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La volontà; volontario e involontario

Cause efficienti e finali della virtù

2. Cause efficienti prossime e remote della virtù

2.2 La volontà; volontario e involontario

Abbiamo visto nel precedente paragrafo che le azioni morali sono operate volontariamente. Vi è dunque un motore che ci spinge ad agire cosicché le nostre azioni siano qualificate come lodevoli o degne di biasimo: è la volontà, che Alberto sostiene sia la causa efficiente remota della virtù. Ma in che cosa consiste?

Alberto propone delle distinzioni che precedono l’articolo riguardante propriamente la volontà. Qui faremo invece un percorso diretto al volontario, per distinguerlo poi da ciò che è involontario e in seguito individuarne le componenti: prohairesis e consilium. Azioni volontarie sono quelle «il cui principio è in se stesso»21 e in cui «conosciamo le

singolarità in cui si svolge l’azione»22. Dunque dire azione volontaria

significa dire da una parte “azione libera”, che non è obbligata ad esser compiuta da fattori esterni ma che viene da noi; dall’altra “azione cosciente” in cui considerate tutte le circostanze particolari a noi note, in cui si svolge

19 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 2, p. 49, ad 6um e ad 7um, ll. 57-87.

20 Ivi, tr. I, q. IV, art. 2, p. 50, ad 15um, ll. 67-72: «Nihil prohibet in toto potestativo, quod idem sit causa et causatum respectu eiusdem […]. Opus enim causat virtutem secundum sui essentiam, sed virtus causat opus secundum facultatem attingendi medium», traduzione mia.

21 Ivi, tr. I, q. IV, art. 5, p. 58, ad 1um: «Dicendum ad primum, quod duo cadunt in diffinitione voluntarii, scilicet ‘cuius principium est in seipso’, et per hoc opponitur involuntario per violentiam, et ‘cognoscenti singularia, in quibus est operatio’, et per hoc opponitur involuntario per ignorantiam», traduzione mia.

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l’azione, deliberiamo su ciò che è bene fare. La definizione di Alberto è la stessa data da Aristotele: «il volontario ci sembrerà essere ciò il cui principio è in chi agisce, quando costui conosca i singoli aspetti nei quali l’azione si verifica»23.

Per quanto riguarda i termini qui usati, volontario e involontario (gli stessi che usa Alberto), e le citazioni da Aristotele, è doveroso fare alcune precisazioni. In effetti nell’Ethica vetus che Alberto ha davanti sono così tradotti i termini hekousion (ἑκούσιον) e akousion (ἀκούσιον), che in greco significano più che altro, rispettivamente, “spontaneo, deliberato” e “controvoglia, forzato”24. Non si può imputare ad Aristotele una teoria della

volontà come ad Alberto, perché è in questo senso che egli usa tali termini. «La sua discussione (specialmente nel Libro III) ha invece a che fare con caratteristiche situazionali – violenza, compulsione, ignoranza dei particolari di una situazione – che mitigano o bloccano il nostro essere

agente morale»25, si legge in Cunningham. Aristotele non si occupa quindi

come fa invece Alberto della libera scelta e della volontà in sé.

Entrambi gli autori, Alberto ed Aristotele, non concordano con chi afferma che le azioni compiute sotto l’impulso della rabbia e o dell’impetuosità non siano volontarie: sta proprio qui il compito della virtù posseduta (o, per chi non la possiede ancora, della sua costruzione): dominare impulsi e passioni che potrebbero rendere malvagie le nostre azioni. Si può certo dire che la rabbia e altri sentimenti offuschino le capacità deliberative o il prendere in considerazione le circostanze, ma non per questo si può affermare che allora di tali azioni non siamo responsabili.

Una volta definito ciò che è volontario, possiamo vedere facilmente ciò che non lo è. L’involontario si ha in due modi: da una parte

involuntarium per violentiam, dall’altra per ignorantiam. Nel primo caso

23 Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1, 1111 a 21-24, tr. it. di C. Natali.

