• Non ci sono risultati.

1.5 Le Lombarde

1.5.1 Caro Gianfranco

Uno tra i pochissimi studiosi a rilevare l’oblio in cui, nel corso del tempo, è caduta l’opera del nostro, è stato, negli anni Ottanta, Claudio Melodolesi, il quale, nei suoi Fondamenti del teatro italiano, definendolo un «testo ingiustificatamente dimenticato»118, annotava: «È sorprendente che gli studi su Testori non accennino nemmeno alle Lombarde e che facciano nascere il suo teatro solamente dalla Caterina di Dio […]. All’opposto, nel ’50, la stampa veneta parlò dell’autore delle Lombarde come di un debuttante»119

.

Il dattiloscritto120 titolato Le Lombarde consta di 46 fogli dattiloscritti e numerati (in alto), con correzioni a penna121 ed è corredato di una lettera firmata Gianni122 indirizzata al regista Gianfranco De Bosio:

Caro Gianfranco[,]

approfitto della venuta a Padova di Padre Davide123 per mandarti “Le Lombarde”, come le ho dopo lunghe meditazioni, ridotte: e già te ne avevo parlato a Brescia. Forse è troppo chiedere a te e ai tuoi attori di ridurre anche la realizzazione: ma leggile: e se,

116

Ibid., p. 164.

117

F. Panzeri, La “pietà grande” di Sormano, in G. Testori, Cristo e la donna, cit., p. 5.

118

C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, cit., p. 426.

119

Ibid., nota.

120

Le Lombarde, il dattiloscritto inedito di G. Testori, cfr. infra Appendice B.

121

La grafia è di Testori.

122

Diminutivo con cui era solito farsi chiamare Testori.

123

Padre David Maria Turoldo, che Testori in quegli anni frequentava e grazie al quale aveva trovato un appartamento in affitto.

come fermamente credo, ti parranno più vere, decidi tu. Soprattutto se le porti a Roma124.

Dall’incipit della lettera datata 3 maggio 1950 (data scritta a mano, in cifre, in basso a sinistra125), si apprende subito un dato significativo: il testo rinvenuto non è il copione della messa in scena del 1° marzo 1950 al Teatro Verdi di Padova, spettacolo scrupolosamente descritto e commentato da un articolo apparso sulla «Gazzetta Veneta» il giorno successivo la rappresentazione126, che portava la firma del critico Gastone Geron.

Il dattiloscritto, infatti, è una riduzione della pièce rappresentata due mesi prima: Testori dichiara di averle «ridotte», perciò si presuppone che non siano state apportate modifiche rispetto a quelle originarie, o meglio, che tali modifiche siano solo in termini di diminuzione del testo. Avendo così operato, propone all’amico padovano (d’adozione) di procedere analogamente e «ridurre […] la realizzazione», pur sapendo di azzardare («forse è troppo chieder[lo]»), dato il non trascurabile lavoro di prove e di allestimento, in termini quantitativi e qualitativi, da parte del regista e della sua Compagnia.

La lettera a De Bosio prosegue con l’indicazione su quali tagli erano stati effettuati e per quali motivazioni: «praticamente tutta l’inchiesta»127

, la quale doveva riguardare le molteplici cause (colpe e colpevoli) che avrebbero determinato il naufragio di Albenga. Quanto era stato «tagliato» era «un modo ancora drammatico e “a tesi”, di esprimere una convinzione, che invece risulta espressa solo in quanto implicita nell’accadere dell’avvenimento». Con queste parole Testori, oltre a fornire le ragioni del cambiamento della sua opera, accorciata «dopo lunghe meditazioni», dà un’indicazione sulle intenzioni con cui ora decideva di riguardare al proprio dramma. Non si trattava, quindi, solo di uno sfrondamento in termini di porzioni di testo, quanto piuttosto di una scelta derivata da una messa a fuoco della propria poetica; quanto dichiara all’amico, a motivo delle sue revisioni, è infatti una dichiarazione esplicita di quel che il giovane drammaturgo di allora, crede sia o debba essere la tragedia, e perciò i principi cui si vuole attenere nell’atto di (ri)scrivere.

L’argomento del proprio testo, ovvero il nucleo tragico, non doveva essere esposto e spiegato in maniera didascalica («“a tesi”»), ma doveva evincersi dall’avvenimento stesso,

124

Lettera di G. Testori a G. De Bosio, 3 maggio 1950, archivio personale di G. De Bosio; cfr. copia infra, Appendice B.

125

La grafia è sempre quella di Testori.

126

Cfr. G. Geron, Piangono Le Lombarde nella tragedia d’un giovane, «Gazzetta veneta», 2 marzo 1950.

127

come spiega poco oltre, dando voce ad una propria intuizione che diventa programmatica indicazione drammaturgica:

«È probabile che le tragedie non si inventino: esistono; e il fatto tragico è tale proprio in quanto accade e accadendo si brucia e si denuncia.

La mia fobia per i “messaggi” che ben conosci, ha avuto finalmente ragione – e sono contento quanto più ho durato fatica – sui residui moralistici di cui spesso incrocio la verità delle situazioni che affronto. Un difetto, questo, molto comune a noi cristiani»128.

