligibile di ogni virtù»41.
Il breve articolo 2 tratta di come tali definizioni siano applicabili alle singole virtù. Alberto riporta alcuni esempi aristotelici degli estremi delle varie virtù, estremi biasimevoli che si oppongono a medietà lodevoli. Sebbene vi siano due estremi di ogni virtù nel genere, ve ne sono molti nella specie, ovvero molti tipi di corruzione che possono deviare l’azione dal campo della virtù.
Alberto procede poi chiedendosi nella quaestio VI presso che cosa possiamo trovare le quattro virtù. Le virtù sono infatti quattro per una tradizione che è portata avanti da Bonaventura, Odone Rigaldi, Alessandro di Hales e altri, la cui fonte comune è la Summa de bono di Filippo il Cancelliere42, che è il primo a porsi un semplice problema: perché, se le
facoltà dell’anima sono tre, devono esserci quattro virtù? La risposta è che la virtù non si definisce per la facoltà che porta a perfezionamento, ma per l’atto che la fa compiere, e mentre la facoltà irascibile e concupiscibile dispongono di un solo atto, che corrisponde rispettivamente alla fortezza e alla temperanza, la facoltà della ragion pratica possiede due atti: il discernere il bene dal male, che corrisponde alla prudenza, e l’orientamento al prossimo, che corrisponde alla giustizia43.
41 «Moral virtue issues not simply from reason, but from reason informed by moral wisdom. Indeed, virtue cannot be divorced from prudential reason because it is prudence that determines both the end and the intelligible structure of each virtue», Cunningham, Reclaiming Moral Agency, cit., p. 166, traduzione mia.
42 Lottin, Psychologie et Morale aux XIIe et XIIe siècles, cit., Tome III Seconde partie, pp.
156-166.
43 Filippo il Cancelliere, Summa de bono, cit., f. 166 vb: «Numerus virtutum non sumitur secundum numerum virium, sed actuum principalium. Cum enim virtutes sint perfectiones virium, sunt earum perfectione in comparatione ad actum. Sic ergo iuxta actum concupiscibilis prout ordinatur a ratione, sumitur temperantia, scilicet refrenare
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Alberto, tra le altre, riporta l’opinione di Filippo (senza nominarlo, com’era consuetudine scolastica quando si riportavano posizioni di autori contemporanei, ma riferendosi a lui con quidam). Egli ha in primo luogo riportato la distinzione aristotelica tra quelle parti dell’anima, come la concupiscibile e l’irascibile, che sono razionali nel senso in cui partecipano della ragione, e quelle come la vegetativa che sono del tutto irrazionali, non avendo alcun rapporto con la razionalità. Difatti Aristotele scrive:
Nell’anima irrazionale, una parte sembra essere comune anche ai vegetali, e con ciò voglio dire la causa della nutrizione e della crescita. [...] Ma basta su questo, ed è meglio lasciar stare la parte nutritiva, dato che per natura non ha nulla a che fare con la virtù umana; anche un’altra parte dell’anima sembrerebbe essere irrazionale, ma essa partecipa della ragione. Infatti lodiamo la ragione, e la parte razionale dell’anima, sia in chi si domina, sia