24 B. Lienemann, Aristotle’s Treatment of Force and Compulsion as Exculpatory Conditions for Moral Responsibility, «Center for Hellenic Studies Research Bulletin» 2/1, (2013):

http://nrs.harvard.edu/urn3:hlnc.essay:LienemannB.Aristotles_Treatment_of_Force_a nd_Compulsion.2013

25 Cunningham, Reclaiming moral agency, cit., p. 149: «His discussion (especially Book III) has rather to do with situational features – violenca, compulsion, ignorance of the particulars of a situation – that mitigate or impede our moral agency», traduzione mia.

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si tratta di un’azione compiuta sotto minaccia o costrizione, che dunque non proviene dal soggetto agente ma da altro, da una causa efficiente e cogente esterna26. Il riferimento principale per queste affermazioni è Aristotele.

Nella risposta ad 1um Alberto distingue l’organo tramite cui è performata l’azione (lo strumento) dalla volontà, motore dell’azione: nell’involontario per violenza la volontà è esterna e costringe un certo organo della persona sottomessa a far ciò che vuole lei27.

In effetti però dalle varie puntualizzazioni fatte nelle risposte ci si accorge che l’involontario per violenza non è poi così scusato da parte di Alberto: ad esempio fare qualcosa per paura non deresponsabilizza sempre (simpliciter), ma a seconda del caso e della minaccia davanti a cui ci troviamo28. Nella risposta ad 12um Alberto esclude invece che le tentazioni

corporali possano scusare dall’azione. Questo tema viene affrontato anche da San Paolo, nella Lettera ai Romani, dove si legge: «Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra»29. A questa lex membrorum ci riferiremo

anche nella sezione riguardante la virtù della giustizia30. Essa secondo

Alberto non costringe come una forza esterna ma tenta il soggetto agente31.

Pur di non commettere il male secondo Alberto dovremmo affrontare qualsiasi pericolo, anche la morte.

Molto più deresponsabilizzante è l’involontario per ignoranza, o

involontarium per ignorantiam facti, cioè il compiere un’azione in cui non

si conoscono tutte le circostanze particolari coinvolte. In realtà non tutte le circostanze sono ignorate contemporaneamente, ma ora l’una, ora l’altra; particolarmente importante è il caso in cui si ignori la circostanza quid, centrale per l’azione stessa32. Da questa ignorantia facti vanno distinti quei

26 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 3, p. 51, ll.1-10. 27 Ivi, tr. I, q. IV, art. 3, p. 53, ll. 5-15.

28 Ibidem, ad 6um, ll.37-41.

29 S. Paolo, Lettera ai Romani, 7,23, da La Sacra Bibbia, cit.. 30 Questa tesi, cap. 4. 5.

31 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 3, p. 53, ad 12um, ll. 93-95. 32 Ivi, tr. I, q. IV, art. 4, p. 54, ll. 1-6.

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casi in cui c’è un’ignoranza che non scusa l’azione: sono quattro e li troviamo nell’Etica Nicomachea di Aristotele.

Per primo abbiamo l’involontario che non porta dolore e non provoca pentimento: che l’agente sia successivamente pentito e pieno di rimorso è una condizione imprescindibile per scusare l’azione involontaria; in caso contrario l’azione non viene affatto perdonata33. Poi abbiamo il caso della

persona ebbra o irata: «chi è ubriaco o infuriato non ci pare agisca per ignoranza, ma agisce per una delle cause dette, ubriachezza o furore, senza sapere quello che fa, ignorandolo»34, dove agire per ignoranza non

corrisponde ad agire ignorando quel che si fa. Chi è ubriaco o irato si trova in una condizione di consapevolezza alterata, in cui la sua ratio è offuscata, è vero, ma è stato lui stesso a provocare questo stato, dunque non è scusabile. Abbiamo poi il caso in cui si ignora ciò che è giusto scegliere per l’azione: «l’ignoranza che si annida nella scelta non è causa dell’involontarietà, ma della cattiveria»35. Si tratta di azioni che non sono

quindi rivolte al bene come nel caso in cui si ignorano le circostanze, ma al male, che è privazione dei principi dell’azione buona, quando non si conosce ciò che si deve fare. Simile a questo tipo è infine l’ignoranza universalis, cioè quella che riguarda l’ignoranza della premessa maggiore del sillogismo pratico36. Nella risposta ad 14um Alberto aggiunge un altro caso di

ignoranza non deresponsabilizzante: quella del diritto. Infatti, in base al principio detto ancora oggi di “presunzione di conoscenza della legge”, invocare la non conoscenza di una legge non ci scusa né dal punto di vista morale né da quello giuridico37.