Una «convinzione» che si era corroborata pochi mesi prima, anche dopo la visione dello spettacolo Inquisizione129 che a Testori – ne aveva scritto a Grassi, lamentandosene – era servito per convincersi «con sempre maggior forza di quello che non si deve fare». La condanna categorica destinata all’opera di Fabbri che si legge nella lettera del febbraio del ’50, diventa così più decifrabile e aiuta, viceversa, a comprendere le affermazioni delle nuova versione de Le Lombarde: davanti a scrittori cristiani come Fabbri, scaturiva in lui una presa di coscienza della tendenza moralistica (rilevata anche in sé) nell’approccio drammaturgico:

Forse io sono nella peggiore posizione religiosa, umana e estetica per sentire un’opera simile (e ogni tanto, t’assicuro che m’irritavo perché rivedevo – eseguiti con miglior malizia – scherzetti ed errori da me commessi nei miei primi lavori…), ma almeno il pudore di non tirare fuori il nome di Muriac [sic] il quale, con tutto che non penso che sia in alcun modo un punto di partenza, ha però ben altra sapienza di scrittura. […] In ogni modo vedere Inquisizione, come altre parallele cose, mi serve per convincermi con sempre maggior forza di quello che non si deve fare. Che pena questi scrittori che vanno alla caccia di problematiche sociali e spirituali: si preparano, archibugio d’acquasanta e carabina marxista e si fan precedere da mute di cani: ma i drammi, quelli veri, non si inventano: si realizzano e ne avanza: la fatica di un autore è molto più manuale, ma t’assicuro, caro Paolo, adesso che ho capito, la manualità è più dura e inevitabile della caccia per le praterie dei patemi religiosi o per le foreste delle convulsioni sociali: lì non si sbaglia mai: tira e qualcosa cade sempre, perché si sa, simili praterie e foreste sono stipate di selvaggina falsa, messa lì apposta per soddisfare il cacciatore; e poi c’è sempre chi, seduto sulla poltrona, è pronto a

128

Lettera di G. Testori a G. De Bosio, cit., cfr. infra Appendice B.

129

Inquisizione di D. Fabbri, venne rappresentato il 28 gennaio 1950, a Milano al Teatro Nuovo, con la Compagnia Maltagliati-Benassi, e la regia di Giulio Pacuvio.

spremere la lacrimetta e a convertirsi; c’è sempre il critico che scopre finalmente “il fatto umano che va diretto al cor”…»130.

Un pensiero che si era fatto spazio durante quei mesi, andando via via approfondendosi: se «i drammi, quelli veri, non si inventano: si realizzano e ne avanza», se «le tragedie non si invent[a]no: esistono», allora i «residui moralistici» diventavano un’aggiunta superflua e ideologica all’avvenimento tragico, da rimuovere presto.

Appare evidente, quindi, che il principale motivo ad avere indotto Testori a rivedere il proprio testo, nonostante il debutto di Padova, sia stata la faticosa lotta ingaggiata contro tale propensione artistica e umana: un tentativo di mettere a nudo la verità dei fatti, eliminando ogni tipo di orpello, frutto di quella tensione al “vero” che si scorge fin dall’inizio della lettera – «Leggile; e se, come fermamente credo, ti parranno più vere, decidi tu» –, di cui la riduzione è la risultante artigianale, «manuale».

L’insistenza, nelle battute finali, che l’amico regista legga il testo così risistemato, e che gliene dia un riscontro in breve tempo – «Ti prego dunque di leggere questa redazione delle “Lomabrade” [sic]: e al più presto: e di sapermi dire qualcosa» e ancora «scrivimi o fammi scrivere presto» – riverbero di un carattere sempre passionale e irruento, rimarca soprattutto l’implicito giudizio di valore sul proprio operato, già espresso nella soddisfazione (non frequente in un autore, come lui, ferocemente autocritico) dichiarata poche righe sopra: «e sono contento quanto più ho durato fatica» come segno autocosciente della maturità artistica raggiunta.

A questo si aggiunge la manifestazione del desiderio di poter partecipare al viaggio previsto a Roma e a Strasburgo – «per l’uno e per l’altro vorrei esserci anch’io»131

.

A tale proposito il Maestro De Bosio ha confermato132 con certezza che il viaggio a Strasburgo non si è mai verificato per mancanza di occasioni, mentre ipotizzava un’eventuale replica a Roma, cosa che, in effetti, avvenne nella stagione ’49-’50 in cui il Teatro dell'Università di Padova fu ospitato da quello di Roma, a quel tempo diretto da Squarzina, rappresentando più di uno spettacolo del proprio repertorio: oltre alle Le Lombarde, di Giovanni Testori, La medicina di una ragazza malata di Paolo Ferrari, Il

130

G. Carutti, E. Vasta (a cura di), Testori e il Piccolo: lettere, testimonianze, spettacoli, cit. p.12.

131

Lettera di G. Testori a G. De Bosio, cit., cfr. infra Appendice B.

132

G. Fornari (a cura di), Le Lombarde, tra Ruzante e la guerra, intervista a G. De Bosio (cfr. infra Appendice A, p. 210).

porto di mare di Lecoq, Don Pirlimpilin di Lorca e, sembra, anche Il Tempo e la famiglia di Couvaj Priestlej133.

La volontà di partecipare alle rappresentazioni programmate nella stagione è segno del coinvolgimento personale di Testori e del rapporto, non solo con De Bosio, con cui evidentemente gli incontri non erano infrequenti («te ne avevo parlato a Brescia»134), ma anche con gli altri membri della Compagnia – a cui indirizza il suo «salutami tutti».