Per concludere, vediamo quali fossero le opinioni dell’epoca a proposito di quest’ultimo tipo d’ignoranza, quella del diritto. Sicuramente il tema era ben presente nei decretisti, già Graziano (XII secolo), il padre del

33 Ivi, tr. I, q. IV, art. 4, p. 56, ad 7um, ll. 81-86: «Involuntarium hoc modo dictum, scilicet a privatione regiminis per habitum rationis, in quo est voluntas, duo habet signa, scilicet tristitiam de praesenti male, quod incidit, et paenitudinem de praeterito perpetrato. Haec autemnon causant involuntarium, sed ostandunt ut signa».

34 Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1, 1110 b 27-29, trad. it. cit. 35 Alberto Magno, De bono, tr. I, q. IV, art. 4, p. 57, ad 13um, ll. 47-50. 36 Ibidem, ad 10um, ll. 26-29.

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diritto canonico, distingue l’ignorantia facti dall’ignorantia iuris e in quest’ultima distingue da una parte l’ignoranza dello ius civile (che solo alcuni sono tenuti a conoscere, mentre gli altri possono ignorarlo senza che ciò sia loro imputabile), dall’altra l’ignoranza dello ius naturale, che non può essere affatto invocata per attenuare la colpa di un’azione compiuta, poiché chi ha l’uso della ragione non può non conoscere, comunque, la legge naturale38. Su questa linea, sia Rolando Bandinelli che Stefano di Tournai

sostengono che mentre l’ignoranza facti può scusare dall’azione compiuta, l’ignoranza iuris non può valere da scusante39. Sebbene nel XII secolo vi sia

poco interesse per la questione tra i teologi, troviamo alcune ulteriori distinzioni operate da Simone di Tournai, che entro l’ignoranza iuris distingue quella della legge positiva (che talvolta può scusare o attenuare la colpa) da quella della legge naturale, che, in accordo con i decretisti, non scusa affatto40. Il cancelliere Prevostino da Cremona compie un’ulteriore

distinzione, tra ignoranza invincibile, che scusa in ogni caso, semplice o vincibile e voluta, che aggrava il peccato commesso. Ci troviamo qui però su un altro piano, più teologico-morale che giuridico41.

Infine il discorso sull’ignoranza entra nelle discussioni scolastiche del primo XIII secolo grazie a Guglielmo d’Auxerre, che distingue tra

ignorantia negationis (assenza di conoscenza), ignorantia privationis

(assenza di conoscenza che si è però tenuti ad avere) e ignorantia

dispositionis, giudizio contrario alla verità, diviso in ignoranza del fatto e

della legge: anche qui quest’ultima non vale da scusante42. Anche per uno dei primi maestri francescani, Alessandro di Hales, l’ignoranza della legge non può essere invocata come scusante poiché ognuno è tenuto a conoscere la legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo43. E, sempre in ambito

teologico francescano, Giovanni de la Rochelle distingue tra ignoranza del

38 H. Kantorowicz - W. W. Buckland, Studies in the Glossators of the Roman Law. Newly Discovered Writings of the Twlfth Century, Cambridge University Press, Cambridge 1938, p. 80. Cfr. Lottin, Psychologie et Morale aux XIIe et XIIe siècles, cit., Tome III, seconde

partie, pp. 56-57. 39 Ivi, pp. 57-58. 40 Ivi, pp. 63-64. 41 Ivi, pp. 68-69. 42 Ivi, pp. 70-74. 43 Ivi, pp. 74-75.

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diritto naturale, che non può essere portata a discolpa, e ignoranza della legge divina, che in certi casi specifici può scusare dall’azione commessa44.

È con questo dibatto alle spalle che giunge infine Alberto, che distingue tra ignoranza del fatto, scusante, e ignorantia iuris, o universale, che al contrario di scusare accresce la colpa di chi compie l’azione incriminata.